Distruzioni del popolo
Martedì
23, ore 17Relatori:
Pero Pranic
Christophe Hakizabera
Paride Taban
Mons. Pero Pranic, vicario generale di Sarajevo
Pranic: Desidero portarvi il saluto del mio vescovo, Mons. Puljic, che aveva promesso di venire a questo Meeting, ma a causa della preparazione del viaggio del Santo Padre a Sarajevo, è stato costretto a rimanere a casa ed ha mandato me al suo posto.
La storia ci mostra con tanti esempi come quasi tutte le guerre, tutti gli scontri sulla terra abbiano in sé qualcosa di simile: i grandi, i potenti, i superbi desideravano sottoporre i deboli. Purtroppo moltissimi fratelli e sorelle innocenti hanno pagato tutte queste tensioni con il proprio sangue. Un popolo era aggressore, un altro si difendeva. Ma perché non vivevano insieme nella fratellanza, nell’amicizia? In tutte le guerre è nascosto il mistero del male, il mistero dell’iniquità e della superbia. Tenendo conto di questa breve introduzione possiamo ora vedere con altri occhi la guerra nell’ex Jugoslavia.
Questo stato europeo era uno stato artificiale che i politici e le forze mondiali hanno creato dopo la prima guerra mondiale. In un modo strano e oserei dire vergognoso nell’anno 1918 l’Europa creò l’ex Jugoslavia costringendo cinque diversi popoli con diversa cultura, religione, lingua e tradizione a vivere insieme nello stesso stato in sei repubbliche autonome, almeno secondo la costituzione. Però l’etnia più grande e più forte, cioè i Serbi, ha preso tutto il potere e tutte le posizioni, disprezzando gli altri popoli. Essi erano i capi militari, i poliziotti, i direttori nelle fabbriche, i maestri nelle scuole, controllavano tutto; specialmente tutte le entrate dello Stato passavano alla capitale, a Belgrado di nuovo nelle loro mani. I Serbi organizzavano tanti processi politici, mandavano le spie nei villaggi, non permettevano ai Croati, agli Sloveni, ai Macedoni o Bosniaci di cantare le proprie canzoni, non si poteva mettere la propria bandiera davanti alla casa. La loro politica permeava lo sport, la cultura, le notizie, i programmi televisivi. Essi avevano la propria lingua, scrivevano nei caratteri cosiddetti "cirillici", non latini, ed imponevano tutto ciò agli altri popoli. Tensione fra i popoli così umiliati e disprezzati c’erano sempre, ma non esisteva molte volte la possibilità di opporsi, specialmente al tempo del comunismo così crudele. I politici europei e in modo speciale i giornalisti lodavano ed apprezzavano molto l’ex presidente jugoslavo Tito, ma lui era un terribile tiranno, non meno brutale di Stalin, Ceaucescu o Enver Hodza in Albania. Aveva invece buoni rapporti con gli stati europei da dove riceveva moltissimi soldi vivendo con gli altri capi come re e principi.
Dopo la sua morte, e in modo speciale dopo il crollo del comunismo, i popoli umiliati e disprezzati hanno approfittato di tale occasione storica per opporsi chiedendo gli stessi diritti per tutti i popoli che vivevano nello stato comune. Nella ex Jugoslavia sono state organizzate elezioni libere, sono stati creati i nuovi partiti politici, sono ritornati dall’estero molti profughi politici e un nuovo vento tirava. I Serbi invece, come etnia dominante, vedendo perdere le loro posizioni, si opponevano ai cambiamenti, e volevano con la forza militare costringere le altre etnie all’ubbidienza. Così cominciò la guerra: prima in Slovenia e poi in Croazia, dove hanno occupato la terza parte del territorio e finalmente in Bosnia ed Erzegovina, dove occupano il 70% del paese, nonostante che i Serbi siano soltanto 30% degli abitanti. La loro aggressione è del tutto speciale e non si può compararla con la "guerra classica". Essi distruggono tutto: le fabbriche, le ditte, le scuole, le ferrovie, i ponti, le comunicazioni. Essi saccheggiano dal territorio occupato tutti i beni trovati, macellano gli animali, bruciano i campi con le colture impiantate. Nessuna chiesa, nessuna moschea mussulmana, nessun cimitero può restare nel territorio occupato perché essi hanno l’idea di fare una pulizia etnica totale; per questo hanno ucciso, massacrato, imprigionato gli uomini nei campi di concentramento.
