Mercoledì 24 agosto

"E SE L'UOMO PERDESSE LA DOMANDA"

Partecipano:

Andrej Tarkovskij, Regista;

Dott. Giacomo Contri, Psicoanalista;

Prof. André Frossard, Scrittore Giornalista.

Moderatore:

Prof. Rocco Buttiglione.

R. Buttiglione:

Iniziamo la tavola rotonda di oggi sul tema "E se l'uomo perdesse la domanda". È una tavola rotonda che si collega direttamente con il grande tema che abbiamo dibattuto ieri sulle origini dell'uomo. Mi pare che dall'incontro di ieri una cosa risulti con chiarezza: l'uomo si interroga sulla sua origine non per una vana curiosità, ma perché gli importa del proprio destino; la domanda sull'origine è carica di un significato più grande a cui non può rispondere semplicemente la ricerca scientifica, che individua i vari anelli della catena evolutiva che porta in modi diversi verso le grandi scimmie antropomorfe e verso l'uomo. In un certo senso il problema più interessante non è l'origine dell'uomo, ma l'origine della domanda che l'uomo fa su se stesso. Questo infatti è ciò che distingue l’uomo da tutti gli altri animali: la capacità di percepirsi come problema, di formulare una domanda radicale su se stesso. Potremmo dire in un certo senso che l'uomo si accorge così di essere abitato da una domanda che è più grande di lui e a cui egli stesso non è capace di dare una risposta, tanto che l’unico atteggiamento giusto davanti a questa domanda non è quello di volerla ad ogni costo risolvere, di volere ad ogni costo riempire lo spazio di quella domanda con una risposta affrettata, quanto invece, quello di ascoltare con pazienza, di restare in attesa, di lasciare che un Altro, se esiste, se vuole, dia la risposta di cui l'uomo di per sé non è capace. Ma davanti a questa situazione dell'uomo che si scopre finito, portatore di una domanda e di un desiderio più grandi di lui, davanti a questo si erge il pericolo della dimenticanza, sia che si accetti una risposta falsa, riduttiva, sia che ci si abitui all'idea che si può vivere senza avere dentro quella domanda. In fondo l'atteggiamento della nostra cultura è oscillante fra queste due possibilità: gli idoli, la politica, il progresso tecnico, tutte le diverse pretese dell'uomo del nostro tempo di darsi una risposta stretta, piccola, che risolva la domanda di infinito che è in lui. Oppure il materialismo pratico della società dei consumi, cioè il dimenticarsi di avere una simile domanda, il "divertissement" di cui parla Pascal, l'irrompere nella vita di mille interessi momentanei che fanno dimenticare ciò che veramente importa e inducono a mettere tra parentesi le domande radicali. La tavola rotonda di oggi prosegue questo discorso; lo prosegue presentando tre esperienze, tre modi di vivere insieme il pericolo di perdere la domanda, ma anche la possibilità di esserle fedele. Abbiamo con noi Andrej Tarkovskij, un grande artista russo, che nella suo opera dal film su Rublév fino a "Nostalghia", ci mostra quasi una fenomenologia della situazione dell'uomo. Vorrei soffermarmi un attimo sul titolo dell'ultimo film "Nostalghia". La nostalgia è un tema fondamentale della nostra cultura. Credo che, in senso moderno, il primo a parlarne, sia stato Novalis. L'uomo è come posseduto dal desiderio di qualcosa che non sa definire esattamente, come una patria perduta, verso la quale sente il bisogno di ritornare. E la vita è movimento, è ricchezza, è fatica, proprio perché è mossa da questa nostalgia: tornare in una patria in cui non siamo mai stati. Questa esperienza di insufficienza del presente, del finito, che pone sempre di nuovo davanti alla domanda e che, ponendo davanti alla domanda, costringe a scegliere tra il bene e i. male, fra la verità e la menzogna, fra il coraggio di essere fedeli alla domandi che rende uomini e l'oblìo, la dimenticanza. Dopo Tarkovskij, ascolteremo Giacomo Contri, che è uno psicanalista. Se l'amicizia non mi obbligasse ad un certo pudore, oserei dire forse il più grande, uno dei più grandi psicanalisti oggi in Italia, che alla scuola di Lacan, di cui è stato amico e traduttore, ha imparato a spogliare la psicanalisi della ganga positivistica dentro cui normalmente viene compresa, per intenderla, invece, come il dialogo dell'uomo con l’Altro che è in lui, la scoperta dell'Altro, la scoperta che non mi appartengo, la scoperta che l'uomo non può dominare semplicemente se stesso, ma deve lasciar parlare qualcosa d'Altro che è in lui e che gli si fa incontro prima di tutto, come padre e come madre, nell'esperienza del fanciullo. Questa riscoperta del nucleo centrale della psicanalisi, e d'altro canto, la scoperta della psicanalisi come linguaggio, cioè come una struttura attraverso la quale continuamente un significato si presenta e si nasconde. Questi due nuclei del pensiero lacaniano sono stati sviluppati da Contri in modo originale, e anch'essi nel loro modo, ci riportano verso il centro del nostro discorso. Infine, ci rivolgerà la sua parola, André Frossard che già abbiamo avuto modo di ascoltare. Frossard ha vissuto una delle esperienze più profonde e sconvolgenti che un uomo possa vivere e ne ha reso ragione in un libro che molti di voi hanno letto "Dio esiste; lo l'ho incontrato". È l'esperienza dell'irruzione di quell'Altro, quell'Altro assoluto che è Dio nella vita dell'uomo. Questa esperienza che l'uomo non cerca, che forse, almeno coscientemente, non desidera neppure, è ciò che cambia la vita, che fa intuire un nuovo desiderio, una nuova capacità di felicità e di bene, di cui l'uomo con la sua cultura non è capace. A me colpiva ieri, ascoltando suor Angela, la stringente analogia con l'esperienza che lei stessa ci testimoniava: "Io non ho cercato Dio, ma Dio è entrato nella mia vita". Uno rimane quello di prima, ma non può non seguire l'avvenimento che lo ha afferrato. Frossard, che è un grande intellettuale francese, ha poi reso ragione in diversi libri di ciò che gli è capitato di vivere. Ha reso ragione della esperienza che gli è toccato di vivere, offrendoci un modello di cultura che non pretende di catturare l'uomo nella gabbia delle interpretazioni, ma pretende di porre il dotto davanti alla vita, nella stessa posizione di ascolto umile e attento che è propria dell'uomo semplice. A questo punto, io ho già occupato troppo del nostro spazio e do la parola ad Andrej Tarkovskij.

