Venerdì 28 agosto 1981

INCONTRO CON IL SEN. GIOVANNI SPADOLINI

Presidente dei Consiglio dei Ministri.

 

Interventi di saluto di:

Avv. Antonio Smurro:

Presidente dell'Associazione "Meeting per l'amicizia fra i popoli";

Prof. Roberto Formigoni:

Membro dei Comitato Organizzativo del Meeting.

A. Smurro:

A nome dell'Associazione "Meeting per l'amicizia fra i popoli" e mio personale ho l’onore di porgere il benvenuto ed un sentito ringraziamento al Sen. Giovanni Spadolini, Presidente dei Consiglio dei Ministri, per la sua partecipazione a questo nostro raduno. E mi fa anche piacere in questa occasione ricordare che è la prima volta che un Presidente dei Consiglio dei Ministri viene nella città di Rimini. La Sua presenza Signor Presidente esalta ulteriormente quegli ideali di solidarietà, fraternità ed unità che sono stati alla base di questa edizione dei Meeting che ha avuto per tema "L’Europa dei popoli e delle culture". Ringrazio anche tutti coloro, italiani e stranieri, che sono presenti e che in questo momento attorno a Lei avvertono il desiderio e la speranza di nuove condizioni di vita interna ed internazionale. Mi è infine gradito rivolgere un saluto alle autorità locali, in particolare al Sindaco di Rimini, a quelle regionali e nazionali, ai parlamentari italiani ed europei presenti. Un caldo saluto anche al Ministro dei Turismo e dello Spettacolo On. Nicola Signorello. Quest’occasione d'incontro, ritengo, rimarrà un punto di riferimento indimenticabile per quanti, com’è accaduto in questi giorni, avvertono la responsabilità di un impegno nella vita della nazione. Ancora un grazie sentito, Sig. Presidente, da parte del Meeting per l’amicizia fra i popoli.

G. Spadolini

Sono trascorsi quarant'anni da quando, confinati sul piccolo scoglio di Ventotene, mentre nell’Europa sconvolta dalla guerra gli eserciti di Hitler dilagavano con forza ancora apparentemente inarrestabile, un gruppo d’antifascisti d’estrazione democratica - Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Altiero Spinelli - raccoglievano in un programma d’azione le loro riflessioni sui problemi di quell’Europa dei dopoguerra che già allora essi prefiguravano. Il loro audace e lungimirante scritto, che poi fu chiamato "Il manifesto di Ventotene", affidato alle incertezze e ai pericoli della distribuzione clandestina, sarebbe diventato ben presto uno dei testi sacri dei federalismo europeo. Essi scrivevano - con una capacità di previsione quasi profetica per quegli anni oscuri - che l'unica soluzione capace di assicurare il benessere e la sicurezza dell’Europa destinata ad emergere dalla tragedia della guerra mondiale (una guerra che per la seconda volta in pochi decenni aveva trovato origine in un conflitto fra nazioni europee), stava nel superamento dell’idea della sovranità nazionale - come dire dei filo conduttore dello sviluppo della civiltà europea, o almeno di una sua parte cospicua, nei sei secoli precedenti - e nella costituzione di un’Europa federale fra le nazioni europee: giganti che avevano fino ad allora dominato il mondo, ma che erano destinati a perdere progressivamente d’influenza a fronte dell’emergere delle due nuove potenze continentali, gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica. Le tesi di Rossi, Colorni e Spinelli non aprivano una prospettiva completamente nuova e inesplorata. Esse rivisitavano ed aggiornavano, calandole nel vivo della situazione politica internazionale, un’idea europeistica antica ma non per questo meno attuale. Un’idea della quale da storico voglio rapidamente ripercorrere le tappe fondamentali. A cominciare dall'affermazione di quel nesso fra Europa e Cristianesimo che mai sfuggì ai grandi pensatori dei Liberalismo. E’ un nesso, quello fra Europa e Cristianesimo, connaturato alla stessa idea dell’Europa, nonostante talune parvenze anticristiane, come le chiamò, con espressione tanto significativa, Benedetto Croce nel momento in cui sottolineò le origini cristiane della civiltà moderna, e quindi dell’Europa moderna, nelle sue indimenticabili pagine dei ‘42 intitolate "Non possiamo non dirci cristiani". Non a caso l’Europa, come idea, nasce nel Settecento. Nasce nel Settecento come idea d’unità continentale e d’organizzazione dei popoli, nel clima dei cosmopolitismo e dell’Illuminismo, ma innestandosi su una tradizione cristiana, che è la tradizione della "Res-publica christiana" dei Medio Evo (cioè la tradizione dei primi tentativi d’unità delle genti europee sotto il segno dei Papato, rivissuta e reinterpretata e direi trasformata dall’illuminismo. Cosi come si è configurata nel mondo moderno, l’idea europea sorge dall'incontro fra Cristianesimo e Illuminismo, fra la fede nel riscatto cristiano e la fede nella laica dignità dell'uomo, fra l’ideale