Agonia e fine della Roma antica
Giovedì 28, ore 16.30
Relatore:
Federico Zeri, Vice Presidente del Consiglio Nazionale per i Beni Culturali e Ambientali e
Accademico di Francia
La città di Roma è stata per il mondo antico qualche cosa di insuperabile e di insuperato: è stata veramente la capitale di quello che era considerato il mondo civile. La storia antica ha conosciuto tre grandi imperi: quello romano - il quale è crollato, per quanto sia durato molto a lungo l’ultimo lembo di territorio romano, la città di Costantinopoli, capitale dell’impero romano d’Oriente, caduta nel 453 -, l’impero persiano, che ha avuto la grande rinascita Sassanide, il quale poi si è fuso con la civiltà islamica, e un impero che poi è diventato una repubblica, che esiste ancora e si chiama Cina.
Ma quello che era lo splendore di Roma e la sua grandiosità è qualche cosa di cui difficilmente potremmo farci un’idea. Roma non solo era una città gremita di tesori di storia e di arte, ma era anche una grande città per numero di abitanti. Generalmente si crede che le mura costruite alla fine del III secolo dall’imperatore Aureliano circondassero tutta la città. Questo non è esatto: le mura di Aureliano hanno circondato solo quello che era un grandissimo centro monumentale. Al di fuori delle mura, la città abitata doveva continuare, e lo dimostra il fatto che per costruire le sue mura Aureliano e i suoi architetti hanno incorporato anche edifici piuttosto alti. Sappiamo anche da scrittori antichi che esistevano dei sobborghi, come quello di cui parla lo scrittore Ammiano Marcellino, e che si trovava sulla Nomentana all’altezza dell’odierna basilica di sant’Agnese. Ancora oggi, se si scava lungo le vie consolari, anche a distanza di chilometri da quelle che sono le porte delle mura di Aureliano, dopo due o tre metri si scopre uno strato di mattoni di legno bruciato e di altri avanzi che dimostrano come il luogo fosse abitato.
Roma doveva dunque essere una grande città monumentale, enorme, circondata da una gigantesca periferia simile a quelle che noi oggi chiameremo favelas brasiliane, una periferia di baracche. Questa situazione viene generalmente ignorata ma è provata anche dalla enormità degli edifici pubblici della città. Quando si pensa alla capienza del Circo Massimo, del Colosseo e alla quantità degli edifici termali - alcuni anche di dimensioni colossali, come le grandi terme costruite vicino all’odierna stazione Termini da Diocleziano e da Massimiano, o le terme di Traiano sull’Esquilino o quelle di Severo Alessandro sul Campo Marzio vicino al Pantheon, o infine le enormi terme di Caracalla - ci si chiede: ma chi poteva adoperare degli edifici termali così grandi? Doveva esserci una popolazione molto superiore a quella del milione o del milione e mezzo che generalmente si crede. Doveva essere una città molto grande, che aveva una periferia alimentata da tutti coloro che - come oggi accade al Messico o al Cairo - abbandonavano le campagne.
Quindi Roma alla fine del IV secolo doveva essere una città di splendore immenso per i suoi monumenti, ed anche molto affollata sia dagli abitanti all’interno della cinta muraria sia da coloro che vivevano al di fuori. L’Imperatore Aureliano - il quale dopo la grande crisi del III secolo ricostruisce l’impero su basi militari - aveva previsto, giustamente, che la città poteva diventare obiettivo delle incursioni dei barbari. Ai suoi tempi questo poteva sembrare un pensiero da pessimista, ma poi la realtà si è dimostrata superiore alle più nere previsioni e nel 410 la città dopo un assedio venne occupata dai Visigoti del re Alarico.