A. Tarkovskij:

Bisogna dire che sono capitato in questa assemblea un po' per caso, perché ero arrivato qui per altri motivi. Domani, infatti ci sarà un incontro, dove presenterò il mio libro su Andrej Rublév che è uscito a Rimini stampato da Maggioli. Però gli organizzatori di questo Meeting hanno deciso tutto ad un tratto, di coinvolgermi in questo tema dell'assemblea, cioè quello che succede all'uomo se perdesse la domanda. Io vorrei dire, addirittura, che, secondo me, l'uomo già da tempo ha perso il desiderio di porsi le domande e questo è il problema. Infatti chi continuamente si pone questa domanda, non si trova in uno stato di depressione e sgomento morale. Direi addirittura, che noi abbiamo perso l'interesse verso noi stessi, verso la nostra persona. Noi da uomini che amano sé stessi, come dovremmo essere, ci siamo trasformati in egoisti; ci siamo abituati ad insegnare agli altri, a fare la lezione, ad influenzare gli altri, a fare della vita degli altri quello che vogliamo e, cosi facendo, ci siamo dimenticati di noi stessi e abbiamo perso noi stessi; abbiamo imparato a guidare gli altri, ma abbiamo disimparato a condurre noi stessi. Da quando, ormai tempi lontanissimi, l'uomo si è reso conto che gli era difficile vivere in un pianeta così duro e ostile, ha imparato ad unirsi agli altri per difendersi insieme, e da allora l'uomo ha imparato a vivere in questa direzione e non ha più avuto occasione di vivere per se stesso. Io penso che, in questo senso, abbia ragione Marx che ha detto che la storia umana si sviluppa sempre a partire dal peggio che c'è, in tutte le possibili varianti. Penso che tutte le disgrazie derivino proprio dal fatto che noi ci occupiamo tanto degli altri senza occuparci di noi stessi. Noi ci ricopriamo di questi problemi che troviamo nel mondo ma, facendo così, evitiamo di avere un approccio personale verso questi problemi. E in questo senso la nostra civiltà ha fatto un errore fondamentale: il nostro sviluppo spirituale è rimasto molto indietro rispetto allo sviluppo materiale e tecnologico. E così ogni nuova scoperta scientifica, si trasforma in un nuovo dramma, perché ogni volta ci pone di fronte al problema dell'uso di questa nuova scoperta per il bene dell’umanità ed ogni volta succede che queste scoperte scientifiche si trasformano in tanti mostri per l'umanità. La ragione è che noi non siamo pronti ad accettare, ad usare, ciò che la scienza e il progresso tecnologico ci offrono. Abbiamo trasformato la tecnologia nella costruzione di protesi; abbiamo costruito per vedere di più, per sentire di più, per muoverci meglio, e tutti questi movimenti nello spazio ci sono facilitati, ma così facendo diventiamo i robot, della nostra stessa tecnologia. Questo risulta dallo sviluppo non sincronico della nostra persona nel senso spirituale e materiale. Non sono un politico, né uno scienziato, sono un artista! In tutte le mie opere, io ho sempre cercato di fare in modo che suscitassero il muoversi di questi problemi, di questi interrogativi nell'uomo. Proprio in seguito al suo mostruoso egoismo, l'uomo ha incominciato ad apprezzare la sua libertà in quanto tale. Mi sembra che la stessa definizione di libertà ormai, venga interpretata in senso errato. Che cosa è la libertà per un uomo che ama, che è pieno d'amore? È innanzitutto la capacità di sacrificarsi, ma di questo ci siamo ormai disabituati non solo a pensare ma anche a parlare. Siamo abituati ad accettare qualsiasi altro sacrificio tranne il! nostro. Per questo se vogliamo affrontare la cosa dal punto di vista del titolo di questa assemblea, la mia impressione è che noi abbiamo perso l'interesse per noi stessi; abbiamo perso questa domanda fondamentale: perché viviamo? Perché siamo venuti al mondo? Senza rispondere a questa domanda, noi non viviamo come persone, non siamo degni di chiamarci uomini, anche se crediamo che la nostra attività sia piena di significato. Penso che noi abbiamo il dovere di rispondere a questa domanda, e tutta la nostra vita e il nostro futuro debba essere dedicato a incarnare questa risposta. Non è un problema teorico e nemmeno filosofico e al limite neanche religioso, perché è l'uno e l'altro. Un fatto: noi se non rispondiamo a questa domanda diventiamo inermi di fronte al nostro futuro. Voi ormai avete sentito e risentito il discutere sul problema di una eventuale guerra atomica. Ormai è chiaro a tutti che l'umanità non sopravviverebbe ad una o due o più esplosioni atomiche. Ormai è inutile discutere se arrivati a questo punto, ci siamo per un motivo logico o illogico. Io in questa sala, sono con chi al di là dell'indifferenza vuole dare il suo contributo pratico, concreto a far sì che le nostre vite diano una risposta a questa domanda. Io voglio che tutta la mia vita sia dedicata unicamente a questo. Ultimamente mi sono chiesto spesso sia giusto che io faccia quello che faccio, che mi occupi di cinema. Che cosa è l'arte? Serve a far sì che l'uomo si rivolga verso se stesso. Nei momenti migliori mi accorgo, tocco con mano, che l'arte dischiude l'uomo e apre la sua anima ad accogliere il bene. Ma quando vedo che l'arte diventa una merce come un'altra, che si commercia sul mercato, come una cicca da masticare, come una coca-cola, mi chiedo se è sulla strada giusta. Scusate se adesso mi metto a parlare in modo strettamente professionale, ma mi sento inerme davanti a voi; mi sento obbligato a mettermi in questi panni. È più difficile per me perché non mi sento più protetto dall'opinione generale. E vorrei finire dicendo questo: che se noi vogliamo credere nel futuro, dobbiamo cominciare a pensare a noi stessi, non nel senso egoistico del termine, ma in un significato di servizio e quindi di sacrificio e quindi di rischio. Grazie.

