Pubblico e privato per la tutela
dei beni culturali
Tavola rotonda promossa dal FAI, Fondo per l’Ambiente Italiano
Giovedì 22, ore 18.30
Relatori: Andrea Emiliani, Giuseppe Gherpelli,
Renato Bazzoni, Sopraintendente ai Beni Artistici Membro del Comitato di Settore dei
Architetto, Segretario e Storici delle Province di Beni Archivistici del Ministero
Generale del FAI Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna per i Beni Culturali
Anna Somers Cock, Alberto Galaverni,
Storica dell’Arte Presidente del FAI Emilia Romagna
Bazzoni:
Il FAI ha vent’anni e qualche mese, molto sofferti ma anche colmi di risultati positivi, certamente superiori a quelli che i quattro fondatori nel 1975 si attendevano. Dopo questi vent’anni, era giunto il momento di ampliare decisamente il campo d’azione della nostra fondazione, e abbiamo trovato nel Meeting di Rimini questo ideale campo.Il FAI è nato sulla scia del National Trust inglese, che ha scoperto e messo in pratica nei cento anni della sua vita un sistema per tutelare i beni culturali e ambientali che, secondo il costume inglese, è pragmatico, semplice e impegnativo nello stesso tempo. Questo sistema incomincia dalla acquisizione da parte del National Trust stesso dei beni culturali e ambientali che si vogliono salvare: questo significa che vengono ereditati, oppure in pochi casi acquistati o infine ricevuti in donazione o in comodato. È chiaro che quando un ente come il National Trust, nato per tutelare i beni, se ne assume la paternità, è finito ogni pericolo di incuria, di abbandono e di speculazione. Abbiamo introdotto in Italia questo sistema, mutuandolo e adattandolo all’ambiente italiano.
Quando il FAI stava nascendo e cominciavamo a studiare il National Trust, abbiamo scoperto subito che non ha senso il fossato che in Italia si è scavato tra pubblico e privato, e fin dai primi anni di vita del FAI abbiamo quindi tessuto una rete che potesse superare questo divario.
Successivamente i legami con i vari enti pubblici si sono estesi: anzitutto con le soprintendenze poi con lo Stato, i comuni. Un esempio: il castello di Manta. Il Comune ha affidato al FAI per 40 anni la chiesa castellana, una chiesa del castello che il comune aveva comperato dai conti, ma che non sapeva assolutamente come gestire, non solo per mancanza di mezzi e di soldi, ma di cultura. Il FAI, grazie ai privati, del cui aiuto vive, è riuscito a sistemare completamente il tetto e a bloccare così l’umidità che stava permeando tutta l’aula e soprattutto tutta l’abside, dove c’è un bellissimo ciclo di affreschi religiosi sulla vita di Cristo dei primi decenni del ‘400. Per il restauro della chiesa, il secondo momento dell’intervento, il FAI ha già i fondi, trovati dai soldi dei generosi privati; seguiranno i preziosi affreschi. Secondo i termini del comodato, fra 25 anni il FAI restituirà al Comune la sua chiesa completamente restaurata, avendo così svolto un servizio pubblico non da poco.
Somers Cock: Devo premettere che noi partiamo da principi molto diversi, perché in Inghilterra non si è mai presupposto che tutto quello che era bello artisticamente dovesse appartenere allo Stato, anzi ci siamo preoccupati perché in alcuni casi lo Stato si è tenuto fin troppo distante dalla cultura e dal patrimonio.
Il National Trust fu fondato alla fine del secolo scorso da una donna formidabile, Ottavia Hill, principalmente per la tutela del paesaggio; oggi ha due milioni di aderenti, che pagano 75.000 lire all’anno; non riceve una lira direttamente dallo Stato, alla fine dell’anno deve dimostrare che ha pareggiato i suoi conti; gestisce 250.000 ettari di paesaggio, 800 Km di costa, 200 dimore storiche, 162 giardini, 60 villaggi. L’idea base del National Trust di Londra è di non essere burocratico e centralizzato ma di avere una serie di "cellule" in tutto il paese e di coinvolgere al massimo la gente. E infatti i milioni di aderenti hanno avuto delle idee geniali, per esempio hanno ideato una serie di sistemi di apprendistato, grazie ai quali ragazzi sedicenni possono studiare con il Nationali Trust per tre anni, pagando una piccola somma di 12 milioni all’anno, imparando così un mestiere agricolo evoluto, oppure il giardinaggio evoluto, e alla fine lo Stato concede loro un diploma. È questa una forma di collaborazione tra privato e Stato.