Guardando i film storici o leggendo alcuni libri, si pensa che la città sia stata subito distrutta dai barbari, i quali han dato fuoco agli edifici, abbattuto le colonne e così via; in realtà i barbari non hanno fatto nessuna di queste cose, per due ragioni. La prima è che il primo invasore visigoto Alarico era di educazione già profondamente romanizzata, ed aveva un certo rispetto verso la città. Pare che durante la sua occupazione sia andata a fuoco nel foro romano la basilica Emilia, ma non è sicuro; la basilica è stata bruciata, ma non si sa quando, quello che si sa di sicuro è che è andata a fuoco la residenza imperiale degli orti sallustiani, situata proprio nel punto in cui egli entrò a Roma, punto che si può ancora vedere nelle mura aureliane. Ciò fece un’immensa impressione, e spinse sant’Agostino a scrivere La città di Dio, ma la città non ha molto sofferto. Inoltre - ed è la seconda ragione - i barbari non cercavano di abbattere i monumenti, bensì di impadronirsi di metalli preziosi e di ottenere un riscatto. In seguito Alarico per riscattare Roma - ed è un particolare curioso - chiese dei sacchi di pepe, preziosissimo allora, perché le carni macellate o dovevano essere mangiate subito o conservate sotto pepe. Ma la città praticamente rimase intatta.
Una seconda incursione, invece, molto più grave fu quella nel 455 dei Vandali del re Genserico, che erano scesi nella Spagna, avevano passato lo stretto di Gibilterra su delle imbarcazioni e si erano impadroniti dell’Africa settentrionale mettendo la capitale nella grande città di Cartagine che, alla fine dell’impero romano, insieme a Roma, Alessandria e Antiochia era una delle grandi città dell’impero. I barbari di Genserico hanno fatto un danno di cui oggi risentiamo ancora le conseguenze. Innanzitutto essi portarono con sé gli Alani, un popolo di origini iraniana, il popolo che aveva convertito gran parte delle popolazioni germaniche all’arianesimo. Questo è un fatto molto importante perché l’incursione del 453 di Vandali e ariani aveva anche dei connotati religiosi: i barbari infierirono contro Roma. Ma il danno più grave che fecero è la terribile persecuzione che soprattutto gli Alani scatenarono, nell’Africa settentrionale, contro il Cattolicesimo africano che era il più fiorente dell’epoca. Non dimentichiamo Tertulliano, sant’Agostino, moltissime personalità dell’epoca. La persecuzione di cui restano abbondanti notizie fu terribile e colpì non soltanto il Cattolicesimo ma anche tutto ciò che aveva una struttura organizzativa romana. Al punto che coloro che erano sopravvissuti alla persecuzione fuggirono lasciando nel Nord Africa un grande vuoto, vuoto di ricordi sia dell’amministrazione romana che della cultura classica. Il fanatismo islamico nell’Algeria dei nostri giorni è in gran parte dovuta al fatto che quando l’Islam arrivò a Cartagine e nelle grandi altre città dell’odierna Tunisia e dell’odierna Algeria, non trovò più niente di romano, non subì quell’influsso profondo dell’organizzazione romana e della cultura greca che invece subì in Siria, nel Libano e nell’Asia Minore; trovò terra bruciata.
Tornando a Roma, i Vandali fecero sicuramente dei gravi danni, dei quali però non abbiamo esatte notizie; inoltre, fu sicuramente un’occupazione che ebbe anche dei connotati religiosi. Durante queste occupazioni, soprattutto quella del 410, è ovvio che la popolazione che viveva fuori delle mura si riversasse all’interno delle città. La gente deve essersi rifugiata all’interno con grande danno alla struttura urbana; ma possiamo ben pensare che sia il prefetto della città che gli emissari della capitale dell’impero romano d’Oriente, dalla quale ormai dipendeva Roma, si preoccupassero della salvaguardia dei tesori d’arte e dei monumenti della città stessa.
Comincia in quel momento una lenta spoliazione dei monumenti antichi, perché mancava l’arrivo diretto di pietre e di marmi dalle cave e soprattutto perché non c’era più la manodopera per la manutenzione. La decadenza è stata molto lenta, ma dopo le prime invasioni e soprattutto quella del 455, abbiamo parecchie notizie di provvedimenti del governatore di Roma, che per esempio emana dei decreti severissimi contro coloro che avevano cominciato a manomettere i grandi sepolcri lungo le vie consolari. Le vie consolari intorno a Roma infatti erano fiancheggiate da una quantità inverosimile di monumenti marmorei, i grandi sepolcri: Roma non aveva dei cimiteri, e la gente veniva seppellita lungo le strade. Questi monumenti erano delle forme più bizzarre: in pietra, in marmo, o anche colossali mausolei dedicati ad intere famiglie. Quando dunque comincia la spoliazione delle tombe, ci sono degli editti imperiali dell’imperatore di Costantinopoli severissimi contro coloro che si dedicano all’empio commercio dei marmi delle tombe. Le tombe venivano anche profanate, perché la gente spezzava i sarcofagi per impadronirsi dei gioielli che erano stati seppelliti insieme ai defunti. Quindi comincia una lenta erosione di queste tombe, il 99% delle quali è scomparsa. Le tombe più curiose che si sono salvate fino ai nostri giorni sono quelle che erano state incorporate nelle mura di Aureliano, come ad esempio la famosa tomba del fornaio di epoca augustea vicino a porta Maggiore, salvatasi perché inglobata in una torre accanto alla porta Flaminia.