evangelico e l'ideale democratico, fra la civitas Dei e la civitas hominis. Res-Publica Christiana: l'ideale medievale rifiammeggia nel secolo dei lumi vestendosi d’abiti laici. E precisandosi in due significati fondamentali: cristianità come umanità e com’ecumenicità. Cristianità come humanitas, cioè come sinonimo di tutti i valori umani, di ragione, di dignità dell’uomo, brillanti nell’intuizione cristiana dei mondo. Cristianità com’ecumenicità che veniva poi ad identificarsi, in quei limiti geografici dei mondo, con la stessa europeità, con lo stesso europeismo. L’ecumenismo della seconda metà dei Settecento si arresta ancora, nonostante "Les lettres persanes" nonostante lo sguardo curioso all’Asia, si arresta alle "colonne d’Ercole" della tradizione europea, considera l’America come una propaggine o come un'appendice dei vecchio continente, scruta l’Asia con un’inquietudine che confina con la fantasia e coi sogno. Di qui l'innesto, sia pure provvisorio e strumentale, fra ecumenismo ed europeismo; di qui sogno di attuare la "Città dei sole", cioè la fraterna comunità degli uomini, nell’ambito dell’Europa, il continente privilegiato e quasi predestinato a realizzare nuove forme di collaborazione internazionale senza guerra e senza odi nazionali (cioè l’ideale che brilla nel trattato sulla Pace perpetua di Kant, l’ideale che brilla nell’Abbé de Saint Pierre, in Rousseau, nello stesso Voltaire, quello straordinario mangiapreti indubbiamente nemico della teocrazia medievale, il quale parla per primo di "Europa cristiana". Europa cristiana! E' un termine che, usato da Voltaire, ritorna in Rousseau e in Montesquieu, nello stesso Montesquieu che definisce l’Europa per la prima volta "un Etat composé de piusieurs provinces", uno Stato composto di diverse province. Dal Cristianesimo all'illuminismo il passo è breve: dalla rivendicazione cristiana della coscienza individuale contro ogni oppressione, contro ogni statolatria (che è il cuore della religione dei ‘700, della religione dei lumi) si arriva direttamente alla celebrazione di tutte le libertà e di tutte le garanzie democratiche consacrate nella Rivoluzione Americana, non meno che nella Rivoluzione Francese. Il principio evangelico diventa ispiratore dei diritti di libertà, anche di libertà giuridica e formale. Nasce, da quell’antica e mai smentita intuizione cristiana, il senso dell’Europa come libertà. Europa e Cristianesimo; Europa e libertà. E’ il senso che Michelet riassumeva nella famosa immagine: "ciò che di più umano e di più libero c’è nel mondo è l’Europa". "Surtout plus libre". Europa e libertà: ecco il secondo nesso che da storico prima ancora che da uomo politico voglio qui sottolineare, anche se a nessuno può sfuggire la straordinaria attualità politica di questi legami. E' una mediazione lunga, quella fra Europa e libertà, una mediazione che nasce attraverso Erasmo e Machiavelli, che lega l’illuminismo all’Umanesimo, che ci riporta indietro di secoli. Come non riascoltare la parola d’Erasmo, come non tornare a quell'esperienza del Rinascimento e dell’Umanesimo, che lega l’intuizione cristiana dei mondo alla scoperta delle moderne libertà democratiche attraverso un innesto indispensabile, insostituibile? E’ l’innesto fra cristianità e cultura, e sul terreno, sul suolo terreno fecondatore, della libertà. Erasmo e Machiavelli, ho detto: perché Machiavelli aveva intuito e difeso per primo l’idea dell’Europa come terra della Repubblica, cioè della libertà, contro il dispotismo asiatico, strumento cioè, il nostro continente, dei l'affermazione della virtù, intesa com’energia creatrice dell'individuo, come forza d’espansione, di celebrazione della libera personalità. Il terzo decisivo innesto da cui nasce l'idea europea, dopo quello fra Europa e Cristianesimo, dopo quello fra Europa e libertà, è fra Europa e democrazia: il grande ideale che dominerà l’Ottocento, il secolo delle nazionalità e della conquista delle istituzioni democratiche. Tre nomi, tre soli nomi per dare il senso di come - pur nel secolo che esasperava, necessariamente, nobilmente, l'idea nazionale - questo culto dell'Europa come "gran corpo civile", come "civil society" secondo le parole di Gibbon, sopravviva e ispiri sia la Giovane Europa di Mazzini sia gli Stati Uniti d’Europa di Cattaneo, sia la Nuova Europa di Giuseppe Montanelli, il patriota toscano che a questo tema e a questa testata ispira addirittura una rivista. Cattaneo è la figura più moderna dell'europeismo ottocentesco, è la più vicina alla nostra sensibilità. E’ la rivolta contro ogni centralismo soffocatore, è la rivendicazione dei fondamentali diritti umani innestati su una mentalità che potremmo chiamare "pluralistica e federale" (Cattaneo aveva sentito molto l’esperienza dei mondo