Un’altra idea geniale è partita dall’aver capito che la gente ha bisogno di svaghi, ma di svaghi con un po’ di senso, e di cambiare mestiere: ad esempio, quelli che lavorano in ufficio vorrebbero lavorare all’aria aperta. Così pagando 100.000 lire, si può andare a lavorare con il National Trust per cinque giorni: si viene intrattenuti nelle serate, ma per 8 ore durante il giorno si puliscono i boschi.
Come già dicevo il National Trust non riceve soldi statali direttamente, solo a volte e in maniera indiretta. Ad esempio la gestione di una dimora storica con la sua collezione e il suo parco costa moltissimi soldi, e non può essere accettata quando viene data dal privato al National Trust senza una dote. Questa dote una volta consisteva in una certa quantità di ettari di terreno, ma questo oggi giorno purtroppo non basta, e dunque il National Trust deve chiedere anche un fondo capitale: la casa, le opere d’arte, i terreni, e in molti casi soldi.
Un anno fa abbiamo escogitato un altro sistema per la tutela dei beni ambientali e culturali, una lotteria nazionale: gli inglesi sono diventati matti, scommettono moltissimi soldi. Soltanto il settore del National Trust che si occupa di regalare utili al patrimonio per paesaggi, opere, dimore storiche, musei, distribuisce 875 miliardi di lire all’anno. Questa distribuzione, di cui anche io mi occupo, avviene in modo particolare: non si distribuisce tutta la somma richiesta, e l’ente che la vuole, che deve essere un ente pubblico, deve dimostrare che il suo progetto sarà efficiente. Non si può fare l’elemosina, bisogna dimostrare di essere capaci di fare uno sforzo. Questo scaccia l’atteggiamento "Lo Stato provvederà" ed è una vera collaborazione tra il cittadino e lo Stato.
Emiliani: La tradizione artistica italiana comporta un’attenzione su un terreno di "umanizzazione" talmente fitto, intenso, capillare, da essere imparagonabile a quello di tutto il resto del mondo, e così intensamente popolato di immagini da dover essere curato, sorvegliato, mantenuto in ogni momento. Tutto ciò era già molto attivo alla fine del XVIII secolo; ed è appunto il concetto di "umanizzazione" che regge il volto di un’Italia con 95.000 chiese – e 24.000 sono scomparse nell’ultimo secolo! –, 2.000 città o insediamenti, oltre 3.000 musei... Lo Stato protezionista si è preso l’incarico della tutela di questo immenso patrimonio da molto tempo, e ha tentato di farlo anche rendere.
Abbiamo subito in questi ultimi anni una forte spinta alla produttività, che ha fatto cambiare ad esempio la concezione del museo. Il museo è diventato un luogo dove fare riunioni, mostre, un luogo tale da essere tutelato. Ronchey, essendo di formazione statunitense, ha fortemente inciso con la sua grande attenzione e pubblicità sugli aspetti della reddittività da bookshop... E così, i nostri musei si sono riempiti di cartolibrerie in cui è possibile trovare di tutto... Rendere l’arte produttiva significa anche vendere oggetti, vendere cultura. Non bisogna pensare però – ed è un po’ l’ossessione di questi anni – che anche i musei e l’arte in generale debbano essere gestiti dalla mentalità bocconiana.
Lo Stato ha accettato di gestire il patrimonio artistico con una legge che è stata scritta da Pio VII nel 1802, una legge di una intellettualità straordinaria, nata con l’aiuto dei nostri colleghi inglesi che hanno permesso, pagando, che l’Italia riavesse indietro ciò che Napoleone si era preso. Questa legge viene accusata di essere monolitica, aurea – come dicono gli specialisti –, imperativa, protezionista, paralizzante. Ma credete che di fronte ad essa non siano nate le leggi d’appoggio? O pensate che ci sia bisogno di ricorrere a una grande riforma costituzionale che si chiama decentramento o federalismo?