Penso che abbiate visto nelle notizie televisive quotidiane molto, ma vi garantisco che le brutalità più terribili resteranno nascoste per sempre. L’esito di questa aggressione e pulizia etnica per i cattolici in Bosnia-Erzegovina è una sciagura. Il nostro paese consiste di tre diocesi e secondo le norme canoniche è una provincia ecclesiastica. Della diocesi di Mostar, dove prima delle guerra c’erano 210.000 cattolici, la parte orientale è occupata e circa 50.000 cattolici sono dispersi. Quasi tutta la diocesi di Banja Luka si trova nella cosiddetta repubblica bosniaca serba, dove essi hanno preso tutto il potere. In quella zona non c’è stata la guerra, né scontri, però dei 120.000 cattolici, soltanto un terzo è rimasto, gli altri sono stati espulsi. Io sono vicario episcopale per i profughi dell’arcidiocesi di Sarajevo e conosco benissimo la nostra situazione che mi costringe a parlare davanti a voi. L’arcidiocesi aveva prima della guerra 528.000 cattolici, due seminari maggiori e uno minore, 208 preti diocesani e più di 230 francescani. Nell’arcidiocesi svolgevano molte attività più di 550 suore appartenenti a diverse congregazioni. Nei tredici decanati c’erano 144 parrocchie con le chiese parrocchiali. Erano modeste e semplici, ma tutte nuove o rinnovate. Ogni parrocchia aveva il proprio spazio per insegnare la catechesi. La nostra gente ogni anno per le grande feste mariane andava a piedi nei santuari, si confessava, cantava, pregava. Abbiamo avuto numerose famiglie con 6, 8, 10 bambini, da dove venivano moltissime vocazioni religiose. Con l’aggressione serba, con la loro pulizia etnica brutale, noi nell’arcidiocesi di Sarajevo corriamo il pericolo di essere sradicati. Due terzi della nostra gente è dispersa. Più che le parole parlano i dati e i numeri: dei 528.000 i cattolici prima della guerra, i serbi ne hanno scacciato 155.000; negli scontri con i mussulmani bosniaci altri 138.000 sono stati costretti ad abbandonare la Bosnia, poi a causa degli attacchi continui e della mancanza di viveri 100.000 sono andati all’estero: di tutta la popolazione cattolica ora sono rimasti circa 130.000, cioè meno di un terzo. Da 144 parrocchie in tredici decanati ora sono parzialmente libere soltanto 51; 53 chiese parrocchiali sono distrutte e bruciate, 58 invece demolite. Dei 206 preti diocesani ora si trovano nel territorio dell’arcidiocesi soltanto 75. Degli 800 religiosi ne sono rimasti soltanto 195. I nostri seminari sono chiusi: quello maggiore dei francescani è stato occupato dai serbi che hanno saccheggiato tutti i mobili e ora vendono i libri trovati nella biblioteca o i quadri della preziosissima pinacoteca. Il Seminario diocesano era meta di molti attacchi e proprio nella festa dell’Epifania mentre veniva consacrato il nostro vescovo ausiliare, un proiettile ci ha devastato la cucina.