americano, aveva letto la "Democrazia in America" di Tocqueville. Di qui la sua famosa frase dei ‘48 "Avremo pace solo quando avremo gli Stati Uniti d’Europa"). Più complessa e tormentata la visione mazziniana dell’Europa, una visione che porta con se un elemento di modernità profetica, sia pure al servizio di una fede laica, spiritualistica, che vede nell’Europa un’arma di rottura dei vecchio ordine sociale, al servizio di un ideale di democrazia religiosa. Comunque tutti i fermenti europeisti, brillati nel nostro riscatto nazionale, si prolungano nelle correnti democratiche e repubblicane dei secondo Ottocento e compenetreranno anche il nascente socialismo, il quale alla fine dei secolo porterà con sé - pensate a Bissolati, per fare un solo nome - una tradizione e una vocazione di civiltà europea. Il senso dell’Europa come portatrice di civiltà, e di una civiltà comune, si riprecisa e definisce un senso unitario nel periodo fra le due guerre e prima della tremenda devastazione hitleriana. Ma è un culto che rifiorisce soprattutto dopo la grande delusione e dopo le terribili esperienze della seconda guerra mondiale: allorché Bernanos può parlare di un partito d'Europa come il solo partito che si oppone a tutte le forze dei nichilismo e della disfatta, soprattutto della resa morale. Per la generazione nostra vale il grande interrogativo di Paul Valéry, formulato fin dal ‘19, fin dagli anni delle prime delusioni e delle prime amarezze europee: "L’Europa - si era domandato il grande poeta francese - diverrà il promontorio dei continente asiatico, com’è nella realtà geografica, o tornerà ad essere quello che è nella realtà spirituale, la parte preziosa dell’universo, la perla della sfera, la mente di un vasto corpo?". Interrogativo più che mai attuale oggi, che è quasi luogo comune, ormai, parlare di crisi dell’Europa, d’incipiente ritorno al nazionalismo ed al protezionismo, d’incapacità degli europei di far pesare il loro punto di vista, sopraffatti dalle grandi potenze continentali. E qui lo storico cede il posto al politico, al Presidente dei Consiglio, cui spetta di trasfondere gli ideali che orientano l’azione nel vivo della sua iniziativa politica, della sua quotidiana battaglia. Gli ultimi dieci anni - è da pochi giorni trascorso il decimo anniversario della decisione americana di sospendere la convertibilità dei dollaro: una data emblematica che segnò l’inizio dei periodo dì instabilità monetaria che ancora perdura e di cui paghiamo le conseguenze - sono stati per l’economia mondiale anni di crisi e di grandi sconvolgimenti. Il mutamento delle ragioni di scambio fra le materie prime ed i prodotti manufatti dovuto al rapidissimo rincaro dei petrolio - cresciuto di ben dodici volte negli ultimi otto anni - hanno posto in gravi difficoltà le economie dei paesi industrializzati, e di quelli europei in particolare. Le conseguenze di queste trasformazioni sono apparse subito di portata incalcolabile. Comunque, tali da non poter essere apprezzate esclusivamente sul piano economico. Il brusco rallentamento della crescita imposto alle economie dei paesi industrializzati dalla crisi petrolifera ha avuto riflessi profondi sui costume, sulla mentalità, sui modi d’essere prevalenti nella società occidentale. La crisi economica ha portato con se un ripiegamento che non ha risparmiato nessun aspetto della vita civile. Sotto questo profilo, la prima crisi petrolifera seguita alla guerra dei Kippur è stata davvero uno "shock" non ancora pienamente riassorbito. Due mostri fanno la loro comparsa terrificante in questi anni caratterizzati da una profonda incertezza circa i possibili esiti dello sviluppo: sono i mostri dell’inflazione e della disoccupazione. Uso il termine mostri, proprio per dare interamente il senso, con un'immagine visiva, delle conseguenze sociali drammatiche determinate dall’inflazione non meno che dalla disoccupazione e più ancora dai due fenomeni fra loro congiunti, com’è accaduto in questi anni. Inflazione. E' il malanno cronico di una società dominata dalle "aspettative crescenti", come direbbe il mio amico Ronchey, tesa a consumare una quantità di beni assai maggiore di quella che il nostro sistema produttivo è effettivamente in grado di introdurre nel circuito economico. Una società pronta a sacrificare il risparmio al consumo, il domani all'oggi, in nome di una filosofia improvvisa che non ha nulla in comune, è bene chiarirlo, con l'etica severa e frugale, animata quasi da uno spirito religioso, che Max Weber individuava nel capitalismo nascente. Sia ben chiaro: non mi associo affatto alla condanna moralistica e fuorviante della "società dei consumi", dei consumismo quale modello di vita che sarebbe imposto dal sistema capitalistico. E' una polemica logora che lascio alle