Droga: liberalizzazione o libertà?

Martedì 24, ore 17

Relatori:

Oreste Benzi

Marco Taradash

José Berdini

Maria Pia Garavaglia

Moderatore:

Aldo Brandirali

Oreste Benzi, responsabile della Comunità "Papa Giovanni XXIII"

Benzi: A mio parere oggi in Italia si scontrano due linee di tendenza nettamente marcate: una sostiene il diritto a drogarsi, l’altra, che noi sosteniamo, è il diritto a non drogarsi. Il diritto a drogarsi può essere espresso con la seconda delle dieci tesi di Savater sul diritto che dice che il diritto giuridico dell’habeas corpus deve essere esteso a tutti gli aspetti della libertà dell’individuo, che deve poter disporre del suo corpo, delle sue energie, della ricerca del piacere o della conoscenza, della sua sperimentazione con se stesso. In questa prospettiva la vita umana non è altro che un grande esperimento anche della sua propria distruzione. Contro questa tesi, invece, noi sosteniamo che l’uomo ha dentro di sé un progetto stupendo al quale viene invitato momento per momento ad aderire. L’uomo è realmente libero quando è pienamente se stesso, cioè quanto più obbedisce ad un progetto nel quale si è trovato coinvolto.

L’uomo è se stesso quando raggiunge la positività piena in una realtà che lo precede e lo invita. Allora noi diciamo che in questa crescita ci sono delle linee che arrivano veramente all’uomo, non la linea del piacere e della distruzione totale ma la linea della vita e della positività piena.

Alcune riflessioni: il referendum sulla depenalizzazione dell’uso delle droghe ad uso personale è legale ma non è valido, perché hanno votato il "sì", persone molto ideologizzate, mentre hanno votato no le masse popolari delle cinture delle grandi città, perché è tra la massa degli sfruttati che trova più terreno l’espandersi della droga. Quel referendum ha espresso metà dell’Italia, ma un’altra parte che porta il peso terribile, diciamo, di questa fuga dalla realtà non ha potuto esprimere sufficientemente quello che era; io sto dalla parte di quel 45%.

Inoltre il cartello: "educare e non punire" contiene una bugia anche se non voluta. Educare significa tirar fuori l’uomo dalle sue potenzialità, e il punire, non in senso vendicativo, significa notare l’errore in cui il soggetto è caduto, sottolinea la positività dell’esistenza. Il tossicodipendente è un adolescente normalmente intelligente, molto sensibile che non regge il confronto dei suoi coetanei e quindi per potersi sentire libero ed esistere si sottomette alla linea di tendenza comune. Il tossicodipendente è un adolescente che non è stato aiutato a confrontarsi con la realtà e allora se la realtà crea sofferenza fugge dalla sofferenza e drogandosi è terribilmente solo.

Per questo deve esserci il diritto a non drogarsi; il soggetto non è ancora così autonomo da decidere liberamente di distruggersi e la società deve essere attenta e fare in modo che il soggetto abbia regole di vita definitive e comportamentali, punti fermi di vita. Se diciamo "Tu non devi drogarti ma se ti droghi non ti succede niente", diamo un messaggio contraddittorio perché il seguente distrugge il precedente. I nostri adolescenti non sanno più ciò che è bene e ciò che è male mentre invece hanno bisogno di sapere che non si può far tutto, non per la proibizione ma per la sottolineatura della vita.

In questo momento particolare la Chiesa ha un compito fondamentale: essa è debitrice verso la società di un messaggio che è liberante nella misura in cui diventi vita, in modo che la vita si trapianti proprio come trapianto vitale. La stragrande maggioranza – credo l’80% – degli interventi terapeutici preventivi, riabilitativi e di inserimento sono in mano a uomini di matrice cattolica: sono persone stupende che spendono la loro vita, però il dramma è che Cristo non c’entra nel loro lavoro e tutto si riduce a uno psicologismo più o meso avanzato. E’ molto grave che degli uomini, partendo da Cristo, realizzino il loro impegno come se Lui non ci fosse. La nuova evangelizzazione avviene solo per trapianto vitale, cioè mentre tu vivi colui che ti viene accanto dice: "E’ bello vivere, allora ho voglia di vivere anch’io".

Un altro dramma a cui stiamo assistendo è il soffocamento dello Stato, che nel campo riabilitativo, nell’inserimento è impotente. Questo si vede nelle nuove leggi, che, ad esempio, obbligano ad assumere gli psicologi solo perché lo Stato ha bisogno di dare lavoro agli psicologi, quando sarebbe più economico servirsi delle strutture del territorio.

Brandirali: Abbiamo invitato l’on. Taradash perché vogliamo capire insieme la ricchezza e la profondità della sua proposta. Cosa si aspetta per il futuro?