R. Buttiglione:

Credo che in nessun modo avremmo potuto avere una introduzione più appassionata e profonda nel cuore del problema che ci interessa. E mentre ringraziamo con autentica commozione Tarkovskij, proseguiamo con l’intervento di Giacomo Contri.

G. Contri:

Sono un po' colpito da una sala così grande, colpito però fino ad un certo punto, perché per me è la stessa cosa che parlare con 5 persone. Dico subito che sono venuto a questo incontro per il fatto di avere voglia di rivedere persone che conoscevo e di vedere altri che non conoscevo affatto, ma, a cui sono legato da quella che chiamerei una fraternità di nascita. Non mi sentivo obbligato a venire solo per parlare. Avrei potuto essere anche in sala come uno di voi. Ho preparato degli appunti, sono sparsi, sono diversi, sono tanti: ci sono molte cose da dire. La prima cosa da dire è che un conto è la domanda un conto è un enigma: la differenza è molto netta. La domanda è quella che faccio io, che fai tu, o che ha fatto qualcuno comunque; un enigma è qualche cosa che fa lui delle domande a te. La distinzione è piuttosto importante perché nel mio mestiere mi occupo di enigmi e in questo luogo in cui siamo riuniti e vi sto parlando, si parla di domande. Cercherò di parlare di domande. C'è qualcosa di equivoco, di equivoco in senso letterale; sono due pezzi diversi, c'è qualcosa di equivoco nella parola domanda. Questa mattina, discutendo con i giornalisti, facevo osservare che la parola domanda figura anche quando si dice "la domanda e l'offerta"; ma non è di questo che noi stiamo parlando. Per questo motivo credo di potermi permettere di suggerirvi di usare il "coltello", cioè tagliare in due le affermazioni che si fanno. Per esempio, quella frase che c'è laggiù scritta in tedesco. Ve la traduco, dice: "L'uomo desidera ciò che è più grande di lui; non vale la pena di spendere la vita per meno". Non dico che non sono d'accordo, dico che una frase di questo genere bisogna tagliarla in due. Perché non è affatto detto che vale la pena di spendere la vita per tutto ciò che è più grande di me. E se posso permettermi una piccola osservazione teologica, io non so se definirei Dio grande o piccolo: è esistita una teologia negativa che su queste cose ha messo i puntini sulle i ... Tutti parlano del linguaggio; il linguaggio vuol dire che un certo giorno, di solito quando si è piccini, vi si è entrati dentro, come nel mare, come quando si fa il bagno in immersione. E un bel giorno si incomincia parlare, cioè ad aprire il becco; il solo fatto che si parla, che si apra il becco, è una domanda: si domanda di essere ascoltati, essere capiti, magari di essere discussi, almeno di essere ascoltati, di essere guardati, per il solo fatto di aprire il becco, di essere amati. Ecco un tipo di domanda in cui usare il "coltello", e tagliarla in due; c'è qualcosa di equivoco in questa domanda. Un’altra osservazione (vedete, vado avanti a pezzetti): mi veniva in mente, venendo qui, una frase che molti conoscono, e che è di Hegel. Una quindicina di anni fa in un certo ambiente la conoscevano tutti. Questa frase dice che la "Gazzetta", (il giornale, il quotidiano) è la preghiera del mattino dell'uomo moderno. Un cambiamento di preghiera, dunque, con un cambiamento d’epoca! In parte, per la sua epoca, per certi gruppi di gente, Hegel aveva certamente ragione. Farei solo la considerazione di tipo verbale, considerazione o constatazione, che è finito il tempo in cui la "Gazzetta" è la preghiera del mattino dell'uomo moderno. Perché, tutto questo affare che chiamiamo moderno, non dico che è finito, ma dico che si ripete, che è sempre quello, che è anacronistico e non finisce mai, non se ne può più. Senonchè, avrete sentito parlare di quelli che dicono che c'è il post-moderno, verrebbe da dire: fosse vero! E non vedo la minima ombra, il minimo cenno che da qualche parte ci sia un post-moderno, e il moderno che è sempre lì, che si trascina e non finisce più. Altra osservazione: penso che abbiate una cattiva opinione, quanto meno non una buona opinione, di quello che è chiamato "il Barocco". Mi spiego prendendo ad esempio un libro che tutti voi credo abbiate letto, salvo quelli che non sono andati a scuola, "i Promessi Sposi" di Alessandro Manzoni. C'è un personaggio minore nei Promessi Sposi, ve lo ricorderete. Questo personaggio minore, in realtà è il Barocco. A me il Manzoni questo illuminista cattolico, o meglio la sua maniera di essere cattolico, non piace, e la sua maniera di essere illuminista ancora meno. L'illuminista Manzoni inventa un personaggio, Don Ferrante, con cui il Manzoni è molto malvagio. Intanto ne fa un personaggio minore, in secondo luogo lo tratta molto male, gli fa fare la figura dello stupido. Inventa questo personaggio ridicolo, ridicolizzato. Don Ferrante ha una biblioteca, e questa biblioteca, come