Un terribile fatto accadde più tardi, quando agli inizi del VI secolo una nuova popolazione di origine germanica invase l’Italia, formando un regno associato: gli Ostrogoti. Anche loro erano di formazione già profondamente toccata dalla latinità, e sappiamo che sotto il re Teodorico, morto nel 526, furono restaurati parecchi monumenti di Roma. Abbiamo documentazioni evidenti che il palazzo imperiale del Palatino era addirittura abitato dal re, il quale costruì un piccolo ippodromo nello stadio di Domiziano. Questo ultimo momento dello splendore di Roma dura poco, perché alla morte di Teodorico segue quella che è la più grande catastrofe della storia d’Italia: la guerra gotica.
L’impero d’Oriente e il suo imperatore Giustiniano con i suoi consiglieri non potevano ammettere l’esistenza di un regno barbarico in Italia. Comincia così una cosiddetta guerra di riconquista: la prima è rivolta contro i Vandali e gli Alani che avevano conquistato Cartagine, e che vengono distrutti in poco tempo perché erano debolissimi dal punto di vista militare; la seconda è la guerra contro i Persiani per allontanarli; infine, la terribile guerra gotica che cominciò come se fosse un giochetto, mentre invece durò moltissimo, fino al 545 circa, praticamente distruggendo la civiltà antica in Italia. Tutta la zona, compresa Rimini, delle Romagne e della costa fino circa ad Ancona venne ridotta ad un deserto: addirittura si parla di questa zona come luogo dove la popolazione fu costretta al cannibalismo indebito. Tutte le sorgenti d’acqua vennero avvelenate e i corsi d’acqua vennero impestati con cadaveri, carogne di animali. La cosa più grave fu l’assalto contro Roma che portò a conseguenze gravissime. Una di queste fu che Totila re dei Goti fece tagliare tutti gli acquedotti attorno a Roma, per cui Roma rimase senz’acqua: ma l’acqua continuava ad essere gettata dagli acquedotti, nel punto in cui erano stati tagliati, provocando così la formazione di immensi acquitrini, che poi sono diventati il regno della malaria, delle paludi, durati sino a pochi decenni fa.
A un certo punto Totila decide di sferrare un attacco contro la città, e ci riesce facendo una breccia nelle mura (nell’attuale viale del Policlinico c’è ancora un tratto di muro riparato: è il punto in cui entrò Totila); Totila non bruciò gli edifici (anche questo si vede nei film storici), invece cacciò dalla città tutti gli abitanti, quindi per un certo periodo di anni, che possono essere stati soltanto due o tre, la città immensa è rimasta senza manutenzione. Rimanere senza manutenzione comportava dei danni incalcolabili, specialmente per edifici colossali, come le terme di Caracalla, dove ci volevano migliaia di addetti per la pulitura dei tetti, per gli scarichi dell’acqua. Questi edifici termali erano anche complicati nel funzionamento, e c’era una specie di gigantesca organizzazione che manteneva in piedi gli edifici termali e gli altri edifici, come il palazzo imperiale del Palatino, un complesso gigantesco gremito di opere d’arte, oppure il Pantheon.
