Lunedì 22 agosto

"QUALE SOCIETA' PER L'UOMO"

Partecipano:

On. Emilio Colombo, Deputato al Parlamento Italiano;

On. Gerhard Schroeder, Deputato del Partito Socialdemocratico al Parlamento Tedesco;

Sir Norman St. John Stevas, Leader del Partito Conservatore Inglese;

Prof. Maurice Aymard, Vice Presidente "Maison des Sciences de l'homme".

Moderatore:

Dott. Pier Alberto Bertazzi.

P.A. Bertazzi:

Questa è la prima delle tavole rotonde che, con il concorso di tutti noi, svilupperanno il tema del Meeting. Già l'incontro di oggi che ha per tema "Quale società per l'uomo", ci porta al cuore del Meeting. Perché credo sia impensabile un progetto di società, o un qualsiasi tipo di governo della società, che si voglia definire per l'uomo, se non tiene conto, se non parte da un incontro e da un confronto con l'uomo come è, da una conoscenza di chi è in realtà l'uomo, l'uomo con la sua storia, con la sua natura, la sua identità, col suo destino con la sua speranza, i suoi progetti, i suoi desideri ed anche i suoi errori. Siamo molto grati agli ospiti di questa sera che ci aiuteranno ad affrontare una simile questione, una questione che ognuno di noi sente assai vicina alla propria esperienza e al proprio problema serio di uomo. I nostri ospiti di questa sera sono: l'on. Emilio Colombo, di cui tutti conosciamo e abbiamo apprezzato in questi anni l'opera svolta, quale Ministro degli Esteri. Secondo nostro ospite è l'on. Gerhard Schroeder. L'on. Schroeder, avvocato, è stato dal 1978 al 1980 presidente dell'associazione dei giovani socialisti, e dal 1980 è deputato al Parlamento tedesco per il partito socialdemocratico. Poi Sir Norman St. John Stevas. Scrittore, giornalista, è corrispondente dell'Economist. È stato dal 1967 al 1971 delegato al Consiglio d'Europa e alla Unione Europea Occidentale. È stato Ministro per le Arti. Fa parte del partito Conservatore ed è un leader della opposizione interna del partito Conservatore. E infine, ma non ultimo, Maurice Aymard. Il professor Aymard è uno studioso di storia, di economia, in particolare della storia della società e del movimento operaio; ha avuto diverse esperienze di studio e di insegnamento in Italia, a Napoli e a Roma. Attualmente è vicepresidente della Maison des sciences de l'homme di Parigi. È autore di numerose pubblicazioni ed è collaboratore di riviste di carattere storico quali Quaderni Storici, Rivista di Storia Italiana e The Journal of European Economic History. "Quale società per l'uomo": questo è il tema di questa sera che abbiamo proposto ai nostri gentilissimi ospiti attraverso una traccia di cui io vorrei rendere tutti voi partecipi prima ci aprire questa tavola rotonda. Una traccia che si rifà al tema generale del nostro Meeting: da una parte le scimmie, dall'altra i robot. Le scimmie come altri animali vivono in una organizzazione sociale ben stabilita, funzionante, efficiente, si potrebbe dire una organizzazione sociale che è quasi perfetta. E in effetti credo che ci sia un certo stupore quando conosciamo e studiamo il livello di efficienza dell'organizzazione sociale di tanti animali. I robot; anche i robot sono in grado di svolgere in maniera pressoché perfetta una serie di compiti nell'ambito di una struttura organizzata. Il robot può guastarsi, può rompersi, ma non può sbagliare. Storicamente il tentativo di costruire una organizzazione perfetta della società è ricorrente, è avvenuto diverse volte e anche oggi direi che sono coloro che la presumono o la pretendono. Solo che l'uomo, che pur vive in simpatia con le scimmie a qualunque stadio della sua storia queste si situino e che vuole imparare la stessa pace e simpatia nel vivere con i robot, non è né le une, ne gli altri. Proviamo a immaginare. Io credo che sarebbe insopportabile per la società delle scimmie avere un ospite così pasticcione, pieno di esigenze e sentimenti strani e contraddittori come l'uomo. Credo che non lo sopporterebbero nella loro organizzazione. Probabilmente non meno perplessi sarebbero i robot di questo personaggio che non sta agli ordini come si deve. Credo di poter dire che l'uomo sarebbe ingombrante in queste organizzazioni perfette. L'uomo ha troppi difetti, l'uomo cerca di continuo, è teso continuamente a costruire qualcosa di nuovo, a ricercare qualcosa di più. Possiede una creatività non prevedibile, in cammino e insiste nel credere che viene da qualche parte e che c'è un luogo, una meta verso la quale dirigersi, dove il suo essere finito possa incontrarsi con l'Infinito e non si accontenta di stare qui dove le cose pur funzionano. L'uomo è tutta una imperfezione. Allora? Allora una società non può che essere per questo uomo, con le sue imperfezioni. Ogni tentativo di organizzare in maniera perfetta una qualsiasi società ha dovuto far finta che l'uomo non fosse ciò che in realtà è, ha dovuto far finta di avere a che fare con qualcosa di già compiuto anziché di un essere che è alla ricerca, almeno col desiderio, di ciò che lo rossa compiere. Tutti questi tentativi di organizzare una società perfetta hanno ridotto la originalità dell'uomo o hanno cercato di togliere incidenza storica alla sua più vera e unica identità. In alcuni casi questo tentativo di organizzare la società è stato fatto con l'uso della violenza, la violenza di un’ideologia che nega o riduce e dimensioni della vita umana e di conseguenza la violenza dello stato di polizia che unico può garantire l'applicazione, almeno di facciata, di questa perfetta società. In altri casi questo tentativo è avvenuto ad un altro prezzo, cioè banalizzando il desiderio di fondo che l'uomo ha e sostituendo ad esso appetiti più immediati e apparentemente capaci di appagare la tensione alla pienezza e alla felicità che l'uomo porta in sé. Questa è la nostra società, la società dei consumi. È lo Stato che vuol comunque padroneggiare tutta la realtà sociale, e che permette all'uomo di essere se stesso, di porsi domande, di avere una fede, una tensione ideale, se queste cose l’uomo le tiene nel suo privato senza complicare la vita sociale con tutto questo fascio di esigenze, fede, desideri, che creano tanti problemi e tante tensioni. Che ognuno tenga per sé tutto questo e si organizzi la società su quelle poche cose che consentano di avvicinare la perfezione organizzativa delle scimmie e quella esecutiva dei robot. Abbiamo sottoposto quindi ai nostri ospiti la seguente questione: può lo Stato decidere il destino dell'uomo, definire lo spazio della sua vita e della sua espressione o compito dello Stato, della organizzazione politica, economica, è invece permettere, anzi, favorire la espressione nella società di tutto ciò che aiuta e può aiutare l'uomo ad essere sé stesso? Se è vera questa alternativa forse possiamo anche dare un nome all’organizzazione di una società che non sia violenta; è la società dove si costruisce una democrazia non solo degli individui, ma anche delle culture, delle collettività, delle comunità. Una società che non può non favorire l’espressione della libertà non solo individuale, ma la libertà di espressione culturale, religiosa, di educazione. La seconda domanda è: tutto questo può e deve essere vero anche a livello internazionale, nei rapporti tra i vari Stati, tra le varie società? Stiamo andando verso un mondo in cui comunque ci saranno dei blocchi dominati da egemonie eppure è possibile stabilire un rapporto diverso con questi Stati; è possibile anche a livello internazionale ritrovare un modo di rapporto fra gli Stati, tra gli uomini, tra le culture che sia a fondo rispettoso di questa natura dell'uomo che non può essere ridotta alla apparente perfezione delle scimmie e dei robot? Queste sono le domande con le quali abbiamo cercato di provocare e di favorire l'intervento dei nostri ospiti. Il primo a prendere la pare la è l'on. Colombo.