tutte ha dentro dei libri. Manzoni passa in rassegna questi libri per farei ridere, e, dopo averne nominati alcuni, ci fa capire che lui considera questi libri, che sono il Barocco, astrusi, inutili per intelligenza e tout court. Cosa vuol dire che sono inutili? È semplice, vuol dire che il Manzoni fa un classico ragionamento capitalistico: sono inutili per scambiare, per quello che si chiama roba di scambio, non servono a produrre, non servono a far funzionare la macchina. Il Barocco è tuttavia un'altra cosa. È per questo che se la prende il Manzoni. All'illuminista Manzoni non piace il Barocco per il quale esistono anche dei valori puri e semplici, che si chiamano dei valori d'uso, che non servono a far funzionare la macchina, che stanno da un'altra parte; magari si consumano in fretta, oppure non si consumano mai. Ecco volevo accennare questa osservazione sul Barocco, il cui giudizio ha molto a che fare con ciò di cui stiamo parlando. È molto importante il termine di periodizzazione: il Barocco è dentro o è prima del moderno? C’è stata una grande "Kulturkampf" per escludere il Barocco dal moderno. Un altro appunto e vado verso la fine. Cerco di raccontarvi una vignetta, una vignetta molto bella, di un umorista del più alto rango, che si chiama Altan: lo avrete visto da qualche parte, nei fumetti. Questa vignetta, cercate di immaginarvela: si vede un confessionale con dentro il prete, (avete presente i personaggi di Altan, tutti un po’ storti con un naso a proboscide, è un po' volgaruccia la vignetta)… a lato c’è un penitente, uno che si confessa, il penitente dice al prete "Padre, questo mondo è una merda". Il prete risponde: "Pazienza dovevate pensarci prima. Adesso è fuori garanzia". È un grande teologo, Altan, non so se se ne rendete conto. Cartesio vuole il mondo garantito, e Dio è garante. Questa vignetta è contro Cartesio, o meglio, è contro questa idea, di un qualcosa di cui si domanda. E vedete perché bisogna tagliare in due le nostre domande: ce ne sono di quelle che non sono buone. E Cartesio vuole che Dio sia il garante, il garante della nostra coscienza, il garante del nostro mondo, in quanto lo possiamo conoscere. Kant, che domanda al suo ordine trascendentale di garantire alcune cose. Dio, l'anima, il mondo, non si possono conoscere, ma almeno l'ordine trascendentale garantisce, che almeno in qualche modo siano pensabili, che almeno siano lì. E tutto questo, tutta questa garanzia, dovrebbe essere fuori, a giudizio mio, dalla vostra domanda, così come fuori dalla mia. In quell'epoca che si è chiamata moderna, si è cominciato a pensare che Dio è quel grosso, perché qualificato necessariamente come Grande cui chiedere una certa garanzia. La garanzia che il mondo vada avanti così com'è, non tutto diverso da così com'è. Nell’era moderna si fanno a Dio queste richieste, che il mondo sia così com'è, sia quello che noi crediamo di sapere. In questa epoca per particolari ragioni, si crede di dover ritenere interessante quella domanda, la cui risposta è il dimostrare che Dio esiste. Quello che vorrei dirvi è che, a mio giudizio, non è affatto questa la domanda interessante; la domanda interessante è se Dio sia interessante o no. Non prendetemi per troppo frivolo, già che ho raccontato una vignetta di Altan, se dico dunque, che Dio è una questione di gusto. Il gusto potrebbe non esserci, non è vero? È importante che sia una questione di gusto! Finisco con quest'ultima osservazione che esprimerei così: non basta essere incarnazionisti, bisogna essere apocalittici. Io personalmente non ho il minimo temperamento apocalittico, nel senso che tutti credono, e tanto meno nel senso che il fascismo ha fatto suo, di un gusto per il nero e il rosso, per la morte e per il sangue, nulla di questo genere. Voglio dire che come va avanti il mondo non c'è gusto, perché cosi non finisce mai, sta continuando così, ma non vale la pena di tenerlo in piedi. Quindi apocalittico, per me non è là fine della vita, la vita collettiva com'è nelle grandi raffigurazioni apocalittiche. Apocalisse è il desiderio vivente che non si può continuare a tenere in piedi il mondo com'è perché ne risulta quel tipo di morte vivente che in fondo costituisce l'essenza del nostro mondo. Sinora un nuovo desiderio (non dico buttando via gli altri) che sia nascibile, alcuni direbbero costruibile con le mani; altri direbbero, dato graziosamente (una volta questa parola voleva dire qualche cosa, viene da Grazia). Ritengo che anche per tenere in vita gli atri interessi, non ci sia altro che contare su un desiderio nuovo. E se la parola domanda è il cuore del nostro tema, devo dire che ce n'è un'altra, che lo metterei un gradino sopra a quello di domanda. Ecco, al gradino superiore rispetto quello in cui si trova la domanda, io metterei l'attesa. Vi ringrazio di avermi ascoltato.