Marco Taradash, Gruppo Federalista Europeo

Taradash: Se parliamo di antiproibizionismo non è per affermare il diritto a non drogarsi, ma per affermare il diritto di non drogarsi per coloro che oggi non possono affermare questo diritto, perché la droga è libera ed è nelle mani del mondo criminale. L’ISTAT ha calcolato 55.000 spacciatori a tempo pieno quotidiani e altri 10.000 trafficanti che spartiscono sulle strade d’Italia questa merce senza nessun rispetto per la salute di coloro a cui la portano. Per questo il titolo di questo dibattito è sbagliato: non c’è l’alternativa tra la liberalizzazione o la non liberalizzazione, l’alternativa è tra la proibizione, che è liberalizzazione, e la legalizzazione che è regolamentazione.

Lo stato moderno è nato per organizzare le libertà, non per organizzare il bene, perché si è visto nel nazismo e nel comunismo, che la pretesa di organizzare il bene si rivela invece il male quasi assoluto. Lo stato sa che libertà significa anche il costo delle libertà, il rischio delle libertà e si pone come problema quello del limite delle libertà. Legge e ordine, o diritto e ordine, sono sempre i due piatti della bilancia, o i due punti di oscillazione del pendolo di uno Stato liberale. Bisogna misurare ogni volta quanto spazio e libertà sono possibili per non rimettere in gioco le libertà stesse e la libertà stessa. E’ da qui che bisogna partire per discutere di droga, in particolare di droga che dà dipendenza, perché quando combattiamo la droga, combattiamo la dipendenza, combattiamo quella libertà che non è la libertà morale, il volere quello che si fa, ma è la libertà nell’accezione consumistica, il fare quello che si vuole indipendentemente dalle conseguenze. Nel momento in cui ci incamminiamo sulla strada della morale, sia confessionale sia laica, sicuramente ci poniamo come primo obiettivo quello di maturare una volontà consapevole rispetto alle nostre azioni e alle nostre decisioni. La dipendenza dalla droga, o da qualsiasi altra droga (velocità, televisione, alcool) il rifiuto della responsabilità e il rifiuto dell’esercizio critico della libertà è un obiettivo su cui abbiamo una comune volontà di impegno.

Se questo è l’obiettivo, dobbiamo scegliere le politiche giuste per ottenere questo risultato. La politica del divieto e della proibizione non scaccia il demonio droga, ma lo rende un dato presente attraverso il commercio capillare nelle città, la violenza, il denaro che entra nell’economia e nella politica, i morti ammazzati negli scontri fra le bande (è successo ad un Cardinale in Messico, ma succede anche a bambini in Italia).

Salvatore Annacondia, pentito della Sacra Corona Unita di Trani, una città di provincia, ma medio-grosso trafficante di eroina per rifornire la zona, ha spiegato come funzionano le cose. Parlando della sua attività ha spiegato che in Italia entrano con facilità almeno due o tre tonnellate di eroina al giorno (i Ministri degli Interni ci sbandierano come grande successo il dato del 1992 quando sono state sequestrate, in un anno, 2 tonnellate!): quanti soldi frutta e a cosa serve il controllo dell’eroina? Nel mondo criminale l’eroina non è soltanto una fonte di arricchimento, ma anche di ordine, di potere, è ciò che ha trasferito una mafia localizzata in piccole provincie, in zone tradizionali, invece nell’intera regione Sicilia, in città prima immuni, come Catania, in tutta la Calabria, in Puglia e ha fatto oggi di Milano la capitale italiana, e forse europea, del traffico dell’eroina. I drogati che vivono nei paesi hanno bisogno della droga e quindi ci deve essere qualcuno che la rifornisce. Se uno ha il controllo dell’eroina, automaticamente prende il controllo del racket delle estorsioni e dei gruppi criminali che fanno le rapine, diventa il padrone del territorio: a questo serve il traffico dell’eroina.

Nella logica del proibizionismo l’alternativa è molto semplice: o l’astinenza o il nulla. Noi invece pensiamo che salvare la politica di riduzione del danno sia necessario e che quindi per la società sia necessario togliere al mondo criminale le decine di migliaia di miliardi che ricava dal traffico di droga e quindi legalizzare, che significa regolamentare, avere un controllo sulla produzione, sul commercio e sul consumo. Per i tossicodipendenti, la tutela della salute è un diritto di ricevere un servizio per stare un po’ meno male e per cominciare a stare un po’ meglio.