E. Colombo:

Grazie. Io penso, col permesso del nostro moderatore, di procedere così: vorrei prima cercare di dare la mia risposta al primo quesito, poi spero che ci sia il tempo per dare la risposta al secondo quesito, quello che riguarda la politica internazionale. Vengo da un incontro con giornalisti, e i giornalisti mi hanno posto una serie di questioni, sul valore, sul significato del Meeting. Allora vorrei cominciare col dare qui le stesse risposte che ho dato al giornalisti, e parto da questa constatazione. E cioè a me pare che il merito del Meeting in genere, e di questo Meeting in ispecie, è di indurci a fare i conti con il futuro dell’uomo; ma fare i conti con il futuro dell'uomo non significa fuggire il presente ma fare i conti con il presente, ma con un occhio diverso, e cioè con un occhio reso limpido dalla speranza. Questo mi pare sia un modo per sconfiggere la cultura della crisi, nella quale sono dominanti i temi e le emergenze del presente. Mi sembra perciò centrale che ci si interroghi sull'uomo e sul suo destino, e che alla luce della risposta a questo interrogativo si definisca il modello di società al quale dobbiamo tendere. È stato detto, non ritorno su questo tema, che tra scimmia e robot da una parte, e l'uomo dall'altra, vi è un'irriducibile differenza: mi pare che questa sia l'espressione che lei ha usato: non potrei non condividere. È stato anche detto dal nostro moderatore che l'identità dell'uomo è la sua imperfezione: di qui il bisogno continuo di ricercare la sua ansia di costruire. Pongo questi quesiti, cioè vorrei entrare un po' secondo il mio modo di pensare, il mio modo di vedere, la mia fede, nel dare una risposta a questo interrogativo. Perché non aggiungere che questo uomo imperfetto tende alla perfezione e che il suo modello è Dio? In una società secolarizzata come la nostra, fare queste affermazioni può sembrare non essere in sintonia con il modo di sentire le opinioni comuni; io voglio riaffermarlo. Perché non aggiungere anche che sovente il tormento dell'uomo, la sua inquietudine, nasce dallo sforzo inappagato di raggiungere il modello, oppure dall'abbandono di questa ricerca? E io credo che forse questa sia la inquietudine maggiore, abbandonare il senso della ricerca, che almeno riempie la nostra vita, ci dà un ideale, ci fa guardare lontano. E come non ricordare alcune delle più belle pagine dei "Pensieri" di Pascal, incentrate sul dramma della finitezza e della grandezza dell'uomo? Ancora, andando un po' in là, e voi me lo permetterete, perché non ricordare S.Agostino? "Signore, Signore, ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto fin quando non riposa in te". Questa nostra società, pure secolarizzata, pure dominata dal consumismo, secondo me avverte questo bisogno, e lo esprime nel suo inappagamento e in una sua fondamentale tristezza. Bene, è alla misura di quest'uomo, che ha davanti a sé questo destino, è alla misura di quest'uomo che noi dobbiamo costruire e organizzare la società. È già stato detto, e io non torno, perché condivido, che ogni tentativo di organizzare in modo perfetto la società ha creato situazioni di violenza sull'uomo; il dominio di una ideologia sostenuta dalla forza, e quindi che si trasforma in stato di polizia, la violenza della società dei consumi: lo stato di polizia reprime e la società dei consumi, è stato detto, a poco a poco riduce nel residuo gli ideali dell'uomo, le sue domande e la sua fede. Allora la prima questione che è stata posta è questa: può lo Stato decidere lo spazio di vita e di espressione dell'uomo, o esso ha invece il compito di favorire l'espressione di tutto ciò che aiuta l'uomo ad essere sé stesso? A complemento di questa prima domanda ci è stato chiesto:"E’ questa la democrazia che il vostro Stato intende costruire? È sufficiente pensare ad una democrazia degli individui, o non piuttosto tendere ad una democrazia delle culture e delle comunità?" La risposta a questo quesito la si può dare soltanto se si riscopre la centralità dell'uomo, il valore, il significato della persona, il primato della persona. Quando parlo di persona non mi sfugge l'apporto che il cattolicesimo francese ha dato alla definizione della persona e al rapporto tra la persona e la società; e non lo dico solo per un omaggio all'amico francese che è qui, ma perché è la realtà: Mounier, Maritain, "Esprit". Ho parlato di persona, perché è il concetto di persona umana nella sua duplice accezione di individualità e di alterità che restituisce non soltanto il pieno ed autentico valore all'individuo, ma libera il concetto di società, di tutto l'elemento pessimistico e negativo di discendenza naturalistica, e restituisce alla società il suo carattere non di condanna, ma di elemento positivo, indispensabile alla crescita umana. L'uomo vive, cresce, si sviluppa, arricchisce se stesso con gli altri, non da solo, con gli altri. Anche quando si ritira da solo e dà l'impressione di essere solo, è con gli altri, e vive degli altri e vive per gli altri. E questo rapporto, anche dialettico, è un elemento essenziale alla sua crescita. Da questa visione nasce una duplice responsabilità: quella dell'uomo verso la società e quella della società verso l'uomo; la sua crescita, l'arricchimento della persona così come vive e si esprime in ogni singolo. Quale società per tale uomo? Una società che consenta, che faciliti il libero esplicarsi dello spirito dell’uomo, uno spirito che vive e si nutre di libertà. Una società ispirata al principio della libertà non è certo una società che pretende o che può pretendere di incasellare gli uomini, di assegnare a ciascuno il suo spazio, i suoi limiti; meno ancora, una società che voglia sacrificare il primato dell'uomo al primato della società stessa o dello Stato. Una società di questo tipo non può limitarsi a garantire suoi ordinamenti soltanto la libertà degli individui, ma anche di tutti i corpi sociali, e di tutte le manifestazioni dello spirito umano attraverso le quali la persona umana si esprime, si arricchisce, si realizza. E qui la famiglia, le comunità locali, la religione, la cultura. L'ordinamento sociale, e l'ordinamento giuridico che garantisce questa società così viva, deve essere in grado di garantire tutte le forme attraverso le quali la società civile si esprime, che poi sono tutte le forme attraverso le quali la persona si arricchisce e si realizza. Ecco perché se voi mi domandate, e torno ad un tema che io ho svolto qui, per la prima volta, al 1° Meeting, quando venni fra di voi per la prima volta, se voi mi domandate "Per chi sei tu? Sei per Jaruzelsky o per Walesa?", io vi rispondo "Sono per Walesa": sono per chi lotta per il dialogo, sono per chi cerca in una società chiusa di aprire un dialogo, di aprire una partecipazione, che non necessariamente deve riprodurre altri modelli di organizzazione sociale e politica, come il nostro, ma che in ogni caso introduca alcuni valori. È per questa ragione che se voi mi domandate "Ma tu per chi sei? Sei per Pinochet o per Valdes?": sono per Valdes, per chi lotta in Cile, per chi lotta per una società aperta, per una società in cui esista il dialogo, per una società, o meglio, per uno Stato, il cui ordinamento giuridico sia in grado di fare esprimere integralmente la società civile. Adesso però io ho bisogno ancora di dire una cosa, perché rischierei di essere un teorico astratto se non venissi un po' a questi temi. Anche le società democratiche, quindi anche la nostra, e poi per quanto riguarda le altre ci penseranno gli altri colleghi che sono qui, possono lasciare insinuare la violenza. Per esempio i gruppi che tendono a piegare ai loro interessi la volontà delle istituzioni liberamente e democraticamente elette. Noi in Italia abbiamo a che fare con questi fenomeni: dovremmo vergognarcene se non ne parlassimo; non ce vergognamo perché siamo in grado di parlare. Tutto ciò che attenta al funzionamento delle istituzioni e che tende a piegarle a dei voleri che non sono quelli del corpo sociale che devono servire (mi riferisco ad esempio ai temi della P2, o della mafia, o della camorra) tutto questo attenta alla società, può rendere la forma liberaldemocratica una parola vana. Così i gruppi sovversivi che tendono attraverso la violenza a travolgere le istituzioni, così i corporativismi grandi e piccoli che si oppongono al bene comune: i nostri sociologhi, quando analizzano la società italiana in questo momento, parlano della società del frammento: ebbene, la società del frammento non è certo una società che può esprimere un complesso di valori e dare un senso e una identità alla società stessa. E cosi è la società di classe. A questo punto mi chiederete, ed ho finito, qual è il compito della politica di fronte a queste insidie. Compito della politica è riabilitare il progetto per l'uomo: il riassetto dell'economia, la riforma della macchina statale, il riequilibrio del sistema sociale. Non sono operazioni possibili se prevale, come talvolta prevale in Italia (e ricordate, l’assenza di tanti italiani alle elezioni ne sono la testimonianza), se prevale una concezione scettica, o falsamente realistica, o pragmatica della politica. Questo progetto va animato da una cultura (e qui io so di dover poi fronteggiare altre tesi, ma è in una società libera che questa dialettica è possibile), autenticamente cristiana e popolare, in grado di unificare, ricomporre, ridare un senso di marcia, un comune sentire, insieme un pathos e un ethos civile all'intera società italiana.

