La parabola del lievito:

il vangelo e la società

 

 

Sabato 30, ore 17

Relatore:

Sua Em. Card. Angelo Sodano,

Segretario di Stato di Sua Santità

Il regno dei cieli è simile ad un po’ di lievito che una donna ha preso e nascosto in tre misure di farina, affinché il tutto sia fermentato" (Mt 13,33).

Si legge sempre volentieri questa parabola evangelica con cui Gesù ha voluto annunciarci un aspetto caratteristico del suo regno. È una parabola che ci svela tutto il dinamismo interiore che spinge la Chiesa ad operare nel mondo in modo capillare, costante, metodico, affinché tutta la realtà umana sia fermentata dal Vangelo, proprio come nella prospettiva tracciataci da Cristo nella sua parabola: affinché il tutto sia fermentato.

Vorrei cogliere questa occasione per parlarvi dell’opera della Santa Sede in campo internazionale alla luce di questa parabola di Cristo. La Santa Sede è presente nella vita delle nazioni per questo fine specifico, per immettervi il fermento del vangelo del messaggio cristiano di salvezza. È questo il mandato dato da Cristo ai suoi apostoli al termine della sua missione terrena. Egli disse loro: "Andate in tutto il mondo, ammaestrate tutte le nazioni, insegnando loro quanto vi ho annunziato". È questa la missione che i successori degli apostoli, i vescovi delle Chiese particolari, il successore di Pietro nella Chiesa universale portano avanti da venti secoli, fra mille lotte e difficoltà. Ed in questa luce va visto tutto il lavoro pastorale dei romani pontefici nel corso della storia. In questa luce va anche considerata l’attività dei collaboratori del Papa nella curia romana: è un impegno comune per la diffusione del regno di Dio nel mondo. Del resto, questo è il fine per cui tutti i cristiani quando recitano il Padre Nostro si rivolgono al Padre che sta nei cieli, chiedendogli "venga a noi il Tuo regno" (adveniat regnum Tuum).

Come Segretario di Stato, posso assicurarvi che tale è l’ottica con cui a Roma si lavora. Tutte le strutture della curia romana, le rappresentanze pontificie all’estero, gli organismi che operano presso la cattedra di Pietro, tutti tendono a questo unico scopo: portare il lievito del vangelo nella vita degli individui e delle nazioni. Certo è un’opera difficile, come difficile è l’opera di ogni apostolo di fronte ad un mondo che sovente sembra amare più le tenebre che la luce. Infatti, è certamente vera l’affermazione che Dostoevskij ha messo in bocca allo starets: "Davvero tutto è buono e splendido perché tutto è verità". Ma è anche vero ciò che notava il nostro grande poeta Giacomo Leopardi nel canto dedicato alla ginestra, per ricordarci il dramma delle vicende umane. Non per nulla egli premetteva alla sua poesia l’amara constatazione fatta da Cristo a Nicodemo e riferitaci dal vangelo di san Giovanni: "la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce" (Gv 3,19), frase che Leopardi cita in greco. Quando Leopardi nel lontano 1836 scriveva la sua poesia alle falde del Vesuvio, contemplava attonito le colate di cenere e lava che avevano seminato tutto intorno la morte, soffermandosi poi sull’odorosa ginestra che cercava di sopravvivere in quella dura realtà. Erano i contrasti dell’esistenza terrena, che ad un certo punto del suo poemetto gli facevano scuotere amaramente il capo di fronte a quelle magnifiche sorti e progressive che erano state cantate poco prima da Terenzio Mamiani. Certo il male esiste nel mondo: esso però non può e non deve scoraggiare il cristiano dal continuare la sua missione.

Così è per ognuno di voi, per noi vescovi, e così è per il vescovo di Roma, che è chiamato ad essere uno dei centri propulsori dell’annuncio del vangelo di Cristo, vangelo di speranza per gli uomini di ogni tempo. Recentemente, un noto teologo belga ha scritto un libro dal titolo significativo: Il vangelo di fronte al disordine mondiale. Di fronte al disordine creato da ideologie vecchie e nuove, i cristiani devono continuare ad annunciare il vangelo di Cristo e la buona novella, la novella di una grande gioia, come cantarono gli angeli di fronte ai pastori nella notte di Betlemme.