frange più radicali della protesta giovanile, agli eredi della contestazione sessantottesca e delle sue illusioni. Conosco i torti dei capitalismo non meno dei benefici immensi che il libero dispiegarsi delle energie imprenditoriali ha portato al nostro paese. Un comunista come Giorgio Amendola amava ripetere che l’Italia ha compiuto progressi maggiori negli ultimi venti anni che nei venti secoli precedenti. Noi non avremmo avuto il "boom" degli anni cinquanta e sessanta, la conquista di un miglior tenore di vita, ed anzi dei benessere, da parte di strati popolari sempre più vasti, se all’indomani della liberazione non avessimo optato per un sistema di tipo occidentale, teso ad espandere al massimo i fattori della produzione fuori dalle angustie dell'autarchia non i meno che dalle costrizioni della pianificazione di stampo sovietico. Certe polemiche anticapitalistiche hanno perso ogni significato in un’epoca quale quella che stiamo vivendo, segnata dal "tramonto delle ideologie", secondo l’espressione efficace di Lucio Colletti. No, non è questo il problema. Inflazione per noi, semmai, è Sud-America. E il Sud-America evoca il dilagare dello Stato assistenziale, oltre ogni limite, oltre ogni remora, che si ricollega al clima del peronismo, alle sue illusioni fallaci e nefaste. Ma Sud-America è la spirale dei consumi disinvolti non meno delle soluzioni autoritarie e golpiste: noi non potremo mai dimenticare la vicenda cilena e il suo tragico epilogo. Non sono certo il primo a rilevare il pericolo che le tensioni inflazionistiche determinano per il futuro della nostra democrazia, e delle democrazie occidentali in genere. Proprio dalla riflessione sui rischi gravissimi, e forse irreparabili, cui la nostra repubblica andrebbe incontro, se non si bloccasse per tempo l'inflazione, nacque l'esperienza complessa e tormentata della politica di solidarietà nazionale che nelle intenzioni dei suoi promotori ed animatori, innanzitutto Ugo La Malfa e Aldo Moro, doveva alimentare e sorreggere con una base più ampia di consensi, nel Parlamento e nel paese, la politica di riequilibrio fra consumi e investimenti a quel punto non più rinviabile. Disegno generoso, nella cui realizzazione si è consumata l’ultima fase della battaglia politica dei due statisti. Il governo di larga solidarietà democratica che ho l’onore di presiedere, è animato dalla medesima consapevolezza dei pericolo inflazionistico che caratterizzò la fase della solidarietà nazionale. Non per nulla la lotta all’inflazione occupa il primo posto dei programma di governo, dominato dalle quattro "emergenze", come io stesso le ho chiamate: l’emergenza morale, l'emergenza terroristica, l’emergenza internazionale, e, appunto, l'emergenza economica. Il giorno stesso in cui il governo ha prestato giuramento nelle mani dei Presidente Pertini, ho avviato la prima fase dei negoziato con le parti sociali, volto a fissare un "tetto controllato" all’inflazione. Poche ore dopo sono partito, insieme al Ministro Colombo, alla volta dei Lussemburgo, dove ho partecipato al vertice europeo fra i Capi di Stato e di governo e dei Ministri degli Esteri dei dieci paesi della CEE. In quella sede ho esposto le linee che il governo italiano seguirà nella sua battaglia antinflazionistica, tanto più urgente in quanto il preoccupante saldo della bilancia dei pagamenti è un chiaro segno di deterioramento progressivo delle ragioni di scambio dei prodotti italiani. Passato il periodo estivo, con la tradizionale affluenza di valuta estera portata dal turismo, l’economia italiana si troverà presto a dover fronteggiare in condizioni di difficoltà una congiuntura internazionale certo non favorevole, aggravata dalle pressioni esercitate sulla bilancia dei pagamenti e sui prezzi dal crescente apprezzamento dei dollaro. E' evidente che, dopo gli "shock" petroliferi, questo fattore internazionale crea nuove difficoltà all'adeguamento delle strutture economiche interne, al nuovo assetto delle ragioni di scambio e alle nuove tendenze dei mercati mondiali. Il governo italiano - ho detto a Lussemburgo - è pienamente consapevole delle difficoltà e contraddizioni che emergono in questo quadro. Esso è anche consapevole che soltanto attraverso un rilancio dei processo di capitalizzazione si può aprire un nuovo spazio alle aspirazioni dei mondo dei lavoro, perché gli strumenti idonei ad arrestare la spirale inflazionistica non mancano, a cominciare da quelli di carattere monetario. Ma queste misure, cui solitamente si è fatto ricorso, hanno il grave, gravissimo difetto di deprimere il sistema produttivo, arrestandone la crescita soprattutto nelle aree già depresse, come il Mezzogiorno d’Italia. E' un concetto questo, sul quale ho molto insistito nella mia recentissima visita nelle zone