Il giornale non è sogno? Dibattito sulla carta stampata
In collaborazione con Club Santa Chiara
Lunedì 24, ore 18.30
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Relatore:
Mauro Tedeschini, Direttore Fascicolo Nazionale de "Il Resto del Carlino", "Il Giorno", "La Nazione"
Tedeschini: L’esperienza che attualmente dirigo è un’esperienza nuova per l’Italia: si tratta di un giornale - secondo un’espressione tedesca - "col mantello", ovvero un giornale che ha un elemento comune e che si articola in tante edizioni sul territorio. È un esperienza nuova per l’Italia: in molti altri paesi del mondo invece questo tipo di giornali esiste già da molto tempo, in particolare negli Stati Uniti, ai quali noi ci siamo ampiamente ispirati. Con questo giornale abbiamo l’ambizione di dare voce a quella che chiamiamo l’altra Italia, l’Italia che non è Roma, l’Italia che non è l’Italia del palazzo ma è l’Italia delle regioni che producono, che si danno da fare, e che tra l’altro rispetto ad altre zone d’Italia - il nostro giornale è radicato in particolare nel territorio emiliano, romagnolo e toscano - come il Nord-est producono senza protestare. Crediamo che questo pezzo fondamentale d’Italia avesse diritto di avere una voce che fosse all’altezza dei grandi giornali, e quindi abbiamo varato questa sorta di esperimento. Ormai non è più solo un esperimento, perché già da un anno stiamo uscendo con risultati felici, nella convinzione che quella che una volta poteva essere l’Italia di provincia, chiusa in se stessa, in realtà adesso è una Italia pienamente integrata in Europa e nel mondo. Il nostro giornale ha per questo una doppia anima, che nasce dall’esigenza di andare incontro ad un pubblico a cui non basti soltanto avere un’informazione su quello che succede a Roma o in Russia, ma anche a Rimini piuttosto che a Sondrio: questo perché crediamo che la partecipazione e la conoscenza di quello che avviene nella comunità in cui ciascuno vive sia importante.
Nella fusione delle tre redazioni siamo riusciti a superare alcuni ovvi problemi: al di là di un numero estremamente limitato di colleghi che hanno scelto la via del prepensionamento, fin dall’inizio quando si è scelto di fare questo modello di giornale, in cui la fusione di tre redazioni in una comportava un possibile esubero, si è deciso che i colleghi che non fossero compresi nella redazione nazionale unica sarebbero andati ad arricchire le cronache locali, le cronache delle città. Quindi abbiamo ridistribuito i colleghi che erano in esubero nelle cronache locali, forti di due convinzioni: in primo luogo che i giornali di oggi abbiano il grande limite di essere largamente impostati con materiale che viene fornito dalle agenzia di stampa o dalla televisione e in secondo luogo che sia troppo basso il tasso percentuale di colleghi che stanno in giro per le strade a fare quello che dovrebbe essere il lavoro caratteristico di un giornalista, parlare con la gente e vedere delle persone. Se c’è un grave difetto che un poco tutti imputano alla stampa italiana in questi anni, è di essere largamente omologata: in gran parte tutti i giornali ormai sono simili l’uno all’altro. Il tentativo che noi stiamo facendo - è un tentativo, perché non è facile invertire questa tendenza - è di avere più giornalisti che raccontino quello che sta succedendo in questo paese, che non è quanto avviene in Parlamento a Roma. La politica è sicuramente importante, essendo un luogo di confronto fondamentale: tuttavia, riteniamo che questo paese non si possa raccontare partendo dal palazzo, anzi la nostra ambizione è proprio di capovolgere questa impostazione.
Fortunatamente, non siamo il leader assoluto nelle zone in cui pure abbiamo una grande diffusione; abbiamo una concorrenza molto agguerrita, perché già da una decina d’anni sono nati in tutti i centri cittadini delle "Gazzette", come ad esempio "Il Corriere di Rimini". Per questo, l’esigenza di dare spazio a tutte le voci nasce anche da una prospettiva di tipo commerciale: si rischierebbe di perdere lettori se ci si ponesse in modo arbitrario in una posizione di monopolio e si escludessero fuori delle fette intere di popolazione, associazioni piuttosto che partiti politici. Da questo punto di vista ci siamo avvicinati molto al modello americano, in cui l’esigenza di accontentare tutti e di dare spazio a tutte le voci che ci sono nella società è posta, ancora prima che da un problema etico, dall’esigenza di trovare lettori.
Il problema del nostro giornale è - e credo di tutta la stampa italiana - è che nell’ultimo ventennio nei giornali italiani è aumentato in modo esponenziale il numero delle pagine ma non è aumentato in proporzione il numero dei giornalisti. Ad esempio, dalle vecchie statistiche risultava che "Il Resto del Carlino" nell’agosto di quindici anni fa usciva con un fascicolo di dodici pagine, mentre noi adesso usciamo con 46 o 48 pagine. Ovviamente le nuove tecnologie consentono di lavorare molto più velocemente e quindi di confezionare molto più rapidamente le pagine, però il prodotto, se il rapporto tra il giornalista e la pagina è così sbilanciato, rispetto a un tempo è sicuramente meno accurato. Infatti in tutti i giornali sono aumentati gli svarioni, e mentre una volta tutto veniva pesato con un metodo critico estremamente severo, adesso si tende a mettere in pagina tutto quello che arriva, sperando che il lettore perdoni e soprattutto sapendo di dover lavorare in fretta, di essere un quotidiano e di non essere destinati a passare alla storia.