In questo solco si inserisce in particolare l’opera del Papa, pastore della Chiesa universale. È un’opera al servizio del vangelo di Cristo, che deve continuare ad essere annunziato fino agli estremi confini della terra. In quest’ottica va vista anche tutta l’attività della curia romana, e cioè di quegli organismi - una trentina - che coadiuvano il Papa nella sua sollecitudine pastorale. Lo ha messo bene in risalto Giovanni Paolo II nella costituzione apostolica "Pastor Bonus" (il Buon Pastore), con la quale ha ristrutturato la curia romana, il 28 giugno 1988. All’articolo 15 di questo documento pontificio, leggiamo che tutte le questioni devono essere trattate dai vari dicasteri sempre con criteri pastorali e con l’attenzione rivolta alla salvezza delle anime. È questo il fine soprannaturale a cui cercano di ispirarsi gli organismi che compongono la curia romana. È il noto principio lasciatoci dai Padri della Chiesa: "il bene delle anime è la legge suprema" (bonum animarum suprema lex).

Personalmente sono testimone che tale è l’impegno dei responsabili di tutte le varie istituzioni umane che a vario titolo collaborano col pastore della Chiesa universale: segreteria di Stato, congregazioni, tribunali, pontifici consigli, commissioni. Paolo VI delineava la curia romana come un cenacolo permanente di apostoli, totalmente consacrato alla diffusione del vangelo di Dio, come leggiamo nel libro Insegnamenti di Paolo VI, al volume XI. Il sottoscritto da quasi quarant’anni è al servizio della Santa Sede e può assicurarvi che tale è lo spirito con il quale in alto e in basso si continua a lavorare.

Anche le presenze degli inviati pontifici presso gli Stati e presso le organizzazioni internazionali devono essere viste in questa ottica apostolica, la sola che può permettere di afferrare le alte finalità della presenza della Santa Sede in campo internazionale. Ed è questo aspetto che nel periodo postconciliare, e precisamente il 24 giugno del 1969, lo stesso Papa Paolo VI metteva in risalto, nel suo moto proprio: La sollecitudine per tutte le Chiese (sollecitudo omnium ecclesiarum) circa la missione dei rappresentanti pontifici nel mondo d’oggi. In realtà la Chiesa non è solo una comunità di salvezza, è anche una istituzione di salvezza; è un popolo di salvati, ma anche un popolo che salva. Al concetto di comunione, koinonia come dicevano i greci, il Concilio Vaticano II ha anche strettamente unito il concetto di servizio agli altri, di diaconia, come aspetto dinamico della comunione. È quanto è ben messo in risalto nella costituzione pastorale "Gaudium et Spes" dove si parla del servizio specifico della Chiesa nei riguardi dell’umanità. Con parole molte volte citate: servizio che la Chiesa fa all’umanità arrecando la luce che viene dal vangelo e mettendo a disposizione degli uomini le energie di salvezza che la Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, riceve dal suo fondatore.

Ora, se la Chiesa, oltre ad essere comunità di salvezza, è anche istituzione di salvezza, è ovvio che essa deve servirsi di mezzi per raggiungere il suo fine. E fu così che nel corso dei secoli i romani pontefici iniziarono a servirsi, ad esempio, dei propri legati, per tenere i contatti con le Chiese particolari sparse per il mondo, ed anche per mantenere un dialogo permanente con le autorità civili responsabili dei destini dei popoli. Il fenomeno della rappresentanza pontificia va visto in questa luce.

Nei concilii e nei sinodi dei primi secoli della Chiesa, vediamo già un terreno adatto per la manifestazione di quest’organo di comunione e di promozione della vita cristiana. Potremmo ricordare ad esempio il grande Papa san Gregorio Magno (di cui celebreremo la festa tra quattro giorni, il 3 settembre), che prima di essere chiamato alla cattedra di Pietro, nel 790, era stato per vari anni inviato del Papa presso l’imperatore di Costantinopoli. Era monaco benedettino di san Gregorio al celio, prima ancora però era stato prefetto di Roma, e aveva una grande conoscenza di uomini e di cose. Per questo il Papa Benedetto I gli aveva chiesto di recarsi in Oriente, per favorire i contatti della Chiesa di Roma con la Chiesa di Costantinopoli, e per mantenere un dialogo con lo stesso imperatore. Il buon monaco benedettino Gregorio parte dal celio, non disdegna tale servizio, e con alcuni confratelli parte per le vie del Bosforo, cosciente che anche con tale attività serviva la Chiesa e ne favoriva l’ardore missionario in quelle terre.