terremotate: nessuna politica di ripresa dei Sud potrà avere successo - ho detto - se non si condurrà una contestuale battaglia contro l'inflazione - con effetti pesanti sull’occupazione. Nell’Europa comunitaria il numero complessivo dei senza-lavoro ha già raggiunto la cifra spaventosa di nove milioni di disoccupati. Non è certo pensabile che gli europei possano condurre la lotta all’inflazione a costo di un ulteriore incremento della disoccupazione. Inflazione e disoccupazione sono problemi oggi più che mai inseparabili. La via da seguire per combattere l’inflazione, allora, deve essere un'altra. Sì tratta di spezzare, come si dice "a monte" la catena d’aspettative che, fa nascere l’inflazione. Su questi obiettivi è necessario mobilitare la solidarietà dei diversi gruppi sociali, sullo sfondo di un crescente consenso sociale, da ricercare nelle forme possibili. Ecco perché ho proposto ai sindacati dei lavoro non meno che dell’impresa di offrire, sia pure in ruoli distinti e diversi, il loro essenziale contributo a definire un tasso d’inflazione contrattato, entro cui mantenere la dinamica delle diverse variabili, quali prezzi amministrati, tariffe, costo dei lavoro, incluso il problema dei raffreddamento dei meccanismi d’indicizzazione. E’ questa la necessaria sfida per salvare il futuro di una società industriale avanzata come l’Italia. La caduta delle ragioni di scambio con l'estero ha dato l’avvio ad una spirale inflazione-svalutazione che esige comportamenti rigorosi e coerenti da parte dei Governo non meno che delle forze sociali, nella coscienza limpida e precisa di un'interdipendenza irrinunciabile con l’Europa comunitaria e, in genere, con l’Occidente industrializzato, contro tutte le tentazioni dei sottosviluppo e dell'isolazionismo, tentazioni da respingere con estrema durezza. Riprendere la via dello sviluppo in un quadro di stabilità: ecco il tema che ha dominato il vertice d’Ottawa dei mese scorso, cui hanno preso parte i Capi di Stato e di Governo dei sette paesi maggiormente industrializzati. E’ stato un incontro di cui rivendico tutta l'importanza. Sul piano strettamente politico, perché abbiamo riscontrato una larghissima identità di vedute fra i sette paesi sulle vie da seguire nell'intento di preservare il bene supremo della pace fra i popoli, senza per questo mettere in pericolo la libertà e l'indipendenza dei mondo occidentale. Sul piano economico, perché in quella sede gli europei hanno ottenuto da parte americana importanti riconoscimenti delle loro ragioni in metto alla discussa vicenda del dollaro, riconoscimenti che non possono in alcun modo essere sottovalutati o sminuiti. In particolare è stata recepita nello stesso comunicato finale del vertice l'impostazione sostenuta dall’Italia, che non si è stancata di sottolineare la pericolosità della miscela congiunta d’inflazione e disoccupazione. Giudichiamo di grande rilevanza che il comunicato redatto al termine dei lavori faccia preciso riferimento al timore comune ai sette Governi che le oscillazioni dei tassi d’interesse in un paese rendano difficili le politiche economiche degli altri paesi. La maggiore stabilità nei mercati valutari e finanziari è stata considerata importante per un sano sviluppo dell’economia globale. Ma se è necessario per gli europei richiamare gli alleati americani all’esigenza di concertare una politica economica e monetaria, la via maestra da percorrere resta quella di compiere coraggiosi e tempestivi passi in avanti lungo la via dell’integrazione economica e politica: rafforzando l'embrione d’unione monetaria costituito dallo SME, ponendo le basi di una politica economica realmente comune. A nessuno può sfuggire il legame strettissimo che esiste fra i problemi economici e quelli politici dell’Europa, come nessuno può ignorare che le odierne difficoltà economiche e monetarie dell’Europa sono rese più acute dalla debolezza della sua posizione economica e dall'insufficienza dei grado d’integrazione finora raggiunto. Se gli europei non vogliono più sfuggire alle responsabilità cui la storia li pone di fronte, se vogliono sforzarsi di affrontare con successo i nodi comuni della crisi economica e insieme tutelare efficacemente la propria sicurezza e la pace, essi debbono senza dubbio dotarsi di strumenti decisionali comuni provvisti d’adeguati poteri. E proprio qui da Rimini, da questo "Meeting internazionale dell’amicizia tra i popoli" io voglio lanciare un forte richiamo all’integrazione europea: un obiettivo che non deve più sfuggirci. E' certamente bene procedere per tappe graduali verso l’integrazione europea, com’è avvenuto nell'ultimo ventennio, cercando dì migliorare progressivamente i meccanismi della cooperazione politica. Purché la cautela non si traduca nella gestione