R. Buttiglione:

Ringraziamo cordialmente Giacomo Contri per l'approfondimento che ha portato al nostro tema, per l’esperienza che ci ha comunicato, per le stimolanti osservazioni che ha fatto e ascoltiamo adesso André Frossard.

A. Frossard:

Tra un artista ed uno psichiatra mi sento molto protetto: da un lato dalla bellezza, dall'altro dalla ragione. Ho un certo gusto per l'Apocalisse, perché si possono leggere cose di questo tipo: "A colui", dice Dio, "che terrà la mia legge fino in fondo, darò la stella del mattino. A colui che terrà il mio nome, allora scriverò su una pietra bianca il suo e saremo gli unici due a conoscere". L'Apocalisse tutto sommato è un libro pieno di tenerezza, contrariamente alla reputazione che gli è stata fatta dal giornali e soprattutto da quelli della mattina, perché la stampa della mattina annuncia l'Apocalisse per la settimana che viene, però questo non le impedisce di proporvi abbonamenti per un anno allo stesso periodico. Il mio egregio vicino ha posto la domanda, ovviamente importante, e cioè se Dio sia interessante. Allora io ho un'altra domanda da fare: Dio è interessato? Per due volte ho avuto nella mia vita a che fare con la psichiatria. Quando mi sono convertito, mio padre, che era un ateo deciso, che era stato primo segretario generale del partito comunista francese, pensò che i preti avessero montato un'operazione politica, a scapito suo, cercando di approfittare della mia debilità mentale. Poi quando si accorse che ero sincero, allora prese paura e disse: "E’ pazzo", perché a quell'epoca non si poteva credere in Dio ed essere sani di mente. Allora ha fatto venire lo psichiatra, uno psichiatra del partito, che dopo avermi esaminato discretamente per un mese, ha reso la sua diagnosi. Ho saputo tutto ciò da mia madre. Disse lo psichiatra a mio padre: "E’ la Grazia". Non sapeva cosa fosse la Grazia, però ne parlava come di una malattia la cui origine era ancora sconosciuta, ma le cui manifestazioni sono ben conosciute. Allora, mio padre che era un ottimo padre, gli disse: "E’ grave"?, lo psichiatra del partito rispose: "No, la fede non può attaccare la ragione. Ovviamente forse dovremo separarcene, ma si può sempre credere in Dio e non essere matti". Allora mio padre disse: "C’è qualcosa da fare"? E il medico rispose "No, non vale la pena; si guarisce in due anni". Insomma la Grazia era una di quelle malattie che guariscono da sé e che sono il trionfo della medicina. La seconda volta che ho avuto a che fare con la psichiatria, è per aver ricevuto la visita di un'ottima persona, psichiatra, che mi spiegò che i fenomeni mistici, come il fenomeno di cui ero stato vittima, interessavano lui e qualche collega. Voleva farmi un certo numero di domande per sapere se entravo in una delle previste categorie, cioè paranoia, isteria, nevrosi ossessiva oppure allucinazione pura e semplice. Abbiamo parlato tranquillamente per due ore; alla fine mi disse: "No, no; dovremmo trovare un'altra categoria per poterla classificare. Nell'attesa di questa nuova categoria, sono pronto a darle un certificato del suo pieno equilibrio mentale, se la cosa può esserle utile". Lasciandomi, l'ho accompagnato fino alla porta, e all'ingresso mi disse: "Sono stato contento di quest'incontro, vorrei poterlo rinnovare, perché io ho dei problemi". Il fondo del suo problema era che credeva in Dio, ma esitava e non voleva dirlo ai suoi colleghi. Credo che ormai se ne sia fatta una ragione. La domanda delle domande, tutto sommato è che cosa sia l'uomo. Ho sentito un giorno alla televisione, un eccelso professore dell'università di Ginevra, astronomo, che spiegava da dove veniva l’essere umano. Tutto ciò cominciò, diceva, con una nube, una grande nube di gas che si è contratta dapprima e poi si sono prodotte un certo numero di trasformazioni, si sono create cellule, le une si sono legate con le altre per affinità, per simpatia, per caso, e poi pian pianino, sempre secondo questo eccelso professore, queste particelle elementari, a forza di ostinazione e qualche miliardo di anni, erano riuscite a comporre un professore dell'università di Ginevra, con dei baffi e con gli occhiali. Da