Come viviamo e sopportiamo questa tragedia? Il nostro arcivescovo, Monsignor Puljic, insieme con il suo nuovo ausiliare, Mons. Pero Sudar sono veri eroi e pastori. Non abbandonano Sarajevo, la capitale, si oppongono al male, alzano la loro voce contro l’ingiustizia, difendono il popolo inerme davanti agli aggressori. Essi, e tutti i nostri sacerdoti, sono ben apprezzati da tutte le tre etnie e tre religioni. La nostra Caritas è l’unico vero appoggio agli affamati, ai feriti, ai profughi. Ogni centro pastorale è punto di riferimento per qualsiasi bisogno e dolore del popolo. Il nostro Ordinariato ha eretto un vicariato per i profughi fuori dell’arcidiocesi, cioè a Zagabria, dove passano quasi tutti coloro che con le lacrime e con gran dolore abbandonano la Bosnia. Oltre a tutto questo i nostri sacerdoti e tantissimi bravi laici hanno preso come impegno speciale quello di spiegare, di dire la verità ai massmedia. Questo ci costringe ad andare spesso all’estero. Purtroppo devo dirvi che le informazioni che circolano nel mondo sono molto parziali e dipende da dove sono prese. Tante volte ho detto all’estero e dico di nuovo: per noi è terribile questa guerra vera e crudele, ma ci fa molto dolore e fatica la guerra nei mass media, la disinformazione, le calunnie, le informazioni scritte per conto di un gruppo etnico o politico. La propaganda militare d’altra parte causò tante fatiche e morti, tanto odio e massacro. Ci vuole coraggio da parte della Chiesa di opporsi a tutte quelle macchinazioni! E la nostra Chiesa, impoverita, umiliata, dispersa sta lottando con tanti mali. Abbiamo bisogno di un appoggio dall’estero. Abbiamo bisogno degli amici che ci capiscono, che ci aiutano, che ci incoraggiano. Anche questo "meeting per l’amicizia fra i popoli" potrebbe avere un’eco nel mondo europeo e svegliare la coscienza del mondo, i politici, i militari i giornalisti, perché conoscano le brutalità nei Balcani e cerchino la verità nel buio e nelle tenebre per difendere i deboli. Sarebbe una vergogna per il mondo, in modo speciale per l’Europa se un popolo con una propria cultura e tradizione da tredici secoli, ora, alla fine del XX secolo, fosse sradicato.
Carissimi amici di buona volontà, vi scongiuro, grido davanti a tutti voi, e se è necessario piangerò: non lasciateci da soli, accompagnateci, aiutateci in qualsiasi modo. Senza il vostro intervento la vostra tragedia sarà peggiore. Vi ringrazio cordialmente per questo invito, vi saluto a nome del mio arcivescovo, Mons. Vinko Pijic, nel nome dei nostri preti, religiosi, fedeli e nel nome di tutti coloro che aspettano un tempo migliore. L’amicizia fra i popoli deve essere possibile. Noi cristiani, che Cristo ha chiamato "il sale della terra", dobbiamo realizzarla. Cerchiamo di dare l’esempio agli altri.
Christophe Hakizabera, profugo e testimone del dramma rwandese
Hakizabera: Naturalmente vi aspetterete da me che io descriva tutto ciò che sta avvenendo nel mio paese, ma la mia esperienza si concentra soprattutto su quella che è stata la mia vita personale, come rwandese che ha vissuto la tragedia del Rwanda fin da quando ero piccolo.
Avevo cinque anni, più o meno, quando ho cominciato a capire che la società in Rwanda si divideva in tre categorie: Hutu, Tutsi e Twa. Non riuscivo a capire quale fosse il motivo di questa divisione, e quando cercai di informarmi mi risposero che i Tutsi erano coloro che erano legati al governo, che gli Hutu erano tenuti a servire i Tutsi, e che i Twa erano una piccola minoranza che doveva fornire qualsiasi tipo di aiuto ai Tutsi. Volevo andare a scuola allora, e quando chiesi se potevo farlo la risposta fu che l’istruzione era riservata ai Tutsi. Però mio padre lavorava in una missione e questo mi diede la possibilità di iniziare a studiare; mi venne detto che ero in un certo modo un figlio dei Tutsi, e così potei studiare fino all’età di 16 anni.
Venne poi il momento in cui molti Hutu cominciarono a ricevere un’istruzione, e si cominciò a proclamare la pari dignità dell’uomo e la fratellanza e questo avvenne nel 1958. Si cominciò da parte degli Hutu a creare un manifesto che richiedeva uguaglianza; uno di loro, uno degli autori di quel manifesto, era mio zio: era il direttore di una rivista cattolica. La monarchia cominciò a rivolgere a costoro l’accusa di interferire nella pace del Paese e fu rivolta al governo belga la richiesta di espellere molti dei missionari in quanto fonte di tensione. Si cominciò a rivolgere richieste di questo genere e ad eliminare parte della popolazione che fuggì in molti paesi.