d’equilibri d’immobilismo. Purché si affronti in maniera coraggiosa il nodo dell'unione politica europea. Non possiamo nasconderci che i passi avanti sul cammino dei l’integrazione compiuti negli ultimi anni - ne cito uno per tutti: lo SME, il Sistema Monetario Europeo. E non ho bisogno di ricordare che questa contrastata adesione dell’Italia allo SME fu merito essenziale mente d’Ugo La Malfa, l’ultima grande battaglia combattuta prima della sua scomparsa - sono stati compiuti nello spirito dei Trattati, ma al di fuori dei sistema istituzionale da essi predisposto. L’attuale crisi della Comunità deriva anche da questa contraddizione. Ecco perché oggi è più che mai legittimo domandarsi se gli attuali strumenti comunitari sono pienamente adeguati e pari all'attesa, o se non si debba pensare piuttosto a rilanciare l’azione della Comunità con strumenti nuovi, tali da condurre ad un’espansione equilibrata della Comunità e ad accelerare i tempi d’attuazione dell’unione politica europea. Lo stesso Parlamento Europeo eletto direttamente dai cittadini della Comunità ha apertamente sollevato il problema dei suoi poteri, approvando il 9 luglio scorso, a larghissima maggioranza, la risoluzione prospettata dai parlamentari europei aderenti al "Club del coccodrillo"; risoluzione con la quale il Parlamento costituirà nel suo seno una commissione incaricata di esaminare la causa delle crisi delle istituzioni comunitarie e di elaborare un progetto di riforma. Molti, troppi in Europa, guardano con scetticismo a questi propositi coraggiosi, e li giudicano le generose utopie di pochi sognatori. Ma la politica di rilancio dell’integrazione europea non ha alternative. Inutile illudersi: in mancanza d’ulteriori progressi, e sotto i colpi della crisi economica, dei due "mostri" alleati - inflazione e disoccupazione - la costruzione comunitaria è destinata a logorarsi nell’impotenza. E in questo caso non dovremmo sorprenderci se gli Stati membri, nel Vi m possibilità di dar vita ad un'efficace strategia comune, finissero per arroccarsi sempre più nella difesa dei propri specifici interessi nazionali. Una vicenda contingente, che nelle ultime settimane ha creato difficoltà fra due paesi membri, è sintomatica di questa situazione: mi riferisco al blocco adottato dalla Francia nei confronti dei prodotti vinicoli provenienti dal nostro paese. Il problema non è bilaterale, ed è per questo che rifiutiamo la logica delle ritorsioni. Il problema è comunitario e deve essere risolto in ambito CEE sulla base dei principi che reggono la Comunità: a cominciare da quello della libera circolazione delle merci. Ecco perché mi sono personalmente rivolto al Presidente della Commissione della CEE Thorn, sollecitando il suo personale interessamento in vista di una più sollecita e soddisfacente soluzione di questa vicenda, che ha turbato e sconcertato l’opinione pubblica e sta provocando danni rilevanti ad un settore importante della nostra agricoltura. Bisogna che si sappia che l'antico sogno di un'unione politica europea è una necessità indilazionabile, non un'utopia fuori dal mondo. E ciò è tanto più vero da quando la Francia ha scelto con Mitterrand una politica di maggior raccordo con l’Europa e con l’intero Occidente industrializzato. L’unità europea rappresenta un'esigenza irrinunciabile per quella grande maggioranza di cittadini europei ormai consapevoli dei vincoli che legano in modo indissolubile i loro destini, desiderosi di evitare ad ogni costo che l’Europa rischi di diventare quello che diceva Metternich dell’Italia durante il Congresso di Vienna: e cioè una semplice "espressione geografica", passiva spettatrice della politica delle grandi potenze. Ho riletto, poco prima di venire da voi, una pagina di Benedetto Croce, nella quale mi sembra sia riassunto meravigliosamente il senso dello sforzo che dobbiamo compiere per l'integrazione europea. Uno sforzo che in passato vide concordi uomini come Jean Monnet e Maurice Schumann, come Alcide De Gasperi e Carlo Sforza. Scrive Croce: "Già in ogni parte d'Europa si assiste al germinare di una nuova coscienza di una nuova nazionalità; e a quel modo che, or sono settant'anni - Croce scriveva queste parole del dicembre 1931, come dire nel pieno della dittatura fascista - un napoletano dell'antico regno o un piemontese del regno subalpino si fecero italiani non rinnegando l’esser loro anteriore ma innalzandolo e risollevandolo in quel nuovo essere, così e francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri si innalzeranno ad europei e i loro pensieri indirizzeranno all’Europa e i loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, non dimenticate già, ma meglio amate" Ecco: dobbiamo imparare ad amare l'Europa dello stesso amore secolare che portiamo per l’Italia.