P.A. Bertazzi:

Grazie, on. Colombo. In questa che è soltanto una prima serie di interventi do ora la parola all'on. Gerhard Schroeder.

G. Schroeder:

Sono d’accordo anch’io che dobbiamo cogliere tutto questo. Che sarebbe una società in cui l’uomo non sia la misura delle cose, bensì sia l’oggetto di una potestà economica e statale? Una società di questo genere evidentemente nessuno la potrebbe desiderare. D’altra parte, non deve essere nemmeno accettata una situazione in cui non si voglia la creazione di una società perfetta semplicemente accusando un pretesto, volendo lasciare quello che è attuale nella società, così com’è adesso. Non posso accettare che coloro che dicono che l’uomo non è in grado di creare una società perfetta e non può nemmeno farlo, rinuncino a modificare le condizioni sociali di questa società, rinuncino a migliorarla. E io penso che non sarebbe nemmeno giusto fermarsi di fronte a questi pericoli di un troppo grande potere statale se lo Stato dovesse incominciare appunto a formare ex novo queste condizioni sociali. Io penso che anche sopprimere lo Stato possa limitare la libertà del singolo e dei gruppi e la democrazia a mio avviso significa una diffidenza anche nei confronti del potere di Stato. Evidentemente non ci può essere una società perfetta, ma non possiamo nemmeno avere e volere una società come quella che abbiamo attualmente. E voglio dire anche il perché non possiamo accettarla. Se noi dovessimo iniziare a considerare le tendenze di questa società e a proseguirle nel nostro futuro, ebbene, io penso che la società umana non avrebbe neppure una possibilità di sopravvivere. Potrei nominare per esempio l’armamento continuo, gigantesco, che mette in pericolo l’intera umanità. Posso nominare i problemi che noi abbiamo all’interno di questa nostra società dove l’azione del potere economico non limitata da nessuno, potrebbe evidentemente mettere in pericolo le basi, i fondamenti di vita dell’umanità intera. Per questo io sono per lo scetticismo nei confronti del potere assoluto dello Stato, ma io penso che tuttavia lo Stato deve avere un certo potere, il potere per esempio di contrapporsi a potenti gruppi economici, ad affermarsi nei loro confronti proprio per cercare di limitare il pericolo, di limitare questa moria, e io in effetti penso che un non potere di Stato non significherebbe un sovrapotere perché questo potere deve sussistere proprio per metterci, per darci la possibilità di evitare, eliminare i gas inquinanti che distruggono il mondo che ci sta intorno. Ed è per questo che penso che il ruolo dello Stato, la sua funzione deve essere considerata in maniera estremamente diversificata. Nelle società industriali dell’occidente, vi è povertà, vi è miseria che può essere combattuta con un potere di Stato. In tutte le società industriali sussiste in effetti il problema che ciò che gli uomini sanno fare, dal punto di vista tecnico, non può a volte essere fatto proprio nell’interesse del mantenimento delle possibilità di vita. Le limitazioni di libertà in questo senso possono essere effettuate unicamente da parte dello Stato. Ancora una volta, per quanto riguarda il quesito internazionale di cui si è parlato in precedenza. Anche in questo caso il problema mi appare estremamente complicato. Un socialista democratico, per esempio, potrebbe essere a favore di Walesa e non di Jaruzelskj, ma non è questo il problema. Perché così potrebbe esserlo anche un politico conservatore. Ma se noi siamo così onesti, gli uni nei confronti degli altri, io penso che dobbiamo anche trovare una risposta a quest’altro quesito, cioè se noi per esempio nel Nicaragua siamo per Ernesto Cardinal o per l’altra persona e questo naturalmente è un problema estremamente complicato. Io penso quindi che colui che parla della evoluzione della nostra società deve anzitutto parlare dei pericoli che attualmente stanno di fronte all’uomo, pericoli e minacce che ci provengono dal riarmo mondiale, e un riarmo che appunto porta gradualmente ad una distruzione totale del nostro ambiente. Ed è per questo che bisogna dire cosa possiamo fare per contrapporci a tutto ciò, e soltanto in questo modo noi potremmo davvero sviluppare un’utopia concreta per la nostra società. Perché una cosa è certa: noi oggi consideriamo il problema del riarmo atomico, ma se non riusciamo a risolverlo non avremo la possibilità di realizzare per molto tempo dei grandi Meeting come questo e non avremo certo la possibilità di poter esprimere liberamente la nostra opinione in questi Meeting.

P.A. Bertazzi:

Grazie all'on. Schroeder. Il terzo intervento della tavola rotonda è quello di St. John Stevas.

N.S.J Stevas:

Bene signor presidente, innanzitutto devo ringraziarla moltissimo del suo gentile invito a venire qui dall'Inghilterra per partecipare alla vostra conferenza oggi pomeriggio. Mi interessa particolarmente il Movimento Popolare che è un movimento culturale. In effetti, io sono stato per due volte ministro della cultura durante il governo di Heat e come seconda volta durante il governo della signora Thatcher, quindi si è trattato per due volte di governi conservatori, e io vorrei fare un commento su quanto ha detto il signor Schroeder un momento fa, quando ha detto che anche un conservatore può essere in favore di Walesa e contro Jaruzelskj. Bene, qui effettivamente c'è un conservatore, che è davvero in favore di Walesa e completamente contro Jaruzelskj. Sono lieto di dire che questo vale per tutto il partito conservatore quale che sia il suo punto di vista per quanto concerne il resto della politica. Ora vorrei seguire l'esempio dell'on. Colombo e rispondere alla prima domanda in merito al problema dell'organizzazione della società e poi, in seguito, vorrei passare a discutere dei rapporti con gli altri paesi. Sono d'accordo con l'on. Colombo che il punto di partenza di qualsiasi discussione sull'organizzazione della società deve iniziare affrontando la natura della persona umana. La persona umana è libera, autonoma, ha dei diritti inalienabili, e doveri inalienabili. Scopo dello Stato è di promuovere questi diritti, risolvere i conflitti, cercare di realizzare questi diritti; suo compito è pure quello di non eliminare tali diritti. Pertanto, io direi che lo Stato va visto da un punto di vista aristotelico, esso è una istituzione buona e naturale, che ha da svolgere un ruolo essenziale al servizio dello sviluppo dell'uomo. Ora, siccome lo Stato e la politica riguardano l'individuo e il suo benessere, una volta che si è entrati in questa sfera, in questo campo si fuoriesce subito dal regno della politica per entrare nel regno della morale. E la base della morale occidentale e del sistema legale politico occidentale è quello della responsabilità personale. La base dell'azione statale nella storia, la qualità vincolante della legge nei confronti dei cittadini, si fonda in ultima analisi sulla morale. C'è un rapporto intrinseco tra l'etica o la moralità e la libertà politica e oggigiorno ci sono due minacce a questa libertà politica: una che viene da un'ideologia totalitaria ed estremista, sia che venga da sinistra o da destra, che subordina il cittadino allo Stato e l'individuo alla collettività, e il secondo pericolo che, secondo me, è ancora più grave è il rischio di crollare nell'anarchia, che non è tanto immorale quanto amorale. Questo potrebbe creare una crisi di valori ed è questo il problema che si osserva in tutti i paesi europei: la distruzione di una saggezza, di una grande società. La distruzione di idee morali che con fatica e attraverso lo sviluppo e l'evoluzione sono state costruite col passare dei secoli e che per consenso comune sono state accettate dagli uomini, i quali hanno deciso di vivere secondo esse. Questa è una è una vera minaccia. Io uso il concetto di consenso intorno a una morale comune, non nel senso di bonum universale, questo è un valore teologico condiviso da tutti coloro che vivono secondo Dio, né lo intendo in senso filosofico di ciò che è secondo ragione, ma nel senso del Cardinale Newman cioè nel senso di possesso comune della Società. La conservazione di questo possesso comune costituisce la vita della società mentre la sua perdita rappresenta la sua dissoluzione, quindi la società per meritarsi questo nome, per usare una parola greca, deve essere una vera comunità, una vera "Koiné", la manifestazione di una vita comune, di cooperazione, la vita comune di coloro che hanno delle idee in comune. Oggigiorno la realtà della situazione, invece, è che ci può essere una generazione che ignora il suo retaggio culturale e morale. È quella che io chiamo la nuova barbarie. Il barbaro di oggi non è al di fuori delle mura della città, è all'interno di esse; non porta una pelle di animale, non porta la clava, magari è armato soltanto di una biro, ciò nonostante è un barbaro. È un barbaro se minaccia i valori religiosi e morali su cui si fondano le tradizioni di civiltà e questa distruzione, questa minaccia può venire in vari modi. I problemi morali o spirituali possono venire giudicati e essere risolti soltanto in base alle loro conseguenze pratiche o possono essere ridotti a livelli di problemi linguistici ed eliminati attraverso un analisi del linguaggio o possono essere considerati come problemi del tutto soggettivi. Tutti questi approcci, implicitamente o esplicitamente, rifiutano ciò che per secoli è stato il fondamento della società occidentale, cioè la convinzione, anzi la fede, in un ordine di valori oggettivi e universali che possono rappresentare il bene per tutti se sono seguiti, mentre se verranno rifiutati rappresenteranno un male. E noi dovremmo ricordare che rifiutando la ragione come guida sicura nei problemi umani, rifiutando la ragione distruggeremo non soltanto la libertà, ma anche l’uguaglianza e la fraternità. Non ci può essere libertà senza autolimitazione, non ci può essere fratellanza senza un senso di valori comuni e senza fratellanza la società si riduce a un agglomerato di atomi in guerra in cui i conflitti si risolvono con la forza e non con la legge. Una guerra di questo tipo, un conflitto di questo tipo, alla fine distrugge l'idea stessa di comunità. In questa forma di società ciò che è condiviso è più importante di ciò che ci divide. Quello che è importante è una società in cui l'uomo non si impegni in una lotta fratricida. Allora, per la società sono importanti i valori morali e questo non soltanto per il suo valore intrinseco, ma perché è importante capire il legame tra morale e ordine sociale. L'uno si fonda sull'altro: lo Stato si giustifica nelle cose che stanno al di sopra e al di sotto di esso. Lo Stato deve guardare in alto, alla religione e alla morale, e deve guardare in basso, alla storia e alla sociologia. In effetti potremmo addirittura soddisfare un aforisma: nel XVII secolo le lotte costituzionali in Inghilterra, la guerra civile, si riassunsero nella frase "nessun Vescovo, nessun Re". Noi potremmo creare un altro aforisma "nessuna morale, nessuna legge". Negare o perdere di vista la natura etica della libertà politica è un errore, ma è un errore che è tipico della nostra epoca e della nostra storia. Non che la buona teologia di per sé ci garantisca il buon governo, perché se così fosse, e non mi pare che sia il caso di sottolinearlo qui a Rimini, allora i cattolici dovrebbero affrontare un terribile dilemma, semplicemente considerando la storia dello Stato Vaticano. Rimane una cosa che è sempre vera: non c’è legge senza morale e dobbiamo sempre ricordare che "Libertà non significa fare quello che ci pare, libertà significa poter fare quello che dovremmo fare". Quindi la democrazia è molto di più di un semplice meccanismo, molto di più di un esperimento politico, non è nient'altro che un'impresa morale, è un dovere fondamentale. È il dovere di rispecchiare i diritti delle persone che vengono invece disintegrati dalla società, è il dovere di evitare le fazioni e le lotte fratricide e mantenere e rinnovare il consenso morale su cui in ultima analisi si appoggiano tutte le istituzioni politiche. Molte grazie.

P.A. Bertazzi:

Grazie a Lei on. Stevas, e ora il professor Maurice Aymard.