L’ideologia comunista cominciò a penetrare in Rwanda aggiungendo così ulteriori divisioni a quelle già esistenti. Il re, profondamente cattolico, che la massa degli Hutu amava profondamente, era una persona che si opponeva fortemente ad ogni forma di segregazione, ma i Tutsi lo accusavano di essere solamente un fantoccio nelle mani della Chiesa, mentre gli Hutu vedevano in lui il grande liberatore, colui che voleva liberarli dall’oppressione. Purtroppo nel 1959 egli morì e gli Hutu si resero conto improvvisamente che non c’era nessuno che li avrebbe tutelati, quindi cominciarono di nuovo a rivolgere tutte le proprie speranze alla Chiesa cattolica. Un leader degli Hutu venne attaccato dai Tutsi nel settembre del 1959; ricordo benissimo questo terribile incidente perché avvenne vicino a dove io abitavo. La risposta degli Hutu fu un altro attacco rivolto ad un leader Tutsi: quello fu il momento in cui sotto il miei occhi ebbe inizio la tragedia del genocidio in Rwanda. Gli Hutu furono in grado di conquistare il potere nel 1961; il primo presidente era mio zio, e quindi ebbi modo di vivere estremamente da vicino la tragedia del Rwanda.
Alla fine del mio ciclo di studi superiori, nel 1966, mia madre mi disse che voleva che io divenissi un sacerdote, ma mio zio, che era presidente, spinse affinché io abbracciassi la carriera militare. Entrai nella carriera militare che finì nel 1971, e iniziai a lavorare nel Ministero della Difesa Rwandese, nell’Ufficio per la Programmazione. Il principale timore era quello di come prevenire il ritorno dei Tutsi. Quando visitai il vescovo di Nkaua, anche lui mio zio, egli disse chiaramente che il Paese si stava dirigendo nella direzione sbagliata. Egli voleva un cambiamento e molti politici cominciarono a dire che lui non avrebbe dovuto intervenire negli affari del Rwanda e ad accusare la Chiesa cattolica di aver protetto i Tutsi nel 1959. La Chiesa cominciò quindi a perdere la fiducia da parte del governo, del potere. Il Presidente era un uomo moderato, anch’io come leader militare mi trovavo in una situazione difficile, divisa: da un lato vedevo di fronte a me il pericolo di scontrarmi con mio zio stesso, ma nella mia posizione all’interno dell’esercito dovevo per forza cercare di evitare il ritorno dei Tutsi.
Nel 1972 i funzionari militari più estremisti iniziarono una politica di indottrinamento degli studenti, sia della scuola che dell’università, accusando il Presidente di essere a favore dei Tutsi soltanto per aver sposato una donna che ad essi apparteneva, sostenendo quindi che il Rwanda era in realtà governato da un letto, non da un parlamento. Anche tra gli Hutu cominciarono ad esserci delle divisioni tra il Sud ed il Nord ed alla fine vinse il Nord perché era sostenuto da un numero maggiore di funzionari dell’esercito. Quando il Presidente scomparve, io stesso venni arrestato; erano tutti contro di noi, ci fu un’enorme persecuzione, molti dei ministri vennero uccisi. Io venni salvato da un amico che riuscì a farmi evadere dalla prigione e a farmi fuggire in Uganda. Prima di andare in Uganda andai a trovare mia madre la quale mi ricordò di avermi chiesto, a suo tempo, con insistenza, di non entrare nell’esercito ma di farmi sacerdote; io le diedi della sciocca e lei mi disse: "Figlio mio, tu non capisci. La gloria del nostro Paese è quella di essere uniti in Gesù Cristo e il leader di cui il Rwanda ha bisogno è soltanto colui che permetterà al Paese di fare proprio questo. Adesso te ne vai, mi disse, ma mi auguro che quando tornerai avrai capito".