Finita la guerra gotica, è successo un fatto molto curioso: molti abitanti non sono voluti tornare nella città, né nelle zone dove abitavano prima degli eventi bellici. Perché? Perché l’impero d’Oriente, non tenendo conto delle gravissime situazioni in cui versavano le terre che erano state teatro dei combattimenti, ha imposto il suo sistema fiscale, e di conseguenza tasse terribili gravavano sugli abitanti, rendendoli praticamente nullatenenti. E poi c’era un altro fatto: già si era avviato quel violento odio, quella violenta frattura, fra Chiesa d’Occidente e Chiesa d’Oriente, fra Chiesa Cattolica e Chiesa Ortodossa. Giustiniano, grande costruttore, è l’imperatore d’Oriente del quale restano più edifici: Santa Sofia ad Istanbul, antica Costantinopoli, la chiesa dei Santi Sergio e Bacco nella stessa città, che era la chiesa fatta per sé e sua moglie Teodora e che oggi è una moschea, la chiesa della Natività a Betlemme, ricostruzione giustiniana di un edificio più antico fatto da Costantino; la bellissima e intatta chiesa di Santa Caterina al Monte Sinai, uno degli edifici più conservati del mondo antico; la chiesa di S. Giovanni ad Efeso, San Vitale a Ravenna... Sono gli avanzi di un imperatore, il quale veniva accusato dal suo storico Procopio di essere un maniaco del mattone e della decorazione abusiva. Eppure, a Roma non ha costruito assolutamente niente: quando il suo generale Belisario riprese la città, furono liberate le mura ma né Giustiniano né Belisario si sono minimamente preoccupati di fare qualche cosa per i monumenti della città che stavano andando in rovina.
Il riuso dei materiali di monumenti più antichi è un fatto molto più antico di quello che non si creda. Già nel III secolo si ha il sospetto che alcuni monumenti di Roma venissero costruiti usando elementi di monumenti precedenti, ma non per ragioni di necessità, bensì perché si voleva attribuire al nuovo monumento quella carica simbolica implicita in quello più antico. Per esempio, nel 313 venne costruito l’arco di Costantino con elementi tratti da monumenti più antichi perché Costantino era vittorioso come Traiano, era saggio come Marco Aurelio, amante delle arti come Adriano. Infatti i rilievi tolti ai monumenti più antichi di questi imperatori hanno la testa dell’imperatore originario sostituita con quella di Costantino. E i romani dovevano riconoscere perfettamente da quali monumenti quei rilevi provenivano. Quindi il riuso è un fatto simbolico, e nel III e nel IV secolo è molto comune. D’altronde noi sappiamo pure che elementi del palazzo imperiale del Palatino vennero portati nel palazzo imperiale di Costantinopoli. Per esempio la stanza dove nasceva l’erede all’impero, il cosiddetto porfirogenito, era completamente rivestita da lastre di porfido e la stanza che si trovava nel grande palazzo imperiale di Costantinopoli era quella stessa del Palatino, smontata e portata a Costantinopoli, per ragioni simboliche, in modo che chi nasceva in quella stanza aveva come predecessori i figli degli imperatori del II e del III secolo nati fra le stesse lastre di porfido rosso, il materiale dedicato all’imperatore. Quindi il fatto del riuso era una cosa molto più antica: però adesso noi assistiamo a un fenomeno del tutto diverso. Vediamo monumenti antichi i quali vengono spogliati di marmi unicamente per costruire delle chiese o per ornare le Chiese. Non vengono certamente saccheggiati per ragioni simboliche, cosa che sarebbe stata in completa contraddizione con l’uso al quali adesso venivano destinati.
Alcuni monumenti invece furono demoliti per ragione di staticità. Per esempio nel centro di Roma, nel luogo più importante della città, il foro romano, il grande tempio della Concordia che era stato costruito dall’imperatore Tiberio venne demolito perché gravemente lesionato, fino a minacciare di crollare e con il crollo danneggiare il sottostante arco di Settimio Severo e probabilmente anche la sede del senato. Altri monumenti sono stati spogliati lentamente delle loro decorazioni facendo giri incredibili. Tutto questo avveniva anche perché nessuno capiva più il significato dei monumenti antichi.