quando l'ho sentito, guardo sempre la mia automobile, però con un altro occhio e cominciò a chiedermi, come un vapore, una nube di petrolio originaria, abbia potuto condensarsi a poco a poco, in cilindri, in pistoni fino a comporre un'Alfetta due litri. Naturalmente lascio questo problema alla vostra sagacia. In realtà da dove viene l'uomo? E' questa una domanda interessante. Apparentemente viene dal nulla, apparentemente è venuto per caso, per certuni, per altri è stato creato da un limo originario. L'importante è di sapere che non è compiuto, che non è finito ché c'è qualcosa in lui, che c'è in lui un certo desiderio, un appetito di qualche cosa d'altro, che è semplicemente un atteggiamento verso il divino: e ciò si chiama lo Spirito. E lo Spirito che non ci lascia mai in pace, che esige, che pretende. La funzione precipua dello Spirito è di negare tutto ciò che non è Dio e di affermare Dio stesso. Questa origine praticamente divina dell'essere umano, ovviamente, nel corso degli anni e con il peccato, ci ha tuffati, ci ha immersi nello stato in cui viviamo oggi e che vorrei definire con qualche parola: il cristiano è un essere posto tra le realtà della fede, realtà invisibili che a volte a paiono illusione, e l'illusione del mondo che appare come realtà. E tutta la sua saggezza, la sua fede, la sua missione e di far passare le verità invisibili della fede, nell'illusione del mondo, affinché questo mondo, raggiunga il tasso, il livello di realtà che Dio vuole che abbia. E questo compito che ci è stato affidato, è questo il compito del prete quando dice la messa e che per il tramite del vino consacrato, opera nel mondo una specie di trasfusione del sangue. Quello con cui abbiamo che fare è la carità, cioè l'amore. Qual è il massimo dell'amore? È l'amore della compassione, quella sofferenza spirituale che fa sì che abbiamo compassione per le pene altrui. Il fatto che ci incliniamo davanti alla debolezza e che soffriamo anche noi davanti alla malattia dell'altro. Perché c'è una convivenza profonda, decisiva, tra la sofferenza e l'amore, cioè tra la sofferenza e la gioia perché siamo anche chiamati a realizzare le beatitudini e tra l'altro, quella che dice: "Felici coloro che piangono"? Perché piangono? Perché hanno amato. È la sofferenza, la testimonianza della loro sofferenza, che apporta loro la prova dell'amore. Questa certezza di aver amato sarà l'unica cosa che porteremo con noi davanti a Dio.

R. Buttiglione:

I vostri applausi hanno espresso il nostro ringraziamento in un modo più eloquente delle mie parole. Procediamo adesso il nostro incontro con alcune domande. Siamo troppi perché ciascuno abbia la possibilità di rivolgere la sua domanda ai relatori. In qualche misura, mi sento autorizzato ad agire un po' come interprete di tutti voi, rivolgendo alcune domande, a ciascuno degli intervenuti e pregandoli di rispondere con la loro abituale ed ammirevole decisione, precisione e concisione. Prima di tutto, a Tarkovskij: a me ha colpito molto l'affermazione che già da molto tempo l'uomo ha perduto la domanda, e, tuttavia, signor Tarkovskij, la sua esigenza, la sua opera artistica, la nostra esistenza, questo Meeting, la passione, l'entusiasmo, l'intelligenza di questi migliaia di giovani e di altri, molti di più, che non sono con noi, ma che sentiamo vicini al nostro cuore, uniti a noi in ogni parte del mondo tutto questo non mostra che la domanda ancora non è cancellata? Se la domanda non è cancellata, nonostante l'uomo e la nostra civilizzazione tentino di cancellarla, forse non dipende dal fatto che l'uomo non può eliminarla? Come accade che l'uomo, dopo aver perduto la domanda, la ritrovi in se stesso? Forse che questa domanda non si può perdere, come non si può perdere una parte essenziale del proprio corpo? Sinora non è un'appendice che si può amputare sia pure crudelmente, continuando tuttavia a vivere, ma forse è il cuore sesso, i cui palpiti coincidono con la vita? Se l'uomo, pur decidendo di estirpare da se stesso quella domanda, non riesce a farlo, questo non vuol forse dire che la domanda non gli appartiene, ma che forse è lui ad appartenere al mistero di quella domanda?