M. Aymard:

Non sono un uomo politico e non ho la minima esperienza politica diretta. Sono soltanto uno storico. Ho scelto 20 anni fa di studiare la storia della società italiana degli ultimi cinque o sei secoli per liberarmi di una visione francocentrista della storia che dovevo alla mia formazione. Negli ultimi sette, otto anni mi sono trovato al centro di una sorta di discussione permanente fra le scienze sociali cioè: sociologia, psicologia, economia e mi sembra che ogni tanto possiamo criticare le scienze sociali per la loro pretesa a dare delle soluzioni fisse, determinate. Però se si seguono bene i dibattiti attuali credo che tutti i migliori scienziati sociali parlino in favore di un non determinismo, di una larga apertura dei problemi. E dunque vorrei utilizzare questa doppia esperienza e molto limitata, molto superficiale, per ridimensionare certi problemi, per allargare la nostra riflessione nel tempo e nello spazio e per relativizzare certe analisi attuali o certe prospettive. Ridimensionare nel tempo. Viviamo oggi, i problemi di Stati che sono recenti, che hanno un secolo o due di esistenza, cioè di Stati che hanno preso o sono in molti casi stati costretti a prendere a loro carico dei compiti che precedentemente erano abbandonati o gestiti da altri livelli della società, dalla Chiesa, dalla famiglia, dalle corporazioni, da avverse forme di associazioni o di comunità. Ciò permetteva, nel passato, dei governi che potevano essere autoritari e dispotici nonostante che il loro potere reale sul contenuto effettivo della vita sociale fosse molto limitato. Dunque quando parliamo di società, nel senso politico della parola, si tratta di un fenomeno storicamente recente e di un fenomeno che ha cambiato completamente la dialettica fra individuo e società nel quale si pone il dibattito di questo pomeriggio. Non dobbiamo dimenticare che l'individuo di cui parliamo oggi, non è l'individuo di tre o quattro secoli fa che è stato inventato e anche strumentalizzato, perché non dirlo, da queste società più larghe, contro le forme di solidarietà intermedie, che componevano, fino ad epoca recente il contenuto della società, e perciò i conflitti che vediamo oggi sono particolarmente numerosi, fra questi diversi livelli del sociale. Il conflitto della famiglia o dell'individuo contro lo Stato, e tutti questi conflitti, che sono i conflitti modello della società attuale costituiscono il tessuto della nostra vita quotidiana e della nostra esperienza politica in funzione di quello che impariamo della vita nel mondo. Da noi, nei nostri paesi, è la necessità permanente di una resistenza contro le pretese onnipotenti dell'amministrazione, altrove, in altri paesi, in Europa, in America latina, sono le resistenze contro le pretese della polizia, dell'esercito, del potere politico. Questa capacità di resistenza, mi sembra un fatto assolutamente positivo. Viene a significare che l'uomo inventa, senza sosta, in modo permanente, la società, che non ci sono soluzioni miracolose, esiste però una tensione permanente tra società e individuo. Vorrei adesso relativizzare il problema nello spazio e ricordare, che noi, italiani, francesi, tedeschi, inglesi occupiamo nel mondo, una posizione privilegiata. Noi europei dell'Ovest, abbiamo accumulato tutti i benefici storici di un progresso enorme dal punto di vista economico, sociale e culturale; però non dobbiamo dimenticare che abbiamo esportato i nostri problemi al di fuori, con i nostri modelli di civiltà, i modelli di organizzazione dello Stato, e li abbiamo esportati in società che non erano assolutamente pronte ad accettarli. Oggi i conflitti più violenti fra lo Stato e l'individuo non accadono in Europa e neppure nell'Europa dell'Est, ma in Africa, in India, in America Latina. Dobbiamo sempre pensare che i nostri conflitti, pure se sono importanti, sono relativamente minimi se li confrontiamo con i conflitti che accadono in altre parti del mondo. Malgrado tutto ciò, vorrei essere ottimista. Per riprendere i termini del dibattito di oggi, non siamo delle scimmie anche se non dobbiamo essere troppo critici contro le scimmie: non vivono una vita così ripetitiva, come viene comunemente detto quando diciamo "scimmie". Ma non siamo neppure dei robot! La vera minaccia di diventare dei robot ci sarà il giorno in cui i biologi saranno capaci di produrre due esseri umani assolutamente identici. Però questo è per domani o dopodomani, sicuramente non è per oggi. E io sono stato personalmente sensibile a quello che ci hanno insegnato gli specialisti di genetica che hanno rifiutato qualsiasi determinismo e che ci hanno fatto vedere che invece dall'inizio a nostra specie umana, l'umanità, ha fatto una scommessa fondamentale nella sua storia, nella storia della sua evoluzione, sulla diversità e sulla moltiplicazione sistematica delle differenze. L'avevamo dimenticato 50 e 60 anni fa, lo sappiamo adesso: non ci sono razze pure; è un bene. La società inventa in modo permanente dei modelli di unificazione: pensiamo all’educazione, destinata a insegnare ad ogni buon cittadino a leggere, a scrivere, e tutto quello che deve sapere per il funzionamento dello Stato. Lo sappiamo bene anche che questa educazione è un punto di passaggio obbligatorio per una diversificazione ulteriore, anche se una parte della gente educata ripete soltanto i modelli imparati. E lo stesso, ne sono sicuro, accadrà con i computers domani. Ciò non ci deve far dimenticare la violenza: il biologo Jacques Fussier in un'intervista recente al giornale "Le Monde" ricordava che i lupi non si mangiano fra di loro, invece l'uomo è la sola razza dove ci si mangia fra simili e ci si uccide fra simili. Non voglio dire che la violenza sia un bene o un male: è una realtà che bisogna controllare, ma che anche in certi momenti ha i suoi valori positivi. La società non è un freno, la società come la viviamo oggi non è un freno allo sviluppo dell'individuo, perché è la condizione fondamentale di esistenza di quest'individuo stesso. Ci dobbiamo abituare alla socializzazione crescente dei bisogni umani e di tecniche che permettono di rispondere a queste domande. Però non mi farete mai guardare con ammirazione un passato dove un bambino aveva un 25% di possibilità di morire prima di un anno e oltre 25% di possibilità di morire prima di 20 anni. Cioè dove soltanto un uomo su due arrivava all'età adulta. Questa società non me la farete mai ammirare in nome di qualsiasi modello di cultura pura, o tradizionale. Credo, personalmente, alla ricchezza di una società del frammento e credo che il frammento è una condizione importante dell'evoluzione. Guardiamo quello che accade nel mondo oggi. Abbiamo avuto dei governi autoritari, mi sembra, in qualsiasi parte del mondo. Certi hanno durato 10 anni, altri 50 e anche di più. Tutti hanno dei seri problemi che non vengono dal di fuori, ma che vengono dalla contestazione interna. Significa che quali che siano le tecniche di governo e di controllo, la società civile riprende sempre i suoi diritti e che non c’è niente di più resistente della società. Ma ricordiamo anche quello che è accaduto e quello che può accadere di nuovo nei nostri paesi, dove avevamo negli anni '60 dei governi ottimisti che gestivano lo sviluppo industriale con l'idea di un progresso indefinito verso un futuro sempre migliore. Sono stati sorpresi 15 anni fa e saranno di nuovo, credo, sorpresi da movimenti di contestazione che nascono dentro di loro. Ricordatevi il 1968. E mi sembra la controparte necessaria dell'accrescimento dei poteri, dei compiti, della nostra società. Periodicamente le nostre società hanno bisogno di essere desacralizzate per non essere mai adorate e ammirate come dei modelli di perfezione. Cioè periodicamente viene riaffidato all'uomo, all'individuo, a noi, a voi, la necessità di reinventare questa società. Non vuole dire che dobbiamo disprezzare quello che abbiamo e quello che abbiamo ricevuto. Soltanto che queste società sono alla nostra altezza, non al di sopra e ci dobbiamo reinventare nuovi valori. Sono personalmente sicuro, io che vengo da una tradizione da diverse generazioni laiche, che siamo capaci di reinventarli. Grazie.

P.A. Bertazzi:

Ringraziamo molto il prof. Aymard. Posizioni culturali diverse. Paesi diversi, ruoli diversi all'interno della società; alcuni dei nostri ospiti con l’impegno politico diretto, altri studiosi. Dai loro primi interventi è emerso un consenso sulla traccia del problema, che abbiamo loro sottoposto. Racchiudere la ricchezza, l'identità, l'originalità dell'uomo all'interno di uno schema predefinito e che alcuni vogliono dominare: questa è la massima violenza, questa è la società violenta comunque si organizzi. D'altra parte c'è, all'opposto di questo, una società nella quale impegnarsi, una società da costruire, una società nella quale non siamo ancora. Sarebbe importante riuscire a fare un altro passo, non soltanto un assenso su questo tema. Credo che il prof. Aymard abbia forse suggerito anche il modo di fare quest'altro passo. Quando parlava della capacità di resistenza e diceva che lui tutto sommato, è un ottimista, perché ritiene che anche in questa situazione è possibile per la società reale intentare continuamente la sua forma di vita. Vorrei riproporre questo problema e chiedere a ciascuno dei nostri ospiti come loro credono che sia possibile questa resistenza verso ciò che è violento. Questa resistenza nello stesso tempo è l'invenzione continua di un altro tipo di società. Come credono che questo sia possibile, per i paesi in cui vivono e come credono che sia possibile in questa Europa della quale noi tutti siamo parte.