In seguito, con il sorgere degli Stati moderni del 1400, si andarono instaurando i rapporti tra i vari popoli e si inaugurò anche l’attuale formula delle missioni diplomatiche permanenti. E anche i romani pontefici iniziarono ad usare di tale strumento di contatto permanente con le autorità delle varie nazioni. Nacquero così le prime nunziature apostoliche in Spagna, in Francia, presso la Repubblica di Venezia, in Germania, in Austria. Una bella ricerca storica a tale riguardo è stata fatta dal vescovo di Albenga, monsignor Mario Oliveri, nella sua opera Natura e funzioni dei legati pontifici nella storia e nel contesto ecclesiologico del Vaticano II, volume pubblicato anni fa dalla Libreria Editrice Vaticana.

Oggi la Santa Sede continua a servirsi di tale strumento nei rapporti con gli Stati, appunto per avere la possibilità di essere presente nella vita delle nazioni, per mantenere i contatti con le Chiese locali e promuovere un dialogo anche con le autorità civili, per assicurare la libertà dei cattolici, per favorire l’opera evangelizzatrice della Chiesa e per cooperare al bene comune della società. Oggi la Santa Sede, intendiamo con questo termine il governo centrale della Chiesa Cattolica, mantiene rapporti diplomatici con i governi di 167 Stati. L’ultimo in ordine di tempo che ha instaurato rapporti diplomatici con la Santa Sede è stato il governo dell’Angola, in Africa, all’inizio del mese scorso. I rappresentanti pontifici sparsi nei cinque continenti possono così essere di sostegno all’opera evangelizzatrice delle Chiese particolari, e mantenere un dialogo costante con le autorità civili, dando a Cesare ciò che è di Cesare, e chiedendo però che si dia a Dio ciò che è di Dio.

Una delle grandi figure di rappresentante pontificio dell’era contemporanea è quella di monsignor Angelo Giuseppe Roncalli, che, prima di essere nominato patriarca di Venezia e giungere al sommo pontificato nel 1958 assumendo il nome di Giovanni XXIII, fu per nove anni, dal 1924 al 1934, rappresentante pontificio in Bulgaria, poi in Turchia e Grecia per altri nove anni, dal 1935 al 1944, ed infine, verso la fine della guerra, dal 1945 al 1953, nunzio apostolico in Francia. Nel suo diario pubblicato dopo la morte con il titolo Il giornale dell’anima, leggiamo delle profonde annotazioni dalle quali traspare tutto lo spirito soprannaturale che lo animava. Per lui ogni ministero nella Chiesa doveva tendere allo stesso fine, ed i metodi pastorali erano identici, almeno nella finalità: generosità, pazienza, sacrificio, perseveranza. Quando nel 1953 Pio XII gli chiese di lasciare Parigi per recarsi a Venezia come patriarca di quella sede, egli scriveva nel suo diario: "Ora mi trovo in pieno ministero diretto delle anime. In verità ho sempre ritenuto che per un ecclesiastico la diplomazia cosiddetta deve essere permeata di spirito pastorale. Diversamente non conta nulla e volge al ridicolo una missione santa"6.

In questi ultimi anni sotto il pontificato di Giovanni Paolo II si è intensificata la presenza dei rappresentanti pontifici presso le organizzazioni internazionali. Lo scopo è sempre identico: portare il lievito del vangelo anche nei fori internazionali, laddove si dibattono i problemi della convivenza umana, dei diritti degli uomini e dei popoli, i problemi della giustizia e della pace, i temi della collaborazione per lo sviluppo. Si è così intensificata l’opera della missione pontificia presso l’ONU a New York, attualmente sotto la responsabilità dell’arcivescovo monsignor Renato Martino, delle missioni esistenti presso le istituzioni delle Nazioni Unite a Ginevra come a Vienna; altrettanto si dica delle altre rappresentanze pontificie a Parigi presso l’Unesco, a Roma presso la FAO; ancora, lo stesso accade con la presenza della Santa Sede presso le istituzioni europee, ed infatti presso l’Unione Europea a Bruxelles vi è una nunziatura apostolica attualmente sotto la responsabilità di un prelato francese, c’è un osservatore presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo, attualmente un prelato di origine irlandese, vi è una presenza della Santa Sede a Vienna presso l’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, OSCE già CSCE.

I discorsi tenuti a New York dal Papa di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite rispecchiano il significato di questa presenza (Paolo VI vi fu nel 1965, Giovanni Paolo II per due volte, nel 1979 e nel 1995) illustrando tutte le alte finalità religiose che animano la Santa Sede ad essere presente nella vita internazionale per far sì che essa sia ispirata dal vangelo, dalla dignità della persona umana, dall’importanza della famiglia, perché sia ispirata dal vangelo della concordia e della pace, ovvero dal vangelo della giustizia e dell’amore. L’ordine internazionale deve basarsi infatti su qualcosa di solido, altrimenti è un tavolo che non sta in piedi. Un articolo di questa mattina dell’ex-presidente del consiglio Amato reca il titolo sintetico "Etica: la forza del Papa": questa è la forza del Papa e la forza della Chiesa, ricordare quei principi etici senza i quali il tavolo internazionale non si regge.