A. Tarkovskij:

Se dovessi basarmi soltanto sul mio atteggiamento verso questo problema o il vostro di oggi o dei miei colleghi, qui, potrei dire che bisognerebbe rinunciare a porre il problema così com'è stato posto. Quando io comincio a pormi queste famose, maledette domande sulla vita, vorrei che ci fosse sempre più gente attorno a me, che le condivide. È questo tutto il problema: quanta gente c’è che le condivide? Questa stessa discussione dimostra che il problema esiste e naturalmente quando uno vede tanta gente che si pone questa domanda ed è inquieta per questo interrogativo, non può più ritenere che il non rispondere a questa domanda sia una situazione soddisfacente per l'uomo. E forse nel porre questi problemi, nel discuterne, c’è forse un errore fondamentale, cioè quello di mettersi in piazza, di mettere in piazza se stessi. Noi potremmo, in parole povere accontentarci dei risultati di questa assemblea di oggi, ma questo non sarebbe giusto. C'è una formula molto famosa: "Tutti insieme a favore, e ciascuno da solo contro". L'unica cosa che posso fare di fronte al problema che qui si pone, che è così personale, interiore a ciascuno, è quello di sforzarmi di spiegare la mia posizione, perché qualcuno possa cercare di capirla. Io non sono qui ad insegnare niente a nessuno. Perché con questi problemi che io sento profondamente, mi mostro a voi nella solitudine. Questo non vuol dire che ci porterà ad ottenere dei risultati. La cosa più difficile da fare in questo mondo è quella di prendere una decisione, e poi di comportarsi in conseguenza senza dare spettacolo, senza che nessuno se ne accorga. E quindi quello che volevo fare oggi, parlando a voi, non era niente altro, non volevo dimostrarvi niente altro che questo: che tutte le più grandi cose che può fare l'uomo, nascono nel silenzio, nella solitudine interiore.

R. Buttiglione:

Ringraziamo ancora una volta Tarkovskij, e non solo per le cose che ci ha detto, ma per il modo in cui ha presentato la sua persona nel dialogo con noi, offrendoci una risposta che coincide con la sua vita, più grande ancora delle cose grandi che ci ha detto. E veniamo al secondo protagonista del nostro incontro: a Giacomo Contri. Ci sono due cose che vorrei chiedergli; la prima: lui ha parlato del linguaggio; l'uomo è immerso nel linguaggio, è una specie di battesimo, come il bambino che viene messo dentro l’acqua. A me veniva in mente, (e non so se è un'osservazione troppo banale troppo da profano) che quando noi siamo immersi nell'acqua, quando noi impariamo a nuotare o quando battezziamo un bambino, abbiamo sempre la cura di tenere qualche cosa di essenziale fuori dall'acqua: le narici e la bocca, perché si possa respirare. L'uomo è immerso nell'acqua come nel linguaggio; vale questa analogia anche per il linguaggio? C'è qualche cosa che non deve essere immerso, proprio perché la immersione possa risultare non letale all'uomo? E la seconda domanda si lega all'intervento di Frossard. Frossard è stato sottoposto a due diverse diagnosi nella sua vita; mi permetterei di chiederne una terza a Giacomo Contri. Contri ha concluso: "Un gradino sopra la parola Domanda, sta la parola Attesa". La domanda sembra già disporre, almeno segretamente, alla risposta, l'attesa no. Che giudizio possiamo dare su chi, non per suo merito, ma perché gli è accaduto, ha incontrato una risposta? Esiste qualche motivo per non ascoltarlo, oppure è questo un interrogativo che ci porta al fondo della questione, non per sforzo del nostro intelletto che mantiene pur a l'attesa, ma per l'iniziativa di Colui che è atteso, che entra dentro di noi?