Queste proposte non possono e non debbono essere contraddittorie rispetto al lavoro delle comunità terapeutiche, del volontariato e neppure dei servizi pubblici. Comunità, volontariato, servizi pubblici hanno da occuparsi di tossicodipendenza, al contrario la politica, lo Stato, i legislatori, debbono occuparsi delle conseguenze di una scelta politica nella vita di tutti, tossicodipendenti o no. Ma se una politica è sbagliata, non dà soluzione al problema per il quale era nata. Infatti il problema non è risolto: la droga c’è, i ragazzini vendono la droga oltre che consumarla, la droga è entrata in tutte le città, il consumo aumenta. Il CORA, il Coordinamento Radicale Antiproibizionista, ha già annunciato fra breve una raccolta di firme per la legalizzazione delle droghe leggere, perché sottrarre al mondo criminale una parte di questo suo mercato significa cominciare ad incidere sul bubbone che noi vogliamo definitivamente eliminare.

Solo con il proibizionismo sull’alcool negli anni ‘30 negli Stati Uniti e il proibizionismo sulla droga negli anni ‘70 e ‘80 su scala planetaria i poteri criminali sono arrivati ad un tale livello di forza e di pervasività, che hanno oggi nel nostro Paese e in tutto il mondo.

José Berdini, della Comunità Incontro

Berdini: Le due posizioni rappresentate da don Oreste e da Marco possono se hanno passione per la felicità dell’uomo, collaborare per restituire la vita a queste persone e alle loro famiglie. Non bisogna dimenticare, che le famiglie sono completamente distrutte da queste situazioni. Son voluto partire da questo perché la via di mezzo che è la libertà, e non la liberalizzazione, ha bisogno anche della liberalizzazione, ha bisogno di una educazione nuova in questo senso, che non deve essere ideologica.

La libertà è immediatamente la soddisfazione dei desideri: il desiderio per eccellenza per i tossici è quello di non morire. Anche la cultura rocchettara, che è quella che contraddistingue e fa parlare questo popolo ha detto questo: noi non vogliamo morire mai. Per non morire mai bisogna incontrare un positivo, avere una felicità. Non è una questione clericale, o ascetica, è una questione laica, tecnica.

Anche nella tossicodipendenza ci sono le mode, le linee di tendenza: ora va di moda questo fatto di unità di strada, che invece sono sempre esistite. Lo sanno bene i genitori dei tossici che sono a prendere i figli in mezzo alle strade magari per portarli a casa e picchiarli. Le unità di strada non devono essere inventate, ma perfezionate. Bisogna valorizzare l’esistente fino al punto di renderlo più cosciente della realtà odierna. I ragazzi fan meno uso quotidiano di droghe come l’eroina e fanno più uso quotidiano di droghe "legali" date a destra e a manca, sia dal pubblico che dal privato.

Un’altra falsa scoperta che si sta tentando di riscoprire è l’affermazione che la droga è un problema soltanto sanitario e non un dramma sociale: questo è una grande menzogna, perché se da una parte i drogati non lavorano – e questo è un dramma sociale – dall’altra hanno a che fare con una una serie di problematiche connesse al sanitario, quindi l’una non toglie l’altra.

Ho detto questo per sottolineare l’importanza delle comunità terapeutiche: non bisogna uccidere le persone che in qualche modo hanno tentato un percorso di salvezza per i tossici.

Le comunità vanno certamente aiutate; lo Stato in questo deve essere amico e anche tutto il mondo politico italiano, inclusi gli antiproibizionisti. Se si ha passione per quella felicità dell’uomo che nei tossici è completamente confusa, bisogna scendere sulle strade e farsi popolo. Popolo è chi lancia messaggi positivi, non chi attacca una persona come Muccioli.

Lo Stato deve avere un compito in qualche modo accompagnatorio, educativo, come un genitore che accompagna gli errori, il bene e il male dei propri figli. Cerchiamo quindi di valorizzare l’esistente, di essere realisti e meno pieni di vecchiezze ideologiche.

Brandirali: Qual è la capacità effettiva e concreta che possiamo dispiegare rispetto all’esperienza fatta fino ad oggi, don Oreste?

Benzi: Siamo all’estremo limite di una decadenza che nasce dalla rivoluzione francese, che va a finire all’esistenzialismo (fosse quello di Gabriel Marcel!) e culmina con l’individualismo. Il 50% dei ragazzi che noi abbiamo in comunità sono venuti dal carcere: io non sono per il carcere, ma se non altro è un’occasione che suscita più che mai la voglia di venirne fuori, è una di quelle occasioni obbligate attraverso le quali il soggetto prende coscienza di sé.

La tossicodipendenza non è il male, è il sintomo di un male che è un altro. Ad ogni tipologia di drogato bisogna far corrispondere una tipologia di recupero; ma il metodo fondamentale consiste semplicemente nel conoscere l’altro, sentirsi conosciuti, sentirsi già salvati. I nostri ragazzi tossicodipendenti vogliono capire il dramma della solitudine universale, ma quando lo capiscono si accorgono della sete infinita di un rapporto: ad esempio quando mi chiedono: "dove abiti?" è come se chiedessero "non tu, Don Oreste, ma tu Cristo dove abiti?"