Me ne andai un po’ infastidito da quello che mi aveva detto, sentivo in me molti rimorsi e mi rivoltavo, in fondo, contro Dio. Anche in Uganda venni arrestato ed imprigionato e mi dissi: "Ma se Dio esiste perché ha permesso che, dopo tutta la mia istruzione, io finissi in una prigione?" Nel 1975 venni liberato ed andai nel Nord dell’Uganda. I rifugiati Tutsi erano nel Sud del Paese e quindi, sia il governo ugandese, sia il consiglio per i rifugiati delle Nazioni Unite temevano che io andassi in quella zona. Nel Nord ero completamente isolato, non avevo nessuno con cui parlare e smisi di andare in Chiesa; poi nel 1982 casualmente incontrai un sacerdote, padre Edo. Una persona mi aveva detto che c’era lì un nuovo sacerdote, quindi andai ad incontrarlo. Per un attimo non riuscii nemmeno a credere che fosse un sacerdote cattolico, ci andai quasi per curiosità. Quando lo incontrai l’umanità che vidi in lui mi affascinò e cominciai a frequentarlo spesso e mi fece conoscere un gruppo di amici con i quali lavorava. Tra questi c’erano Padre Tiboni, Filippo, Boni... Tra di loro trovai una nuova casa, una nuova famiglia e cominciai a capire, a sperare che la vita fosse veramente possibile.
Cominciai a frequentare la Chiesa, cominciai a guardare le cose con occhi nuovi, cambiai profondamente. Cominciai ad abbracciare delle teorie nuove per me e quando conobbi l’attività dei catechisti cominciai anch’io a fare lo stesso. In quel momento, nel centro dell’Uganda, la situazione era molto difficile: il Presidente aveva avuto la maggioranza dei voti da parte dei ruandesi, e moltissimi di loro erano stati raccolti e portati nel Nord. Io venni spinto ad unirmi a loro, ma non ci andai. Avevo un enorme desiderio di andare nel Rwanda e mi dicevano tutti quanti che l’unico modo per poter far questo era entrare di nuovo nell’esercito e che con loro, visto il mio passato di ufficiale, avrei avuto un ruolo molto importante. Ma ormai ero cambiato, ero un uomo nuovo, non potevo più immaginare me stesso con un fucile in mano, pronto ad uccidere un altro uomo; e mi rendevo conto che tutti i tentativi che loro facevano di farmi unire a loro erano vani. Tutti, a questo punto, nell’ambito dell’esercito, cominciarono a darmi la caccia per uccidermi. Con un enorme costo, con grandi sofferenze, padre Edo ed un gruppo di suoi amici cominciarono a proteggermi, a nascondermi. Quando Ibenari venne al nord comiciai a fare io stesso da collegamento fra questi due gruppi e mi venne chiesto di adoperarmi in tutti i modi possibili per stabilire un contatto, per stabilire un dialogo: i miei amici del movimento furono i primi a venire. Iniziò così un dialogo e più tardi, quando andai a Nyanza perché i miei amici mi avevano trovato un lavoro, vi trovai una comunità rwandese molto forte che si occupava, in tutti i modi, di preparare la guerra per invadere il Rwanda. Con un amico ugandese, iniziammo a proporre al Movimento di avvicinarsi ai rwandesi e a Nyanza formammo un nuovo gruppo. Quando scoppiò la guerra eravamo già stati in grado di stabilire un contatto con le fasce più elevate dell’esercito. Naturalmente la tragedia fu immensa, i morti furono molti, la gente fuggiva, ma con l’aiuto dei nostri amici si riuscì, anch’io stesso riuscii, ad avere un’idea chiara. Mi resi conto che la tragedia, tutto quello che stava avvenendo in quel Paese, non era attribuibile a nessuna delle forze in gioco, tutti quanti avevano bisogno di un punto di partenza nuovo, per un modo di vivere nuovo. Tutti ancora insistevano con me perché mi unissi a loro, mi promettevano dei ruoli di elevata importanza, mi si diceva che se io mi fossi unito a loro nella lotta, la sofferenza sarebbe presto terminata, ma io non credevo a questo. Cercai piuttosto di far capire quale fosse la mia visione delle cose e molti mi odiarono per questo. Nel febbraio del 1992 e fino a tutto il 1993 ci fu un tentativo da parte loro, di controllare il territorio, ci furono molti attacchi, la popolazione venne costretta ad abbandonare le terre e nel 1993 ci fu una grande offensiva che indusse un milione di persone del Rwanda ad abbandonare le proprie case. Ovviamente tutti erano molto scioccati e terrorizzati. Cercammo di ottenere una visita da noi e ci fu una chiara espressione di indignazione di fronte alla comunità rwandese, e fra questi c’erano persino i genitori degli stessi comandanti dell’esercito. In seguito a questa reazione di indignazione popolare ci fu un’accettazione, da parte dell’esercito, di ritornare indietro, di permettere alla gente di rientrare nel Paese. Più tardi, purtroppo, si perse il controllo degli avvenimenti, la guerra iniziò nuovamente, ci furono massacri tremendi.