In teoria ad esempio la legge 512 dovrebbe consentire ai privati di collaborare alla tutela dei beni culturali: secondo questa legge, chiunque può dichiarare con una lettera semplice di voler impegnare il proprio reddito per una certa percentuale al restauro dei dipinti – faccio un esempio – di Donato Creti della chiesa di San Bernardino di Rimini, che ne hanno bisogno e che lo Stato non riesce a restaurare.
Tutto questo è possibile, o dovrebbe esserlo; qui si ferma, o dovrebbe fermarsi, il vecchio protezionismo italiano.
Galaverni: In Italia esistono parecchie migliaia di beni artistici e culturali, tra musei, biblioteche, dimore storiche, aree archeologiche... il nostro paese possiede la massima densità di beni culturali per chilometro quadrato del mondo intero: la sola Toscana ha più beni culturali dell’intera Spagna.
Tutto questo, le colonne, gli archi, i dipinti, le sculture, le biblioteche, i musei, vale lo 0.19% del bilancio dello Stato: meno di due lire ogni mille sono spese per la più abbondante e preziosa materia prima del paese. Lo Stato e gli Enti pubblici sia centrali che periferici, nonostante la capacità e la passione profuse da tanti soprintendenti e funzionari, non dispongono né di mezzi né di personale sufficienti, per interventi adeguati a tutti i livelli necessari e devono concentrare le risorse economiche sui beni di più rilevante interesse pubblico.
Qui si affaccia il grandissimo potenziale di attività degli enti privati di tutela, i quali, volontariamente costituiti senza scopo di lucro, svolgono un importante ruolo di affiancamento per gli interventi sul vastissimo patrimonio. Tali enti esistono a vari livelli, dai comitati, alle associazioni e alle fondazioni. Il Fondo per l’Ambiente Italiano è una fondazione di carattere nazionale, riconosciuto con D.P.R.; tuttavia il FAI è sottoposto ad un pesante regime autorizzativo, a pastoie burocratiche che in Inghilterra sarebbero inimmaginabili. In genere gli enti di questo tipo risentono della carenza di una base partecipativa: il FAI costituisce invece una felice eccezione, perché attraverso un colpo di genio e di passione dei suoi dirigenti, in particolare dell’architetto Bedroni, segretario generale, ha nello Statuto anche la possibilità di attrarre l’elemento personale. Il FAI è al tempo stesso fondazione ed associazione, e ormai conta 30000 aderenti.
La situazione attuale di tutti gli enti di tutela privati presenta un alto grado di parcellizazione delle strutture, una prevalente polverizzazione di iniziative culturali, fra loro in maggior parte scoordinate perciò molte volte ripetitive: basta pensare alle mostre, che raramente si differenziano tra loro e altrettanto raramente si pongono ad un certo livello. Manca un collegamento all’attività degli enti e degli istituti privati di tutela, manca il requisito del coordinamento operativo, necessario per costituire un sistema economico culturale omogeneo. Questo requisito non può essere formato fondendo e riunendo fondazioni ed associazioni: è utopistico, impossibile, socialmente e umanamente, oltre che giuridicamente; invece, può essere formato mediante la presenza di strutture di servizio che agiscono per conto di quella vasta platea di istituti che non possiedono dimensioni sufficenti per attuare una gestione imprenditoriale.
Una proposta di strumento di coordinamento esiste: è stata presentata la quarta conferenza degli studi culturali a Roma, il 26 ottobre 1995, ed il Comitato di Settore Permanente presso il Ministero l’ha fatta propria. Si tratta di un Consorzio Nazionale per la gestione delle iniziative degli enti di tutela. Si pensa di costituire, superate alcune difficoltà giuridiche, una società per azioni: le varie associazioni e fondazioni vi possono aderire sotto forma di partecipazione mantenendo pienamente la propria autonomia patrimoniale di potere e di sede, ma delegando in parte la gestione che diventerebbe collettiva.