E. Colombo:

Io vorrei porre a Maurice Aymard, di cui ho molto apprezzato lo spirito ottimistico, che serve a tutti noi per infonderci fiducia sul futuro di noi stessi e della società a cui noi apparteniamo, questo quesito: egli ha detto, da laico, "noi siamo capaci di inventare delle forme di società di volta in volta, di mano in mano che noi riteniamo esaurite quelle precedenti, o perlomeno che le riteniamo superate". Il nostro problema mi pare che sia di quale rapporto debba esistere fra queste società che si modificano nella loro organizzazione ed alcuni valori essenziali. Quello dell'uomo, io credo, è il valore centrale, di cui nessuna società può fare a meno senza usare violenza a questa realtà nella quale noi tutti crediamo.

M. Aymard:

Non ho risposte assolute da dare, però vorrei precisare il mio ottimismo. Prima noi, e non dico gli uomini politici o la società politica, dico noi la società globalmente presa, inventa delle soluzioni: i nostri costumi sono cambiati, nessuno ha deciso un bel giorno che doveva cambiarli. Negli ultimi 30 anni, per riprendere la nostra esperienza, molte cose sono state cambiate senza essere mai state programmate. Non credo invece ai cambiamenti imposti dall'alto. La società di fronte a questi cambiamenti imposti dall'alto ha avuto sempre una capacità di resistenza enorme. Ad esempio la Rivoluzione francese, di cui festeggeremo fra qualche anno il 2° centenario, sappiamo bene che tutto era fatto dopo un anno o due, cioè nel 1791 tutto era già fatto, tutto quello che doveva durare; gli altri esperimenti ulteriori sono stati eliminati; era quello che la Francia voleva, e quello che è durato tutto l'800. Se vediamo anche il senso della rivoluzione, non credo che sia un problema di valori o non valori: i cambiamenti che sono intervenuti negli ultimi secoli sono stati sempre, mi sembra, in favore dell'uomo di cui lei sta parlando. Ci sono evidentemente degli aspetti negativi; lo l'ho detto nel mio intervento: non sono capace, come storico, di capire delle società del passato nelle quali l'uomo non era specialmente valorizzato, però molto spesso umiliato, molto spesso minimizzato, e viveva in condizioni materiali e morali che non avevano assolutamente niente di eccezionale. Queste società sono capace di capirle, ma non le posso ammirare. Sono capace di capire le società che studiano oggi gli antropologi in Nuova Guinea, per esempio. Ma non credo che siano un insegnamento per la nostra esperienza di oggi, non credo affatto che siano un modello da imitare. Abbiamo i nostri problemi, abbiamo il campo dell'esperienza del passato e di altre forme di società, dobbiamo rispondere al nostri problemi con i nostri valori, e credo che l'abbiamo sempre fatto, e quando nella storia i governi e i popoli hanno dimenticato i valori, in modo troppo evidente, dopo un certo tempo la storia ha ritrovato la sua strada.

P.A. Bertazzi:

La questione a questo punto sembra diventare: da dove deriva alla società questa capacità di inventarsi sempre? È una domanda che non faccio solo a lei, ma la faccio a tutti i nostri relatori.

G. Schroeder:

Questo mi dà la possibilità di ritornare ad un'osservazione del prof. Stevas. In maniera molto pessimistica, egli aveva detto che questa gioventù non ha nessun senso, nessun buon sentimento nel confronti dei valori. Io non credo però che questo sia vero; credo piuttosto che noi tutti, non solo la nostra gioventù, noi tutti attualmente abbiamo perduto il consenso su un fatto precipuo, e cioè che cosa è il progresso, e quindi che cosa è il futuro. Io credo che questo si riferisca sia ai partiti conservatori, come per esempio il Partito Socialdemocratico, sia a quello Socialista. Fino a questo momento lo sviluppo delle forze produttive non è stato sempre considerato un progresso, e la produzione continua e continuata non è sempre considerata come una grazia per l'umanità? Credo che questo consenso, i questo accordo, soprattutto nel confronti dei problemi economici che ci si pongono dinanzi, ormai sia andato completamente perduto. Non siamo più sicuri di quello che è il progresso. Chi dovrebbe essere toccato da tutto questo se non la gioventù? La gioventù è la più condizionata da questo problema, perché la sua vita è proprio collegata con questa insicurezza crescente. Io penso quindi sia che si tratti di partiti conservatori o socialisti, noi ci troviamo tutti di fronte a un unico compito, e cioè di determinare nuovamente il rapporto tra uomo e natura, perché questo rapporto tra l'uomo e la scienza e la tecnica deve essere da noi nuovamente stabilito, perché ogni giorno noi viviamo un fatto, e cioè che il progresso tecnico può minacciare o addirittura distruggere i posti di lavoro. Noi dobbiamo anche considerare il rapporto tra l'uomo e le grandi organizzazioni sociali, dobbiamo ridefinirlo, ristabilirlo, perché anche in queste grandi organizzazioni sociali non c’è sempre un’associazione possibile, ma può nascere un enorme isolamento, e dobbiamo anche considerare il rapporto tra l'uomo e il suo prossimo, perché tutto ciò che in passato era stato valido riguardo a queste questioni a mio avviso non è più altrettanto valido ai tempi odierni. Io credo oltretutto che gli uomini hanno oggi veramente la possibilità di ristabilire questi rapporti, e a questo proposito sono completamente d'accordo col mio collega francese. Ma dobbiamo anche sapere che l'adempimento dei compiti ora da me menzionati richiede anche la modifica delle strutture sociali, l'eliminazione dei privilegi all'interno delle società, e oltretutto richiede l'eliminazione soprattutto dei privilegi esistenti tra le società. Noi dobbiamo ripensare in modo conservatore, dobbiamo rivedere i valori del passato, ma questi valori del passato non sempre possono essere validi per risolvere i problemi del presente. Un altro punto fondamentale su cui si basa la mia speranza è che gli uomini devono modificare la propria coscienza e così meglio comprendere i compiti, al quali essi devono adempiere, e in questo modo, malgrado tutte le resistenze di tipo conservatore, che esistono dappertutto in ogni paese, essi devono avere la forza di combattere. In questo modo, io considero come di estremo aiuto che per esempio nel mio Paese esistano degli uomini i quali non si organizzano all'interno di determinati partiti, ma semplicemente si ritrovano insieme per combattere contro il riarmo. Un altro buon segno è il fatto che ci siano degli uomini che non si ritrovano all'interno di un determinato partito, ma che si ritrovano insieme Combattere per il mantenimento e la tutela dell'ambiente. Soltanto se questi uomini possono trovare spazio in una società democratica, queste modifiche necessarie potranno essere effettuate, senza violenza. Tutto questo noi tutti dobbiamo desiderarlo e auspicarlo, perché non si può certamente costruire una società migliore con la violenza. Ma se noi non consideriamo questi uomini e le loro necessità e se non diamo loro spazio sufficiente, allora ci saranno discussioni e lotte tali che non potranno portare a nessun risultato e le cause siamo stati noi a crearle.

P.A. Bertazzi:

Grazie molte, On. Schroeder, Sir St. John Stevas vuole aggiungere qualcosa a questo proposito.