La stampa ha riportato a fondo tutto questo, dimenticando però un elemento importante, il fatto cioè che all’interno di tutte queste tragedie c’era la possibilità di una soluzione e la soluzione esiste già, sta già funzionando, all’interno ed all’esterno del Rwanda: la soluzione è con noi, nasce dalla nostra stessa esperienza, la presenza di un gruppo di uomini capaci di concedere completamente, pienamente, se stessi a Gesù Cristo e per questo capaci di lavorare in ogni modo, capaci cioè di creare una unità vera, visibile; esiste un gruppo unito, come quello di cui io stesso ho fatto parte, talmente unito da non correre il rischio di essere diviso da nessuna ideologia e le persone che fanno parte di questo gruppo stanno lavorando già in Rwanda. In questo gruppo vi sono ruandesi di ogni casta, vi sono italiani, vi sono medici ed io ho capito che questa è l’unica soluzione possibile per il Rwanda e per molti paesi: quello che si è modificato dentro di me, il cambiamento che è avvenuto dentro queste persone, Ruandesi, Tutsi, è una cosa che può avvenire in tutti coloro che hanno ucciso. È necessario riuscire a creare questo senso di unità all’interno del Paese, tra coloro che vi vivono. Per questo motivo io voglio ringraziare tutti coloro che hanno dato a me la possibilità di entrare nel Movimento, di cambiare, di diventare un altro e ringrazio tutti voi e tutti coloro che vogliono e possono organizzare un gruppo analogo da mandare in Rwanda. La soluzione in Rwanda non è possibile fino a quando il cuore dei ruandesi non ha incontrato Gesù Cristo. Questo incontro è possibile soltanto se c’è una presenza reale, vera, di persone che vivono dentro di sé questa esperienza. Immagino che la Comunità Internazionale debba operare proprio a questo fine per rendere possibile la creazione di gruppi che permettano ad uomini di tutti i paesi di andarvi. Non è possibile neanche da parte loro concentrare soltanto la loro attenzione sulle vittime, ma anche e soprattutto sulla ragione di vita di cui queste persone hanno bisogno. Molti si chiedono quale può essere la soluzione di tutto questo, che cosa può fare lo Stato; è stato chiesto anche a me e la risposta che ho dato è stata questa: "Lo Stato deve darci la libertà di associarsi, la libertà di creare un clima che vada a favore della vita, smettendo di guardare l’uomo soltanto come un fantoccio, come uno strumento da manipolare come si vuole, capendo piuttosto che l’uomo è un essere creato da Dio, che ha una sua dignità, che ha un suo destino e che deve essere lasciato completamente, perfettamente libero di seguire il proprio destino".
Sua Ecc. Mons. Paride Taban, Vescovo di Torit (Sudan)
Taban: Vorrei esordire ringraziando l’AVSI che mi ha invitato qui. Non avevo intenzione di allontanarmi dalla mia gente, perché quest’anno ho deciso appunto di essere con loro, per fornire loro consolazione, cosa però che non posso fare da solo. "È meglio, mi sono detto, che io vada a Rimini perché tutti assieme riusciremo meglio ad offrire questa consolazione".