La fine del mondo antico è contrassegnata dalla fine dell’alfabetizzazione. Si calcola che l’alfabetizzazione raggiunta nell’impero romano, agli inizi del VI secolo e alla fine del V secolo, sia stata raggiunta poi dall’Europa soltanto nel secolo scorso. Alla fine dell’impero invece nessuno sapeva più leggere le epigrafi, nessuno o pochissimi, sapevano il significato della quantità enorme di iscrizioni che vedeva intorno a sé. D’altronde l’impero, e soprattutto Roma, aveva subito una sorta di distruzione delle proprie radici culturali, anche nel cambiamento della religione. Quindi questi templi, dedicati a divinità di un’altra religione, non venivano più compresi nel loro significato, erano abbandonati se non anche devastati e profanati. Quindi la città decade lentamente, sia per mancanza di manutenzione, sia per mancanza di interesse, sia perché non c’era più né la possibilità né l’intenzione di salvare il salvabile.
La cosa più curiosa è che qualcuno si preoccupava ancora di salvare il patrimonio culturale della città, soprattutto i libri. Noi abbiamo notizia di un provvedimento del governatore costantinopolitano, una legge la quale cerca di salvare i libri ancora esistenti nelle grandi biblioteche pubbliche di Roma. Ogni edificio termale aveva anche due biblioteche: questo documento dice di raccogliere tutti i libri per trasportarli nelle due biblioteche delle terme di Diocleziano, perché erano le uniche in cui dal tetto non filtrasse l’acqua. In quel periodo sono andati persi migliaia e decine di migliaia di volumi con miniature, di rotoli e così via: praticamente dell’immenso patrimonio librario dell’antica Roma si è stato salvato un solo libro, il Virgilio Vaticano. Tutto il resto è stato distrutto dall’umidità, dall’incuria, dalla mancanza di manutenzione. Sappiamo anche che già nel IV secolo, alcune delle famiglie pagane, per esempio i Simmachi, i Nicomachi e altri, erano preoccupati della possibile distruzione dei grandi testi della cultura romana (Virgilio, Tito Livio, Catullo, Orazio, Ovidio) e avevano per questo allestito nelle loro grandi case degli scriptoria, cioè dei luoghi in cui si copiavano i manoscritti. Di ogni opera ne venivano fatte decine e decine di copie, che venivano poi spedite ai quattro angoli più remoti dell’impero, sperando che ci fosse almeno qualche luogo da cui questi manoscritti potessero sopravvivere dalla catastrofe. Cosa che poi è accaduta, perché di tutti i testi latini che noi possediamo, quasi nessuno viene da Roma, vengono tutti dai luoghi più remoti dell’impero. Moltissimi vengono dall’Irlanda, che, benché cristianizzata, era avida della cultura latina. Quindi questa diaspora di copie dei manoscritti latini è servita a tramandarci molti dei capolavori della latinità.
Un altro fatto significativo è che alcune statue vennero nascoste. Purtroppo non sappiamo i nomi degli autori e non sappiamo cosa rappresentassero. Quando nel secolo scorso si allargò l’odierna via 4 Novembre dietro il palazzo Colonna, furono scoperte due statue in bronzo, splendide, di un pugile e di un monarca ellenistico che erano sicuramente state nascoste per impedire che venissero devastate. La Venere Capitolina, la statua in marmo che oggi si trova nel palazzo del museo capitolino, fu trovata in via san Vitale coricata e coperta di due mattoni, sotto terra. C’è stato qualcuno che ha nascosto alcuni dei tesori per impedire che venissero distrutti. Lo stesso governo di Costantinopoli effettuò sicuramente un rastrellamento di capolavori della scultura greca che erano ancora presenti a Roma. Queste statue, in bronzo soprattutto, dovute ai più grandi artisti della Grecia classica, vennero impacchettate e trasportate a Ravenna, poi dal porto di Ravenna venivano imbarcate e facendo del cabotaggio venivano trasportate a Costantinopoli. Noi sappiamo che nella città di Costantinopoli erano state raccolte le statue più importanti di moltissime province dell’impero. Sappiamo che nel circo di Costantinopoli esistevano dei gruppi in bronzo, poi distrutti dai crociati nel 1204 e fusi per fare moneta, che erano fra le opere più insigni dell’impero. Pare che a Costantinopoli ci fosse l’originale del Laoconte in bronzo. Pare sicuro che ci fosse anche l’originale in bronzo di quell’immenso gruppo di cui è stata ritrovata la copia in marmo, anni fa, a Sperlonga a sud di Roma che rappresentava Polifemo accecato da Ulisse. La città di Costantinopoli era diventata un immenso museo dei capolavori greci. La stessa Athena Parthenos di Fidia, per impedire che fosse devastata o distrutta da eventuali saccheggi di Atene, era stata portata a Costantinopoli.