R. Formigoni

Signor Presidente, a nome degli organizzatori e dei partecipanti a questo "Meeting per l'amicizia fra i popoli" - oltre che personale - desidero porgerLe il più vivo ringraziamento per la Sua presenza qui e per le parole che ci ha rivolto e che hanno toccato alcuni temi da noi profondamente sentiti, come quello della necessità di un lavoro dignitoso per tutti e quello delle radici dell’Europa. L’applauso che Ella ha ascoltato è non solo un segno di rispettoso (ed affettuoso) saluto, ma assieme l'espressione degli ideali e della volontà che hanno animato queste giornate riminesi, e che animano il lavoro degli aderenti al Movimento Popolare ormai da diversi anni. Sono ideali, quelli che ci muovono, di pace, di giustizia, di collaborazione tra i popoli, e dentro tutti noi sta la volontà di lavorare per la dignità dell'uomo, per una cultura autentica, per la libertà d’espressione d’ogni fede religiosa e d’ogni identità sociale ed etnica. Il "Meeting per l’amicizia fra i popoli" (promosso dal Movimento Popolare, dall’Editoriale Jaca Book, dal settimanale il Sabato, e dal "Portico dei Vasaio"), è giunto quest'anno alla seconda edizione. Come Lei sa, esso ha per tema, L’Europa dei popoli e delle culture". Abbiamo scelto questo tema perché conosciamo le esigenze, le ansie e le aspettative degli uomini dei nostro tempo e dei nostro continente (che sono anche le nostre esigenze e le nostre aspettative) e siamo impegnati a portare un contributo alla soluzione dei problemi più gravi in forza della nostra identità, dei nostro lavoro, della nostra esperienza. La mentalità dominante nell’Europa d’oggi è diventata abile ad individuare l’uomo in pezzi: a dividere e contrapporre il materiale e lo spirituale, il politico e il religioso, le capacità tecniche e il significato della vita, l’individuo e la comunità. Ma questa divisione ha immiserito la vita dell’uomo europeo, e impedisce che sì esprima tutta la ricchezza della sua storia e della sua multiforme cultura. Di fronte a questa situazione, il Meeting (come il MovimentoPopolare) ha lavorato e si è pronunciato. Gli interventi e le testimonianze che si sono susseguite (spesso ad opera di grandi personalità dei nostro tempo), e la partecipazione corale ed appassionata di decine di migliaia di persone, hanno manifestato l’esigenza di una nuova unità nella vita degli uomini e dentro gli uomini. Si tratta di dare voce e continuità alle radici comuni dell’uomo e della cultura europea (che anche Lei ha ricordato) e a quei legami che già esistono: ad esempio a quell’unità spirituale, cosi profonda, eppure così articolata, che lega oggi l’esperienza di un operaio polacco di Solidarnosc con la vita dei monaco benedettino di quindici secoli fa, che riannoda la domanda di libertà che viene dal dissenso russo con le istanze di rispetto e collaborazione reciproca dell’autentica cultura laica dell’Europa: nel desiderare che l’Europa sia polo di costruzione della pace per il mondo intero. Il nostro lavoro qui al Meeting è stato - come lo è anche nelle diverse situazioni di scuola, di fabbrica o di quartiere in cui siamo presenti - un lavoro al tempo stesso culturale, sociale e politico nel senso più ampio del termine. Il nostro desiderio d’ora è che quei lavoro sia il più possibile utilizzato dagli uomini e dalle donne dei nostro tempo; e che il mondo politico e istituzionale raccolga e faccia sue queste esigenze che si manifestano sempre più insistentemente nella società civile. Per questi motivi noi siamo lieti della Sua presenza e simbolicamente affidiamo a Lei, signor Presidente, e al Governo che Ella presiede e qui è rappresentato anche dal Ministro Signorello, questi primi risultati dei nostro lavoro. Sappia il Governo dei nostro paese, e sappiano le forze politiche italiane che esistono energie culturali e sociali, giovani e adulti impegnati in un lavoro per il necessario rinnovamento morale