N.S.J. Stevas:

Sig. Presidente, io vorrei affrontare un problema che ha sollevato il sig. Schroeder in merito alla difficoltà di definire il progresso. La mia idea di progresso è la seguente: il progresso dovrebbe permettere a un sempre maggior numero di persone, in ogni paese del mondo, di mettere a frutto i talenti che sono stati dati loro da Dio e dovrebbe anche permettere loro di non essere privati della possibilità di utilizzarli a causa delle condizioni sociali in cui si trovano. Per la prima volta nella sto ria dell'umanità, grazie al progresso tecnologico, la razza umana ha la possibilità di sottrarsi al terribile destino della povertà, della fame, del bisogno, che è stato invece il destino inevitabile della maggior parte degli uomini per molti e molti secoli. Se noi nei paesi progrediti abbiamo la fantasia, l'immaginazione, la volontà di cogliere questa meravigliosa, stupenda provvidenziale opportunità, allora avremo veramente realizzato un progresso.

P.A. Bertazzi:

Grazie, St. John Stevas. L'On. Colombo ha chiesto la parola. Prego.

E. Colombo:

Vorrei intervenire su quest'ultimo tema che riguarda la definizione del progresso per dire un mio pensiero, una mia riflessione parziale. Primo, su ciò che il progresso non è. Il progresso non può e non deve identificarsi, se la concezione dell'uomo è quella di cui abbiamo parlato prima, soltanto con l'accrescimento dei beni materiali; e secondo, che di tutti i beni, a cui l'uomo può aspirare (questa è la parte positiva del progresso), di questo bisogna favorire l'estendimento, la partecipazione più larga a tutta l'umanità. Questa nostra umanità, quella di cui partecipiamo soprattutto noi, paesi industriali, non può considerarsi autenticamente e veramente progredita se non è stata in grado di far parte di questi beni all'altra arte dell'umanità che ancora non ne beneficia.

P.A. Bertazzi:

Grazie, On. Colombo. Prego, professor Aymard.

M. Aymard:

Volevo andare esattamente nella stessa direzione e ritornare alla seconda domanda, che ci era stata fatta dal nostro moderatore. I problemi dei rapporti internazionali. Ci sono problemi seri fra paesi industriali, ci sono problemi e minacce serie per la pace, a livello europeo, o a livello del funzionamento di questo sistema di equilibrio che regge la pace da trentotto anni. Non dobbiamo dimenticare che da trentotto anni le guerre non sono accadute in Europa né in America del Nord; però sono accadute altrove, in Asia, in Africa, e mi sembra che il problema principale per la nostra pace non è tanto quello dell'equilibrio sempre imperfetto fra le nostre potenze, ma della nostra capacità di risolvere i nostri problemi di paesi senza incrementare la povertà di altri paesi. Sono perfettamente d'accordo che il progresso non è soltanto dei beni materiali, però non credo che con un incremento di una povertà che è già a dei livelli difficilmente accettabili, con un incremento degli scarti sociali nel paesi in via di sviluppo, sia possibile una pace internazionale. La vera domanda mi sembra: siamo capaci di fornire un modello di gestione internazionale delle relazioni politiche, economiche, militari, tale che i paesi in situazione più debole oggi, possano trovare loro stessi, con i loro ritmi e non con i nostri, nei loro termini culturali e non soltanto con i nostri, delle soluzioni ai loro problemi? Questo mi sembra il vero problema e a questo, su questo tema, io direi, lì a livello mondiale, non sono ottimista, sono invece molto pessimista. Però voi siete uomini politici, avrete sicuramente delle risposte migliori di me.

P.A. Bertazzi:

Allora io rilancio senz'altro la sua domanda, per una breve risposta, agli uomini politici che sono a questo tavolo. Credete che ci sia una possibilità a questo livello? L'On. Schroeder vuole intervenire su questo?

G. Schroeder:

Non ho sufficiente esperienza per poter trovare una risposta a questo quesito. Ma questa mia incapacità si riferisce anche alla possibilità di trovare dei nuovi fondamenti per un nuovo ordinamento politico e sociale del mondo. Un ordinamento politico e sociale di cui avrebbero bisogno anche i paesi del terzo mondo, proprio per poter lottare contro la miseria e la fame. Io penso che questa incapacità non solo mia, ma di tanti altri, mi rende veramente scettico e il fatto che un aiuto dato per lo sviluppo non sempre è in grado di permettere ai popoli e ai paesi del terzo mondo di svilupparsi veramente, evidentemente pone i paesi industrializzati a elaborare delle strategie di vendita, che non sempre possono corrispondere alle strutture sociali dei paesi del terzo mondo. Ed è proprio questo problema che mi rende ulteriormente scettico. E un altro fatto mi rende scettico, cioè che noi tutti stiamo parlando e negoziando a proposito del riarmo e delle sue limitazioni ma durante questi negoziati noi continuiamo ad aumentare questi nostri terribili potenziali distruttivi. E riguardo al quesito che è stato posto, cioè se possono essere trovate delle strutture internazionali in grado di aiutare tutti i popoli e di metterli nella condizione di usare, di usufruire, di un loro proprio diritto per il proprio sviluppo, ebbene, riguardo a questo quesito sono ancora più scettico, e nello stesso tempo ho molta paura perché io so che se noi non dovessimo riuscire in tutto questo allora certamente noi limiteremo in modo disastroso lo sviluppo pacifico della nostra stessa società e non potremo senz'altro garantire uno sviluppo che continui ad essere pacifico. Per questo vi devo lasciare soli, soli con i dubbi che vi ho espresso. In questi dubbi tuttavia c'è un barlume di speranza, cioè la mia fede nell'uomo, nell'umanità, e infine la fede in quello che di buono l'umanità sa senz'altro fare.

P.A. Bertazzi:

Sir. St. John Stevas per un breve commento su questo punto ancora.

N.S.J. Stevas:

Io condivido la speranza del sig. Schroeder ma se deve esserci un futuro per l'umanità, allora è essenziale che noi tutti nella politica, o al di fuori di essa, ci rivolgiamo con estrema urgenza al problema del mantenimento della pace. Oggi il problema che non si affronta nelle questioni internazionali, - e che se si affrontasse non ci permetterebbe più di sentire delle ideologie contrastanti -, è un problema molto semplice e fondamentale. I paesi del mondo occidentale possono vivere in pace con l'Unione Sovietica, oppure dovranno finire i loro rapporti con l'Unione Sovietica in un conflitto armato? Stranamente la teoria marxista che prevede degli scontri terribili tra i due mondi, invece ha trovato un modus vivendi con la retorica di Reagan e quindi sembra possibile una coesistenza pacifica, anche se c'è poi la tendenza a rifiutarla. Se la coesistenza pacifica non è possibile, allora le prospettive per il mondo e per l'umanità sono veramente nere, - io vorrei dare un modesto suggerimento a questo riguardo -, la retorica non è decisiva, ma ha una certa influenza, noi potremmo limitare lo stato di guerra, per esempio adottando un tono di voce diverso nelle questioni internazionali, e anche dei discorsi diversi. Perché dobbiamo renderci conto che questi dialoghi avvengono sullo sfondo di una possibile guerra nucleare. Quindi dobbiamo tenere conto, all'interno della nostra consapevolezza, di un eventuale possibile conflitto. E si sente questa paura, per esempio nelle dichiarazioni di Papa Giovanni Paolo II. È vero che dalla fine della II° guerra mondiale per lo meno in questa parte del mondo è stata mantenuta la pace, con l'equilibrio del terrore, della paura, quindi abbiamo una pace che si fonda sull'istinto di autoconservazione, più che non sull'idealismo della Lega delle Nazioni o delle Nazioni Unite. Ma non possiamo più affidarci su un tipo di pace così, perché adesso il problema è quello di vedere se si potrà mantenere questo equilibrio di potere, tenuto conto anche della proliferazione nucleare. Questo è il problema fondamentale dei nostri tempi. Io credo che l'imperativo morale non sia tanto quello di un disarmo unilaterale, che comunque è stato nettamente rifiutato ultimamente in Inghilterra durante le ultime elezioni. L'imperativo morale adesso è quello di arrivare a un disarmo multilaterale con vero impegno. Non bastano più i pii desideri. Noi dobbiamo vedere un disarmo multilaterale, dobbiamo vederlo come lo scopo principale delle nostre politiche estere in tutto il mondo.