G. Contri:

Prima di rispondere premetto qualcosa. Non è vero che la fede è difficile. C'è una letteratura, a mio giudizio, un po' spiritualistica, perché tratta uno spiritualismo psicologizzante, che afferma che la fede sarebbe difficile. Non è vero: io darei questa interpretazione: la fede è facile, ma non è semplice. Afferrare la distinzione tra facile e semplice, è afferrare molto, ve lo assicuro. Prima domanda di Rocco Buttiglione: se c'è qualche cosa di non immerso: no, per la semplice ragione che questo ingresso, bagno, non è una nuotata nel linguaggio, è un'immersione, non è un battesimo. È una domanda acuta quella di Rocco, pensare se sia o no un battesimo; io dico che non è un battesimo. È un progresso e questo permette di chiedersi molte cose su cosa è il progresso, progresso alquanto equivoco, e che non impedisce che questo bagno si faccia. Attenzione: non stiamo facendo un seminario sul linguaggio, ma voglio dire, si è tutti nel linguaggio come si è tutti fatti di cellule. Non vedo bene perché questo costituirebbe una eccessiva difficoltà anche teoretica; è un tipo di problema che sinceramente non mi fa tremare, non mi toglie il sonno, non mi procura difficoltà. Si nuota dove si può. Per ultimo: sull'attesa. Credo che un certo numero di presenti si ricorderà di un tale abbastanza noto – non vi dico il suo nome ma molti lo riconosceranno – il quale raccontò una specie di apologo. Era un prete; e raccontava che lui era in stazione ad aspettare il treno e vede un tale, "tipo emigrante" che aveva un grosso pacco, di quelli con la corda, e che stava appoggiato a questo pacco e aspettava il treno anche lui. Allora questo tale che raccontava la storia diceva: "In un primo tempo sono stato colpito nel vedere questo qui che aspettava il treno, ma non capivo che cosa di lui mi colpisse. Ad un certo punto invece ho capito, che cosa era quello che mi colpiva. Mi colpiva quello che cava facendo: aspettava". Aspettare non è affatto stare lì così, si aspetta nel posto giusto, e non si aspetta il treno nel posto sbagliato. Aspettare nel posto giusto vuole dire che si sa già che sta per arrivare il treno. Ed è per questo che l'Attesa è un gradino sopra il livello umano della domanda.

R. Buttiglione:

Ringraziamo di nuovo Giacomo Contri la cui sottigliezza qualche volta lascia feriti, ma apre sempre il varco ad una meditazione profonda di cui gli siamo grati. Torniamo al nostro amico Frossard. Lei è autore di un libro che moltissimi di noi hanno letto in questi giorni: "Non abbiate paura"; un dialogo con Giovanni Paolo II. È la prima volta che qualche cosa di simile accade ed è un libro la cui lettura è realmente un incontro, capace di sconvolgere coloro che lo fanno. La mia domanda è: in che modo è possibile oggi, non avere paura? Ogni giorno infatti può portare la fine materiale della vita sulla terra. L'esistenza spirituale dell'umanità, come dolentemente ha sottolineato Tarkovskij, sembra già essersi estinta: come si può ancora non avere paura? Può rispondere a questa domanda ridicendoci l'esperienza spirituale di quel libro?

A. Frossard:

Quando mi si domanda di Giovanni Paolo II, si prende un po' il rischio di lasciarmi parlare per due o tre ore. È un tema sul quale sono inesauribile, però saprò limitarmi. Non v'è oggi al mondo uomo per il quale abbia più ammirazione, condivido perfettamente il punto di vista di Solzenicyn, che non è cattolico, quando dice: "Questo Papa è un dono di Dio". È questa un'evidenza nella specie di notte che siamo chiamati ad attraversare; c'è soltanto una luce: è quella che Egli porta. C'è soltanto una parola di verità; è quella che pronuncia. E torno, allora alla prima domanda, quella sull'attesa. L'attesa che sarebbe stata la mia, prima della mia conversione. Questa domanda, in fondo, significa porre un’altra domanda, perché chi aspetta, aspetta qualcuno o qualcosa; chi è atteso se non colui che chiamiamo Dio? In altri termini, cos'è Dio? Ebbene, Dio è colui che fa sì che ci poniamo questa domanda, perché certamente è il primo a porre le domande dell'universo e la domanda che pone è eccessivamente semplice e la ripete sempre, è sempre la stessa domanda, è quella che pone a Pietro alla fine del Vangelo. "Pietro mi ami?". Ebbene, Giovanni Paolo II ci dice che la fede è la risposta personale che apportiamo, che diamo a questa domanda. Per quanto riguarda l'attesa, tutti aspettiamo; a volte in stazione dove non passa più nessun treno. Per conto mio credo di aspettare: so dove vado.

R. Buttiglione:

Ringraziamo ancora una volta tutti gli intervenuti: Tarkovskij, Contri, Frossard; ringraziamo tutti quelli che, di noi, hanno partecipato, perché un incontro è fatto da tutti, anche da chi non parla, ma offre il suo ascolto e ricapitoliamone brevemente il risultato iscrivendolo nella prospettiva del nostro Meeting. Siamo partiti dall'origine dell'uomo per trovare una domanda più grande non solo sull'origine, ma sul significato della vita dell'uomo. Ci siamo interrogati sulla possibilità di perdere questa domanda e abbiamo scoperto che essa fa parte dell'uomo, e infine con le ultime battute arriviamo a qualcosa che ci lancia verso la continuazione del Meeting. Se l'uomo è abitato da una domanda, se l'uomo attende, è perché in qualche modo egli sa ciò che attende; ciò che attende già gli si è annunciato; se c’è un'attesa, l'attesa si rivolge ad una promessa e il tema dell'attesa trapassa ancora in quello della promessa, nella quale, l'uomo vive la vita come tensione all'Altro, che fin dal principio gli ha parlato ponendolo nel mondo e che ancora vuole tornare a parlargli. Grazie.