della società. C'è poi una seconda ragione che rende particolarmente significativo questo incontro con Lei, Sig. Presidente. La stampa ha voluto sottolineare come si tratti dei primo incontro fra un Presidente dei Consiglio non democristiano e un movimento cattolico. E anche questo aspetto è a noi gradito, perché nell'incontro d’oggi fra l'uomo di cultura, oltreché il politico e il Presidente dei Consiglio, il Prof. Giovanni Spadolini, e il Movimento Popolare, è simboleggiato l'incontro fra due componenti diverse eppure così significative della storia dei nostro Paese: quella laica e quella cattolica. Da troppo tempo, in Europa, si è voluto vedere un conflitto fra lo sviluppo di una fede religiosa, e la pienezza dei progresso umano: e questo ha provocato incomprensioni ed intolleranze, che hanno spesso intossicato i rapporti fra gli uomini e le culture presenti nel nostro Paese. Oggi è tempo di voltare pagina. Oggi la storia ci ripropone una sfida: l’nteresse all'uomo e la fede in un Dio (amico dell’uomo) possono convivere? E’ una domanda a cui gli spiriti più attenti della cultura laica e della cultura religiosa rispondono di sì che possono convivere, anzi che devono. Ma la nostra epoca non è fatta solo di spiriti attenti, di acuti pensatori. Allora occorre aiutare questo processo, occorre un lavoro di conoscenza maggiore tra credenti e non credenti, fra laici e cattolici: occorre aiutarci a riconoscere che ci accomuna un interesse all'uomo e al suo destino, un amore alla verità e alla ricerca guidata dalla ragione. Si aprono prospettive importanti e affascinanti. L’Italia potrebbe essere il terreno adatto, il luogo privilegiato per questo riconoscimento. Si potrebbe così superare la fase di due ltalie; un’Italia laica e un’Italia religiosa, contrapposte, e costruire invece (non sembri paradossale) un’Italia che sia laica e religiosa assieme. E questo non nel senso di un compromesso o di una grigia uniformità, raggiunta spogliandosi degli elementi propri, ma nel senso appunto di un "riconoscimento" dei profondi contributi di ciascuno alla storia. Signor Presidente, tutte queste sono cose ormai note a chi in questi giorni ha visto alternarsi ai microfoni dei Meeting laici e cattolici, protestanti, ortodossi, ebrei, agnostici, atei credenti e atei convinti. Noi non crediamo che si debba andare verso una società in cui siano meno salde le convinzioni di chi è laico o la fede di chi è credente. Al contrario, pensiamo che sia possibile una società in cui si vivano esperienze autentiche e diversificate, che si arricchiscono a vicenda nel confronto e, se necessario, nella dialettica. In questa direzione, da una parte diventerà possibile al credente riconoscersi nello spirito dì tolleranza, nella serietà di impegno con la storia, nel rispetto della personalità umana che contraddistinguono l’autentica cultura laica; e dall’altra parte non si potrà non riconoscere che il fatto religioso è dimensione fondamentale della vita dell’uomo; e che occorre garantire ad ogni esperienza religiosa (come ad ogni identità etnica o culturale) gli spazi di espressione educativa, culturale, sociale e politica, non riducendo l’esperienza religiosa ad un puro fatto privatistico, ma riconoscendone tutta la portata pubblica (e questo non solo alle identità religiose ma a quelle etniche, culturali e alle minoranze di ogni tipo). In una parola: il futuro della società non sta in una democrazia di individui isolati, ma in una democrazia dei popoli, delle identità, delle culture. E questa è la migliore garanzia per la stessa libertà di ogni singola persona, di ogni individuo. Signor Presidente, sarebbe estremamente interessante proseguire il dialogo e il confronto con Lei su questi temi e su tutti quelli che Lei ha toccato: auspichiamo che ci siano anche altre occasioni, in brevi tempi, di incontro e di discussione. Grazie ancora per la Sua visita, a nome di tutti.