In sintesi: gli enti di tutela privata, gli istituti culturali di medie e piccole dimensioni, ferma restando la loro forma autonoma giuridica, devono realizzare un processo di concentrazione operativa simile a quello recentemente adottato in altri settori. Sono le esigenze della società post-industriale, la società dell’informazione, la ormai incombente civiltà telematica, a rendere obbligatoria questa scelta.
L’efficienza delle gestione è il mezzo migliore, ma ciò che in ogni modo importa è il fine, ovvero la valenza culturale di ciò che ci proponiamo.
Gherpelli: Mi limiterò a segnalare alcuni punti di riflessioni su due temi.
Il primo è quello dell’autonomia. Ho seguito con attenzione l’esperienza del Ministro Ronchey, la cui legge, nonostante gli ostacoli imposti dalla burocrazia ministeriale, è sicuramente riuscita a velocizzare e a deideoligizzare il dibattito sul rapporto fra pubblico e privato e sull’economia dei beni culturali.
Anche sul tema della fondazioni c’è molto da discutere circa le loro finalità e la loro corretta integrazione con il mondo delle organizzazioni culturali: il problema rimane però quello di semplificare la gestione e di trovare delle soluzioni concrete ai temi che la tutela e la valorizzazione impongono, scegliendo quei percorsi che portano alla identificazione di responsabilità precise nelle decisioni che riguardano l’organizzazione delle attività del mondo culturale. Da questo punto di vista occorre avvertire tutta la pericolosità insita nella distinzione che molti fanno fra i compiti di tutela e conservazione da una parte e quelli della valorizzazione del patrimonio dall’altra.
Detto questo, bisogna aggiungere che non si può continuare a mantenere una centralizzazione delle competenze come quella attualmente in vigore: per un Paese come il nostro il decentramento – parola abusata negli anni ‘60 e ‘70, ma mai messa effettivamente in campo – è l’unica soluzione concretamente applicabile. Ma decentramento significa prima di tutto autonomia piena rispetto a quelle competenze che la legge affida agli uffici periferici dello Stato. Solo un rapporto diretto, totale e pieno tra le soprintendenze – che vanno colmate di competenze più ricche, aumentate di numero, dislocate territorialmente in modo diverso e infine rafforzate dal punto di vista delle risorse tecnologiche – è l’unica forma di garanzia che la tutela del patrimonio italiano avrà un processo di federalismo o di decentramento delle materie dei beni culturali.
Affronto così il secondo punto, raccontando l’esperienza che stiamo cercando di mettere in atto con l’Agenzia di Iniziative Culturali dell’Emilia Romagna. Si è costituita nel ‘92 una società per azioni che non usufruisce di alcun contributo pubblico o privato, opera sul mercato, non ha confini regionali, e quanto ad attività, sviluppa sostanzialmente due linee di lavoro: elabora modelli di gestione delle istituzioni culturali sperimentandone anche in qualche caso l’applicazione, ed organizza eventi culturali relativamente complessi. L’esperienza di questa agenzia, che è costituita per il 51% del suo capitale da un intervento della regione Emilia Romagna e per il 49% da società private (che non hanno intenzione di sponsorizzare alcuna delle attività, ma hanno fatto un investimento e richiedono perciò la presentazione di bilancio attuali con margini sia pure relativi di profitto) dà il segno di uno dei modi che si possono adottare per intervenire in quella funzione di supporto, ideazione e creazione di servizi, di cui il pubblico in Italia ha bisogno. I nostri clienti principali sono le Amministrazioni Pubbliche, che da qualche tempo non hanno più spazi per ampliamenti di organici o utilizzi senza confini di risorse, ma hanno problemi di gestione delle loro istituzioni. Siamo arrivati ad impiegare, fra il ‘94 ed il ‘95, oltre 350 persone, di cui circa 250 giovani alla prima esperienza di gestione e di organizzazione di eventi culturali. Credo che questa esperienza possa essere tenuta in considerazione, e che vada osservata mentre si evolve, perché non ha molti precedenti e si muove su un terreno pieno di incognite e di pericoli. Ritengo che nell’ottica degli elementi di novità nel difficile rapporto fra pubblico e privato in Italia essa rappresenti un punto di riflessione.