Brandirali: Onorevole Taradash qual è il senso della sua proposta?

Taradash: Il modo di tradurre la morale in buona politica è fare delle leggi che funzionino, che consentano a chi ha una morale diversa dalla nostra di non esserne sacrificato. E’ sbagliato dire che i problemi morali si risolvono attraverso le leggi penali perché non si può pensare che l’intervento sociale possa basarsi sulle istituzioni e su istituzioni che reprimono.

Noi possiamo trasmettere un sentimento comune di lotta a ciò che impedisce a ciascuno di essere se stesso. Qualcuno può anche trovare se stesso nella droga per un periodo della sua vita, forse non nell’eroina, ma nella pasticca di estasi, nella musica tecno. Può darsi che questo sia un momento di passaggio obbligato nella vita di qualcuno: dobbiamo creare una rete di protezione, non maledire le persone e le loro scelte. Le politiche dello Stato devono essere politiche fatte per i buoni e per i cattivi, per i generosi e per gli avidi, per i regolati e per gli sregolati, e devono consentire a tutti di non soffrire delle leggi, ma di ricavare qualcosa di positivo per la loro vita.

Brandirali: Maria Pia Garavaglia, lo Stato si fa Chiesa?

Maria Pia Garavaglia, Ministro della Sanità

Garavaglia: Il tema del nostro dibattito era "Droga: liberalizzazione o libertà". Lo Stato dovrebbe essere lo strumento che rende liberi i cittadini, perché organizza la comunità in modo da rimuovere quei problemi che appartengono alla cultura, ma che possono essere dominati e modificati con l’educazione. Nel titolo manca la parola "liberazione": la libertà è frutto e insieme conseguenza di una convivenza civile fondata sui valori. Lo Stato non è indifferente ai valori, deve mettere ciascuno in condizione di promuoverli. La liberazione è un frutto di maturità interiore; per questo lo stato deve promuovere le occasioni di promozione dei valori ed ogni agenzia educativa, la famiglia, la scuola, l’associazionismo, i momenti di comunità. Queste occasioni hanno il compito specifico della liberazione da ciò che fa essere meno degni.

La liberalizzazione è il contrario della liberazione, è il contrario della libertà: perciò, sulla droga, anche un Governo che vuole essere espressione della cultura media di un paese, non può non prendere posizione.

Abbiamo perso il referendum; mi metto fra quelli che sono stati sconfitti, e questa sconfitta ha segnalato una debolezza incredibile della nostra capacità di comunicare che cosa è la libertà e quali sono gli strumenti per liberare, perché abbiamo sanitarizzato completamente un problema umano. Taradash ha ragione quando dice che tutti i problemi di emarginazione non possono essere chiamati "droga": ma proprio per questo la droga – uno dei problemi, non può però nemmeno sanitarizzarsi.

Abbiamo affidato questo problema al medico di base, che per definizione non è formato, e che non è pagato dal sistema sanitario nazionale per essere un distributore di farmaci sostitutivi della droga. E’ la stessa scorciatoia di chi usa il farmaco per risolvere problemi di sofferenza, anche modesta, esagerando nella farmacologizzazione della tutela della salute.

Abbiamo perso il referendum, abbiamo eliminato qualsiasi possibilità di individuare dosi; fino a quando, sotto il profilo penale, un magistrato non arriverà a dire che certa dose è comunque incomprensibile, non abbiamo riferimenti giuridici. Il Governo non ha fatto una legge di recepimento dei risultati del referendum perché è impossibile farla. Il referendum ha abolito ogni e qualsiasi quantità per ogni tipo di sostanza, quindi diventa falso anche il desiderio di dare il nome giusto ad ogni droga, e non ha senso liberalizzare una droga cosiddetta "leggera" e una cosiddetta "pesante". Come diceva don Oreste, il problema è di testa, non di qualità della sostanza, per questo lo Stato deve rispondere con una molteplicità di iniziative, le comunità, i servizi territoriali, la medicina di base.

La "liberazione" non tocca allo Stato, tocca a chi ha diritto e dovere di educare, ma queste persone o associazioni devono avere dallo Stato la libertà. Nella comunità si ricostruisce un uomo, si fa educazione alla vita, lo Stato non può decidere che ci vuole uno psicologo ogni tre ragazzi, un educatore ogni quattro. Lo Stato deve riconoscere ogni comunità per quello che è: deve certo controllarla civilmente, affinché ci siano criteri di abitabilità, di igienicità, affinché non ci siano soprusi, né delitti, ma non deve andare oltre. Lo Stato deve fermarsi sulla porta di chi esercita un diritto-dovere, che in questo caso è anche il massimo della solidarietà.