Qualcuno ancora oggi afferma che basta il principio della libertà per sorreggere l’ordine sociale. Ma si sta facendo strada anche la convinzione che la libertà da sola non basta ad assicurare la stabilità dell’ordine sociale, la libertà ce l’ha anche un cieco di andare dove vuole, ma se non c’è uno che lo guida, se non c’è una luce che lo illumina può cadere anche nel precipizio; per noi cristiani la luce che illumina la libertà è la luce del vangelo, e per gli uomini tutti è la legge naturale che assicura del retto cammino. Certo il principio della libertà è importante, ma va integrato con altri principi: già papa Giovanni XXIII in varie sue encicliche diceva che l’ordine internazionale deve basarsi su quattro pilastri: libertà, verità, giustizia e carità.

Un giovane studioso italiano Ugo Colombo ci ha recentemente illustrato l’opera della Santa Sede nell’attuale contesto mondiale con un volume edito pochi mesi fa da Giuffrè, dal titolo Giovanni Paolo II, il nuovo protettore internazionale della Santa Sede. L’autore mette bene in luce quali siano quei valori profondi che la Santa Sede si sforza di promuovere sulla scena internazionale: sono i diritti della donna e dell’uomo ancorati ad una chiara visione antropologica, sono i diritti dei poveri e dei paesi sottosviluppati, sono i diritti delle nazioni che aspirano alla pace. La globalizzazione del mondo sta creando nuove sfide agli Stati ma essa offre anche alla Chiesa delle nuove opportunità di azione per portare a tutti i popoli della terra quella parola di verità che essa ha ricevuto da Cristo.

L’uomo in questi ultimi anni ha cercato di coordinare e di guidare in certo senso tale globalizzazione promuovendo anche apposite conferenze internazionali su problemi globali interdipendenti: era quindi doveroso per la Santa Sede seguire da vicino questi sforzi, anche se talora essi venivano alterati dalla cultura relativista esistente in molti paesi occidentali. Motivo di più questo per essere presenti ponendo i responsabili delle nazioni di fronte ai propri compiti: l’idea di adottare la politica della sedia vuota o peggio ancora di sbattere la porta non poteva presa in considerazione, ed è così che la Santa Sede ha potuto agire dal di dentro come il classico lievito della donna del vangelo.

Le recenti grandi conferenze internazionali sono state sei: la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo tenuta a Rio de Janeiro nel giugno 1992, la Conferenza mondiale sui diritti umani che ebbe a luogo a Vienna nel giugno del 1993, la Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo realizzatasi al Cairo nel settembre del 1994, il Summit mondiale per lo sviluppo sociale tenutosi a Copenaghen in Danimarca nel marzo del 1995, la Conferenza mondiale sulle donne riunitosi a Pechino nel settembre del 1995 e infine la Conferenza dell’ONU sugli insediamenti umani, Habitat, tenutasi a Istanbul nel giugno del 1996. Io stesso guidai la delegazione della Santa sede a tre di tali conferenze, toccando con mano l’importanza di una presenza illuminatrice e stimolatrice su temi che toccavano e toccano da vicino i destini dell’umanità. A Rio de Janeiro si adottò una strategia globale per lo sviluppo sostenibile che è diventata poi la base per molti piani nazionali; a Vienna si ebbe la prima conferenza mondiale sui diritti umani del periodo post-guerra fredda, giungendo alla creazione del primo Alto Commissariato dell’ONU per i diritti umani ed includendo la promozione di tali diritti fra gli elementi fondamentali della missione dell’ONU per la pace nel mondo; al Cairo le delegazioni presenti, ben 182, con 3.500 delegati, cercarono una via per una responsabile pianificazione familiare, ma pur fra tanti contrasti riaffermarono che solo con l’educazione e il rispetto della libertà di coscienza era possibile avere una popolazione sostenibile; a Copenaghen si prese l’impegno di sradicare la povertà come un imperativo etico, sociale, politico ed economico, e pur riconoscendo gli enormi passi che sono stati fatti in questo campo, le nazioni presenti si impegnarono per la prima volta nella storia a salvaguardare i diritti fondamentali dei lavoratori; a Pechino si delineò un piano di azione quinquiennale per rafforzare l’assunzione di potere a livello sociale, politico ed economico delle donne, per migliorare la loro salute, per fare progredire la loro educazione e i loro diritti. Infine ad Istanbul la Conferenza Habitat incluse alcuni orientamenti rivolti alla politica della casa, sia in ambito urbano che rurale, per favorire la piena e progressiva realizzazione del diritto all’alloggio adeguato. Questi temi, evidentemente, comportavano una precisa visione della vita, una determinata concezione della dignità dell’uomo, della donna, della famiglia, una concezione su basi morali della convivenza nazionale ed internazionale: per questo il Papa Giovanni Paolo II volle che la Santa Sede quale organismo rappresentativo della Chiesa Cattolica ed ente sovrano del diritto internazionale fosse presente in tali fori.