P.A. Bertazzi:

On. Colombo un suo parere conclusivo.

E. Colombo:

Il rapporto fra l'uomo e la società, tema di cui abbiamo discusso prima, è strettamente legato con il tema della pace. E io devo dichiarare qui che non potrei vedere chi non possa essere d'accordo sul fatto che l'obiettivo della nostra politica, delle nostre politiche, debba essere la pace. La pace che non sia soltanto la non guerra, ma che sia la capacità di dialogo, di coesistenza, la capacità di sostituire alle armi la politica, alle armi il dialogo, e di sostituirlo anche quando si vive in paesi con regimi politici diversi. Ecco perché io dichiaro davanti a voi che nonostante tutte le alterazioni che in questo rapporto sono intervenute in questo periodo recente, a partire della seconda metà degli anni '70, da quando si arrivò alla firma del trattato di Helsinki, io continuo a ritenere che non vi è vera alternativa alla distensione. Però abbiamo davanti a noi due problemi. Il primo problema è l'alterazione di questo rapporto fra Est ed Ovest, soprattutto legato al tema della proliferazione nucleare, dell'aumento degli armamenti e in particolare dei problemi che su questo tema si pongono in Europa. Io credo che il nostro obiettivo debba essere quello di arrivare ad un controllo degli armamenti, questo controllo degli armamenti non può passare se non attraverso l'equilibrio, perché è l’equilibrio che dà la sicurezza. Ecco perché il tema degli euromissili, in questo momento, come i negoziati sulle armi strategiche, sono due temi al quali noi dobbiamo prestare continua, permanente, attenzione. Gli euromissili: qui l'equilibrio è stato turbato e soprattutto a danno dell'Europa, attraverso la installazione di armi nucleari da parte dell'Unione Sovietica. L'Europa cerca e direi, i paesi atlantici, cercano la loro sicurezza attraverso due strade, la strada del riequilibrio nucleare, e la strada del negoziato al livello più basso, tanto che è stato proposta l` "opzione zero". E quando l’ "opzione zero" è stata respinta dall'altra parte, cioè dall'Unione Sovietica, vi sono state soprattutto da parti europee, posso dire da parte italiana, insieme con la Germania Federale, la richiesta agli Stati Uniti d'America, di riprendere e avviare il negoziato su opzioni intermedie. Su questo negoziato bisogna insistere, bisogna proseguire, bisogna continuare. C'è un tema che si pone oggi a tutti noi, si pone agli italiani, in particolare, si pone ai tedeschi, sì pone all’Inghilterra, ed è il tema del rispetto pieno non solo dal punto di vista sostanziale, ma anche dal punto di vista temporale, cronologico, delle decisioni del 12 dicembre del 1979 che mentre stabilivano un programma di riequilibrio nucleare, in pari tempo offrivano un negoziato. Problema che si pongono molti, e probabilmente vi porrete anche alcuni di voi che mi state ascoltando: se sia più saggio al momento delle scadenze di rinviare le scadenze per l'attuazione dell'ammodernamento e continuare il negoziato, oppure adempiere a questi obblighi, continuando il negoziato. È un tema che è di attualità in tutti i paesi. Voi ve lo troverete di fronte. La mia opinione è che bisogna insistere nel negoziato, dobbiamo fare ogni sforzo nel negoziato e non dobbiamo stabilire alcun termine al negoziato; ma è necessario che in pari tempo, per dare efficacia alla nostra capacità negoziale noi siamo coerenti nell'adempimento degli impegni che abbiamo assunto. Se non fossimo in grado di fare questo, io credo che saremmo come dei giocatori che non hanno carte da mettere sul loro tavolo. Credo dunque necessario, per garantire la sicurezza, ma soprattutto per garantire il successo del negoziato, che vi sia una coerenza nell'adempimento di questi impegni. È stato fatto riferimento anche ad un altro tema al quale io stesso sono particolarmente legato, - la pace vista non tanto nel rapporto Est-Ovest, quanto nel rapporto Nord-Sud -. Allora qui i temi riguardano certamente la difesa della sovranità e dell’indipendenza dei popoli di nuova formazione, degli Stati di nuova formazione, ma questa sovranità e questa indipendenza non possono certamente essere adeguatamente garantite, se non vi è da parte delle nazioni industrializzate l'intervento, l'aiuto necessario, per favorirne lo sviluppo sul piano economico e sul piano sociale. E qui mi permetterete di condividere un po' il pessimismo di Aymard, cioè io non vedo che nelle società industrializzate vi è oggi, coscienza piena della gravità di questo problema e del rapporto che esiste fra questo problema e la pace. Non vi è perché, ancora per quanto riguarda il problema del controllo delle strade attraverso le quali liberare le risorse per gli alimetare lo sviluppo, su questi temi dei progressi adeguati non si fanno, non ci sono, sia per quanto riguarda gli euromissili, sia per quanto riguarda il negoziato Start. Non ve ne sono a Vienna per quanto riguarda le armi convenzionali, e ancora siamo bloccati e fermi per l’obiezione, questa volta, di Malta, per la firma definitiva dell'accordo di Madrid, l'esperienza di Helsinki, il processo di Helsinki, da cui dovrebbe derivare l’inizio di una intesa per un accordo di disarmo europeo. E quindi mi lascia perplesso di fronte a questo grande tema che è quello del sottosviluppo, anzi dell'avvio allo sviluppo, questa reticenza dei paesi industrializzati rispetto al tema del controllo degli armamenti. Mi lascia anche piuttosto pessimista la coscienza, la limitata consapevolezza, che nelle società consumistiche nelle quali noi viviamo, quelle di cui abbiamo parlato precedentemente, non vi sia posto sufficiente per un tema così importante, la cui realtà oggi è sotto i nostri occhi, poiché questi popoli non sono più segregati e lontani, la realtà la conoscete voi, la conosciamo noi. Ecco perché è necessario che il tema della pace non venga visto soltanto attraverso il rapporto Est-Ovest, ma anche attraverso il rapporto Nord-Sud, e venga visto attraverso una politica per la quale l'Italia ha fatto quello che poteva, e sta facendo quello che può, nelle sue condizioni economiche molto difficili, una politica che sia di aiuto ai paesi in via di sviluppo.

P.A. Bertazzi:

Quale società per l'uomo dunque. Una risposta che volesse essere definitoria, conclusiva non potrebbe forse che essere irrealistica. Per questo lo credo che sia più importante cogliere dal dibattito che si è svolto finora i motivi di ottimismo, di pessimismo, le luci, le ombre. C'è un elemento che può essere detto, e che mi sembra sia stato in qualche modo comune a tutti gli interventi. Da alcuni è stato chiamato capacità di resistenza, fiducia dell’uomo, nuova moralità. È la profonda fede che a questa risposta possiamo anche noi contribuire attraverso una responsabilità da assumere, una capacità di essere protagonisti del nostro tempo, proprio perché protagonisti delle proprie vicende personali. Bene. Tutte le questioni che abbiamo sentito questa sera verranno sicuramente prese nel corso di questo Meeting, non solo in altre tavole rotonde, ma anche nelle moltissime occasioni di incontro che ci sono. Ringrazio molto i nostri relatori: credo che ci abbiano senz'altro aiutato, in questo nostro inizio, non solo a porre delle questioni e dei problemi, ma anche ad indicarci il modo per affrontarli.