Mi è difficile parlare del Sudan a voi, perché il Sudan è un paese nascosto, è come un giardino zoologico umano. Il governo del Sudan non può consentirvi di venire a scoprire le sofferenze delle genti sudanesi. Il governo vuole nasconderle, queste sofferenze, e ben sapete la ragione di ciò: è che il Sudan è detto il granaio del mondo arabo. Per questa ragione il governo non vuole che le sofferenze dei cristiani nel Sudan meridionale diventino di pubblico dominio. Ben sapete che è stata dichiarata una guerra religiosa, in realtà però non si tratta di una guerra di religione: la religione viene strumentalizzata per indurre il mondo islamico a fornire tutto il suo appoggio e ciò non accade solo in Sudan. Il governo fondamentalista islamico del Sudan ha dichiarato che tutta l’Africa deve diventare "mondo islamico", deve diventare uno Stato Islamico, e il Sudan meridionale è la chiave di accesso. In verità vi dico che una delle ragioni che mi portavano, in un primo momento, a non voler partecipare a questo Meeting, è che ho già trascorso tre anni in giro per il mondo, tre anni durante i quali ho spiegato la situazione del Sudan meridionale, senza frutto, senza che la presenza della comunità internazionale si manifestasse. Ora sono venuto qua solo per rispondere all’appello di Gesù che dice: "Non stancatevi, non rinunciate, bussate e vi sarà aperto". Sicché sono venuto, forse per convertirvi alla causa del Sudan. Noi siamo stati convertiti al cristianesimo proprio dagli italiani, ma nella sofferenza della popolazione del Sudan del sud non vedo molta partecipazione italiana, mentre ci farebbe piacere vedere il volto di coloro i quali hanno fatto di noi dei cristiani, di vederli tra noi, di udirli mentre ci consolano.
Vorrei fare un passo indietro per dirvi della storia del Sudan. Molti fra voi conoscono il significato di questa parola, "Sudan" significa "terra delle genti nere". A volte dico che nel Sudan molti africani sono andati e sono stati infornati per diventare più neri. Una delle ragioni di questa guerra è che i fondamentalisti islamici hanno dichiarato che il Sudan deve essere un paese arabo e uno stato islamico, ma storicamente il Sudan è un paese cristiano. Vorrei dirvi perciò che non ci mancano ragioni per offrire consolazioni a quelle genti, né ce ne mancano per essere al loro fianco. Potrei chiedervi: "Alziamoci tutti, ora e andiamo tutti in Sudan. Andiamo a consolarli" e vorrei che ci andassimo davvero con le nostre preghiere, perché molti di quanti in Sudan riescono a sopravvivere riescono a farlo solo in virtù delle preghiere recitate da milioni di persone nel mondo. Molti nella comunità internazionale vogliono vedere con i propri occhi prima di decidersi ad agire e se si dovesse applicare questo principio al Sudan, mai si riuscirà a salvarlo. È meglio rinunciare a vedere ed aver fede. Ascoltate la voce della chiesa che porta a voi la voce del popolo, perché noi siamo la voce di coloro i quali della voce sono stati privati. Il governo fondamentalista islamico del Sudan non vi permetterà di andare in quel Paese e vedere con i vostri occhi le sofferenze delle genti.
Desidero citarvi Ezechiele (cap. 37, 11-15), leggeteli questi versetti. In essi vengono comparate le genti ad ossa calcinate in fondo ad una valle e la Chiesa fa profezia; Dio dice ad Ezechiele di lasciar vivere queste ossa calcinate, affinché acquistino carne, affinché venga effuso in esse lo Spirito. Senza la Chiesa queste genti non potranno vivere, senza di essa non c’è speranza, ma se questa gente rimane in vita avviene grazie alla professione della Chiesa fra loro.
Chiedetemi: "Vescovo, dove abita?", ma Gesù ha detto che il Figlio dell’Uomo non ha un luogo dove posare il capo. La nostra è una diocesi mobile, segue la gente sfollata nei boschi e nei paesi stranieri. Le nostre chiese sono i grandi alberi, le grotte le nostre case, non abbiamo case come le vostre, seguiamo giorno dopo giorno le popolazioni bombardate e sfollate, la nostra gente è sparpagliata nelle foreste del Sudan meridionale e i nostri preti e le nostre religiose li seguono ovunque essi vadano e si fermano sotto gli alberi. Siamo un popolo di esiliati e di profughi nel nostro stesso paese, siamo un popolo di esiliati e di profughi come in Uganda ed in Kenya, nello Zaire e nell’Africa centrale, nessuno però vedrà mai queste immagini alla televisione, solo Dio le vede, come dice Ezechiele, e a noi dice: "Consolateli!".