In questi contesti si potevano scorgere quasi in filigrana il contrapporsi di modelli di vita assai diversi, teorie dissimili sullo sviluppo e sul destino dell’uomo. Un grande influsso lo ebbe fin dall’inizio la visione di un individualismo amorale propugnato da parecchi paesi occidentali, ed in questo senso l’Europa non si fece onore: fu quindi opportuno che i rappresentanti della Santa Sede ricordassero i grandi principi etici che sono alla base di ogni vita individuale e sociale, e in qualche caso, visti vani tutti gli sforzi per un dialogo costruttivo, si cercò di contrastare chi chiaramente sosteneva principi o strategie che avrebbero offeso la dignità dell’uomo e della donna, che avrebbero offuscato i diritti della famiglia e le legittime aspirazioni dei poveri. L’opposizione della Santa Sede è stata ferma ed è giunta finanche alla protesta in alcuni casi. Ordinariamente la Santa Sede ha preferito la via della presenza costruttrice, anche a costi di mille sacrifici: tempi lunghi, partecipazione ad estenuanti comitati preparatori, contatti informali sensibilizzazione dei più vicini, riunioni di esperti... così facendo la Santa Sede ha inteso richiamare l’ONU alla sua vocazione originaria, salvandone in un certo senso l’identità di organizzazione di popoli uniti nel riconoscere i diritti fondamentali dell’uomo.

Questo è anche l’invito che il Papa ha rivolto personalmente ai rappresentanti di tutti i paesi del mondo: commemorando, il 5 ottobre del 1995, il cinquantenario delle Nazioni Unite, egli ha richiamato gli individui ed i popoli a far un uso responsabile del grande dono della libertà, ricordando che la libertà è ordinata alla verità e che si realizza ricercandone i fondamenti; staccata dalla verità, la libertà scade nella vita individuale in licenza, nella vita politica scade nell’arbitrio dei più forti e nell’arroganza dei più potenti. Il Papa ha ricordato alle Nazioni Unite che se vogliono elevarsi dal freddo stadio di istituzione di tipo amministrativo a quello di centro morale, devono fare un salto di qualità, promuovendo quei valori che danno una base organica alla convivenza internazionale.

La Chiesa, come dovrebbe risultare chiaro da quanto fin qui detto, non può richiudersi in se stessa, ma deve essere fedele al mandato missionario universale ricevuto da Cristo ("Andate per tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura", Mc 16,15), è una Chiesa che deve annunciare agli uomini di oggi il vangelo della speranza cristiana, dando un sapore all’esistenza umana così come il lievito rende gustoso il pane quotidiano. È questa un’opera immane che impegna tutti i cristiani chiamati a dare un’anima alla civiltà, come già indicava alle comunità cristiane dei primi secoli l’anonimo autore della Lettera a Diogneto. Questa è un’opera che porta avanti ogni vescovo nella Chiesa, ed in particolare il vescovo di Roma, da quella sede stabilita da Cristo come roccia stabile di unità, ma anche come barca destinata a solcare tutti i mari per portare il vangelo di Cristo ad ogni creatura. È così che il cristiano vede la Chiesa: essa esiste per evangelizzare e per santificare. Ogni altro scopo le è estraneo.

Anche fra le difficoltà dell’ora presente, la fede cristiana ci invita a non avere paura dell’uomo, a non avere paura del futuro; il vangelo di Cristo ha un valore trasformante anche l’attuale civiltà, come ricordava ancora il Papa Giovanni Paolo II di fronte alla Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 5 ottobre del 1995, dicendo che con la luce che viene dal vangelo di Cristo e con la forza che scaturisce dalla sua grazia noi possiamo insieme preparare l’avvento del terzo millennio dell’era cristiana con la speranza che esso segni una nuova primavera dello spirito umano.

 

 

 

 

NOTE

1 Giornale dell’anima, p. 136.