Quindi anche a Roma deve essere accaduta la stessa cosa: addirittura, credo - da notizie che ho assunto da varie fonti - che una nave carica di questi capolavori esista ancora, affondata al largo della città di Fano, ed è la nave dalla quale proviene il meraviglioso bronzo che poi è stato fatto uscire dall’Italia in modo surrettizio e che oggi si trova in un museo della California, il cosiddetto bronzo Ghetti, uno di questi grandi capolavori della scultura greca portati via da Roma e poi andato a fondo. Lì probabilmente c’è una nave intera, e infatti c’è un punto dove i pescatori non vogliono andare perché dicono che il diavolo gli rompe le reti: sono le statue affondate nelle quali si impigliano le reti che poi vengono strappate. Anche due pezzi famosissimi come i bronzi di Riace provengono da lì.
La città di Roma venne dunque spogliata prima dei suoi capolavori, probabilmente anche i quadri - Roma era piena di capolavori di pittura greca -, e poi si passò a togliere dagli edifici perfino le tegole di bronzo dorato. Sappiamo che vennero tolte le tegole dal tempio di Venere in Roma, vicino al Colosseo, e la copertura di bronzo dorato dal Pantheon. Tutti edifici splendidi, meravigliosi, dai quali venne tolta questa decorazione, che faceva molta gola.
La città intanto andava sempre più impoverendosi, sempre più immiserendosi e gli edifici, mancando la manutenzione, cominciarono a crollare o ad essere trasformati. Ad esempio il Colosseo diventò un enorme condominio di moltissime famiglie. Nelle arcate del pian terreno c’erano le scuderie, e negli altri piani era stato lottizzato, cosa molto utile, perché il Colosseo diventava così una sorta di villaggio-fortezza molto facile a difendersi. L’acqua veniva presa probabilmente o dai condotti sotterranei del Colosseo o dalla vicina fontana. Anche l’edificio più spettacoloso della Roma imperiale, quello di fronte ai quali i visitatori rimanevano stupefatti, cioè il foro Traiano, deve essere incominciato a crollare. Devono essere crollate le travature della navata centrale della basilica Ulpia: da qui, la basilica diventa un luogo di baracche. C’è un punto di scavi, che non è generalmente visibile, in cui si vedono gli avanzi della basilica e gli avanzi di miserabili catapecchie con i focolari; il pavimento di marmi preziosissimi è addirittura sfondato per scavare le tombe degli abitanti. Così come intorno al Colosseo gli abitanti avevano fatto un loro cimitero.
Altri monumenti vennero distrutti scientificamente: uno dei casi più curiosi è quello del foro di Augusto, con il meraviglioso tempio di Marco, che è stato raso al suolo da un gruppo di monaci basiliani, per costruire una chiesa. Furono salvate solo le tre splendide colonne che ancora esistono sul fianco, colonne salvate perché sostenevano il campanile, campanile che è stato poi scioccamente demolito alla fine del ‘700. Altri edifici si sono salvati unicamente perché c’è stato un riuso, cioè perché erano riutilizzati a scopi non propri: il tempio di Minerva si è salvato perché era diventato un granaio.
Ma l’intera città è morta, è diventata un luogo deserto, e la popolazione si raccolse lentamente vicino al Tevere, anche per questioni di acqua, in un quartiere che porta tutti nomi greci o dedicati a santi greci: san Giorgio in Velabro, santa Anastasia, santa Maria in Cosmedin.
E così Roma diventa la Roma degli inizi del ’500: poche case, luoghi deserti, pochissimi avanzi romani che emergono... una città piccola la quale da circa due milioni e mezzo di abitanti era scesa nel Medioevo a diciottomila abitanti. La catastrofe dei monumenti antichi è continuata poi, terribile, nel Rinascimento quando il rinnovato interesse per l’antichità classica ha provocato scavi tumultuosi e la distruzione, che continua ancora, perché molto spesso i costruttori, i palazzinari, pur di fare presto i lavori non denunciano i loro ritrovamenti.