Vi chiedo perciò e vi prego, di ascoltare la voce della Chiesa del Sudan, così potrete venire ad aiutare e a riscattare quel popolo. Molti hanno cercato di levare una voce in difesa e a consolazione delle popolazioni del Sudan meridionale, molti, e tra questi il Consiglio di Sicurezza, ma quando il Rwanda è venuto alla ribalta noi siamo passati in seconda linea, ma rischiamo così di fare come fanno gli americani e anziché curare gli ammalati finiremo per sotterrare i morti. Penso che sia meglio prevenire che curare, penso che se non ci affretteremo a porre rimedio alla situazione del Sudan presto giungeremo a situazioni peggiori di quelle del Rwanda del sud, della Bosnia o di altri paesi, perché dopo che si è sofferto tanto, dopo che in ognuno di noi è penetrata tanta amarezza, l’unica via di uscita, quando questa esplode, può essere la morte. Chiedo quindi a tutti voi di essere vicini a quelle genti e, in quanto comunità, di partecipare della loro sofferenza. Vorrei ancora una volta ringraziare l’AVSI per l’aiuto offerto ai nostri profughi nell’Uganda settentrionale e per i tentativi fatti di venire a prestare aiuto ai sudanesi che soffrono nello stesso Sudan meridionale. Vorrei che voi deste loro il vostro appoggio e incoraggiamento. Uno degli amici dell’AVSI, padre Tiboni, è stato mio professore e proprio lui ha insistito perché io venissi qui a dare la mia testimonianza davanti a voi.
Vorrei descrivervi ora la situazione attuale e vorrei farvi rilevare subito che il nostro Paese si trova in una situazione di grave difficoltà: noi chiediamo l’autodeterminazione, ma il governo non è d’accordo. L’unico modo per ottenerla o per compiacere il governo sarebbe quella di convertirsi all’Islam e accettare che il Sudan meridionale diventi un paese arabo, ma proprio qui sta l’ostacolo alla pace. La percentuale dei suicidi nel Sudan meridionale, nelle montagne della Nubia, nelle colline prossime è molto elevato, i bombardamenti sono ovunque massicci e il massacro è quanto mai esteso. Attualmente molta della popolazione locale è sparpagliata nella foresta del Sudan meridionale. Più di 30.000 bambini sono stati allontanati dai loro genitori. Una donna che aveva 10 figli si trova ora ad averne a fianco solo due, eppure si dice disposta ad offrirne uno a chiunque sia capace di portare la pace nel Sudan del sud. Penso che questo aneddoto vi dia una misura della gravità della situazione attuale. In tre mesi di visite mi sono recato nella maggior parte delle regioni della mia Diocesi, dove ho potuto rilevare una voce comune, quella di voler chiedere al consesso internazionale di voler offrire degli approdi sicuri, quella di chiedere al popolo italiano di fare delle pressioni sulla Comunità Internazionale affinché ci vengano concessi questi approdi sicuri, chiedendo ad ognuno di non abbandonarci mai, di non dimenticare le nostre necessità, di continuare ad aiutarci con derrate alimentari, con medicine, con vestiario, con le preghiere e di venire a trovarci, di mandarci dei sacerdoti.
Come cristiani e come cattolici è importante che sappiate che nel Sudan meridionale la fede cattolica è intensa ed estesa e che presto potrete averne una testimonianza; da noi non c’è crisi di vocazioni e chissà che un giorno non possiamo mandarvi noi dei missionari.
Vorrei insistere: la vostra presenza ci è indispensabile. Da noi molti, moltissimi sono i pastori protestanti che giungono da molte parti del mondo ed allo stesso tempo però assistiamo ad una riduzione del numero dei cattolici, proprio perché la partecipazione della Chiesa cattolica alle sofferenze della gente è assai ridotta. E all’Italia vogliamo ricorrere perché la nostra chiesa, nel Sudan meridionale come nell’Uganda settentrionale, è stata fondata proprio dagli italiani. Noi ve lo chiediamo, ricordandovi che vi corre l’obbligo di dar seguito a questa nostra richiesta.