Uno dei punti più caldi del dibattito all’interno della nostra professione è l’approccio sempre più commerciale che i giornali hanno assunto in questi anni. Facciamo un mestiere che può essere paragonato, con le dovute cautele, a quello dei medici: il loro è ovviamente molto più importante, però in questi anni si sta dibattendo molto anche negli ospedali sulla necessità di introdurre sempre più margini di efficienza e di risparmio; ma in ogni caso quando uno ha a che fare con la salute umana deve ritrovare un punto di equilibrio al di là del quale non si può andare. Ovviamente il grande problema è individuare quel punto, anche perché non sempre i medici sono in buona fede e talora accampano esigenze economiche che non sarebbero giustificate da reali necessità terapeutiche. Lo stesso avviene per noi: pur essendo aziende commerciali che hanno degli editori che si propongono di trarre dei profitti, maneggiamo delle vicende che in qualche modo vanno ad influire sull’opinione pubblica. È fin troppo banale dire che è merce da trattare con estrema cura. Un esempio recente chiarirà quanto intendo dire: il 23 settembre cadono i trent’anni della morte di padre Pio. Padre Pio è un tema importantissimo, e così ci siamo interrogati sul da farsi; abbiamo visto che ci sono giornali che vivono sul business di padre Pio e non su un reale dibattito su questa figura, vivono dunque sull’aspetto commerciale, che ha preso largamente il sopravvento rispetto a quella che dovrebbe essere un’informazione serena su una data importante soprattutto per le centinaia e migliaia di persone che in questo paese hanno fatto della fede di padre Pio un aspetto importante della loro vita.
La necessità di fare continuamente audience in televisione e di vendere sempre più copie nella carta stampata, negli ultimi mesi ha stravolto certi meccanismi: è come se l’aspetto qualitativo spesso diventasse problematico. Fortunatamente quello che si è dimostrato è che chi fa un giornale spregiudicato poco attento a quello che è la correttezza generale del suo prodotto ha dei buoni risultati sul breve ma poi sconta nel medio e lungo periodo una caduta d’attenzione. Certi temi estremamente deteriori o comunque di facile attenzione per un pubblico meno avvertito, hanno un forte successo nell’immediato ma non riescono a creare una reale affezione nel prodotto. Chi legge abitualmente i quotidiani in Italia e non è legato a fatti di grande effetto, è un lettore avvertito che vuole un’informazione generale e che non giudica il quotidiano soltanto dal tipo di scandalo riportato.
Il giornale deve essere lo specchio della realtà in cui agisce: se viviamo in un certo tipo di società, dobbiamo far sì che il suo specchio non sia deformato. In realtà lo specchio è deformato perché noi tendiamo a dare grandissima enfasi agli accadimenti negativi, tendiamo invece a raccontare poco tutto quanto di buono avviene in questa società. Ad esempio, noi agiamo in una realtà in cui c’è una fortissima presenza del volontariato, cattolico e laico, ma ne parliamo poco colpevolmente, perché le cattive notizie si sanno subito e persino un giornalista pigro tramite una semplice telefonata alla polizia riesce a raccoglierle. Andare invece a scoprire un mondo di volontari richiede consumare le suole delle scarpe; spesso non è facile perché chi fa del bene non ama che se ne parli, perché è già appagato dal tipo di lavoro che fa nella società civile. Sicuramente noi abbiamo delle colpe, e sicuramente il giornale è un pugno nello stomaco, contiene troppa violenza, troppi fatti negativi; d’altro canto non si può neppure scegliere di tacere quello che accade e assordarsi con i programmi serali della televisione. C’è piuttosto la necessità di equilibrare: purtroppo nei giornali si continua a pensare che facciano notizia i fatti cattivi, i brutti accadimenti. Provare le storie positive nei giornali non è facile perché non c’è un percorso automatico come quello delle notizie negative.
Per quanto nello specifico riguarda la linea dei nostri giornali, è importante distinguere tra le cronache locali e quella che è invece la parte nazionale del giornale. Nelle cronache locali noi siamo il giornale leader sia in Emilia Romagna che nelle Marche, e quindi teniamo conto costantemente del fatto che i lettori hanno esigenze completamente diverse in una città come Ascoli da una città come Parma o Reggio Emilia. Invece per quanto attiene al giornale nazionale abbiamo un programma estremamente chiaro: ci siamo resi conto fin dall’inizio che se avessimo tenuto tre giornali staccati non avremmo avuto la possibilità di fare veramente concorrenza ai grandi giornali nazionali. Avremmo infatti dovuto spezzettare le risorse tra tre giornali, e questo significava che se Clinton va in Russia ciascuno dei tre giornali da solo non poteva mandare degli inviati speciali a seguirlo. Penso che questo non abbia significato un’omologazione per i tre giornali ma un arricchimento, perché i nostri collaboratori, le nostre intelligenze vengono offerta non solo al loro giornale ma anche agli altri due, mentre prima questo non accadeva.
Concludo accennando a quello che è il ruolo pedagogico di un giornale: bisogna dividere tra i giornali che si pongono un certo tipo di scopo, perché sono dei giornali di partito o di movimento, giornali estremamente rispettabili che devono raggiungere un certo pubblico evidentemente interessato a quei temi, e i giornali di informazione o cosiddetti generalistici. Il nostro rientra in quest’ultimo gruppo: questi giornali devono essere pedagogici, devono offrire una serie di segnali e di strumenti dai quali il lettore possa attingere, senza però prefiggersi uno scopo iniziale, altrimenti si cadrebbe nell’errore di portare il lettore dove sta pensando il giornale. Quindi credo che nel caso di un giornale come il nostro sarebbe estremamente importante cercare di buttare una serie di ami che coprano il più vasto numero di argomenti possibili, cercando anche di dare molte campane in modo che la gente si possa in qualche modo confrontare e possa crescere.