1981-1991: dieci anni di compagnia in Uganda
Martedì 27, ore 15
Incontro con:
Rose Busingye
Filippo Ciantia
Pietro Tiboni
Saluto di:
Sua Ecc. Mons. Attilio Nicora
Mons. Attilio Nicora è presidente della Caritas Italiana e della Commissione Episcopale per il servizio della carità.
Nicora: Io recupero con questa breve presenza una forzata assenza di questa mattina che mi avrebbe dovuto vedere presente a una tavola rotonda sui beni culturali ecclesiastici alla quale non ho potuto partecipare per incidenti di viaggio.
Accolgo volentieri l’invito che mi è stato fatto ad aprire questo incontro con una semplicissima parola, una parola di saluto innanzitutto che volentieri vi esprimo sia nella mia qualità di Vescovo, uno dei molti Vescovi italiani, sia nella mia funzione di Presidente della Caritas Italiana perché mi pare che il tema che oggi qui si svilupperà ha delle profonde sintonie con questa tematica: valore cristiano della carità vissuta.
Che cosa dire? Io non voglio anticipare nulla di ciò che seguirà, anche perché sono sicuro che tutto ciò che seguirà avrà la densità, il valore e il sapore della esperienza vissuta. Vorrei dire soltanto che mi pare che sia certamente da mettere al centro di una attenzione comune questo "fare il cristianesimo", soprattutto nella linea di una carità che non ha confini e si apre senza misura e ha per orizzonte il mondo intero. Mi pare che il dinamismo caratteristico di ogni esperienza cristiana lo si possa proprio scandire secondo questi verbi: andare senza aspettare che gli altri vengano ma muoversi per primi, andare per condividere la condizione degli altri accettando di far propria la situazione che si incontra come se da sempre fosse stata data a noi, e poi cercare di tradurre in termini di promozione il dono che si vuole portare, non dimenticando però che in una visione cristiana la promozione non è mai soltanto il gesto di soccorso sia pur mirato a rendere le persone capaci poi a muoversi da sole, ma, innanzitutto l’annuncio della verità cristiana che, rivelando l’autentica verità dei figli di Dio, le rende veramente capaci di vivere da protagonisti la storia del mondo. Allora ritorna proprio in sintonia col tema di questo incontro la grande espressione dell’apostolo Paolo: "Fare la verità nella carità". Credo che sia una delle sintesi più alte di autentica esperienza cristiana.
Rose Busingye è nata nel 1968 a Nsambya in Uganda. Ha frequentato le scuole a Kampala. Qui, nel 1981, ha conosciuto il Movimento di CCL, attraverso l’incontro con Padre Tiboni.
Il dolore e la sofferenza vissuti durante la guerra hanno suscitato in lei il desiderio di diventare infermiera; ha perciò frequentato la scuola professionale all’Ospedale Nsambya, dove ha iniziato a curare, tra gli altri, i malati di A.I.D.S. Dal giugno si trova in Italia per vivere l’esperienza "Memores Domini". Lavora all’Ospedale di Circolo di Varese, usufruendo di una borsa di studio.
Busingye: Oggi ho una grande gioia nell’essere con voi. Vi considero una famiglia. Siamo insieme non per presentare dei grandi e forti eroi, ma piuttosto dei bambini, dei bambini che pongono il loro destino nelle mani della loro madre.
Ho incontrato il Movimento di CL 8 anni fa, nel momento in cui l’intera nazione era completamente immersa nel terrore, in un profondo odio e in divisioni tragiche. Molti si erano affidati alle pratiche magiche, avevano abbandonato il vero credo e avevano posto le loro speranze negli uomini al potere, nei partiti politici che invece si erano uniti per rubare e per commettere altri mali: nessuno di loro ha portato un cambiamento positivo per la nazione.
La prima proposta del Movimento l’ho avuta attraverso Padre Tiboni. Fui veramente colpita da una sua frase: "La Chiesa deve essere un movimento; molte persone rischiano la loro vita nei vari partiti oppure difendendo le loro case, ma nessuno fa tutto questo nel nome e per Cristo e per la salvezza della nazione". Si risvegliò in me il desiderio di fare in modo che tutti capissero questo e un profondo affetto verso tutti per far compredere che Cristo è il centro del nostro incontro. Cominciai a vivere questa situazione in un modo totalmente nuovo, con uno sguardo nuovo, e potei finalmente comunicare la mia esperienza, quello che io vivevo, agli altri.
La seconda cosa determinante per me fu la scoperta della preghiera. Quando padre Tiboni presentò la preghiera, capii che era la risposta che aspettavo da sempre per tutti i miei desideri, ed in particolare di fronte alla sfida di questa situazione tragica, di fronte alla sfida della impossibilità, l’impossibilità di fronte a cui trovavamo come soluzione soltanto l’atteggiamento del potere.
Era necessario invece andare avanti con una trasformazione, perché quello che è impossibile all’uomo è invece possibile a Dio. Molto spesso noi siamo tentati di fare molte cose secondo i nostri progetti personali o sulla base della nostra capacità e forza, ma attraverso la preghiera io ho imparato a chiedere sempre a Cristo di entrare, di essere presente in ogni aspetto della mia vita. La Sua presenza è il miracolo della nostra unità, il miracolo dell’unità di Cristo tra tutti noi e quello che fa sì che tutto possa compiersi secondo la Sua volontà. Mi dispiace che molte persone ancora oggi utilizzino la preghiera soprattutto come un mezzo per ottenere la realizzazione dei loro propri progetti, cioè dei miracoli e delle visioni inutili, poiché da questo nascono le sette, le divisioni. Pregare, pregare profondamente e sinceramente significa pregare con Cristo presente in me e presente nella comunità. Ciò che noi chiediamo è che Cristo sia presente sempre di più in ogni istante poiché senza Cristo non siamo in grado di fare nessuna cosa. Poco per volta impariamo e cominciamo a vivere insieme e così la vita lentamente anche per noi diviene bella e piena di creatività poiché abbiamo imparato a vivere insieme e a sapere come appartenere gli uni agli altri. Oggi provo una grande gioia, la gioia che mi dà il fatto di vedere i vostri volti. È per questo che io posso dire una volta di più: "Vieni Signore Gesù perché da sola non potrò mai fare niente!".
Come ho imparato da Padre Tiboni, cominciare senza chiedere è come cominciare a giocare una partita con una gamba rotta. Non possiamo separare un membro dall’intero corpo; noi siamo il corpo di Cristo. Quello che io posso dirvi e posso raccontarvi è il fatto che ci è stato dato un enorme dono, un dono che molti non sono in grado di notare, di vedere. Il fatto stesso che è entrato nella nostra storia fin dal suo inizio e il semplice fatto che ha deciso di vivere insieme a noi, fra di noi, questo è stato quello che ha dato origine alla nostra speranza, alla nostra ragione, alla nostra natura. E proprio per il fatto che Egli è venuto fra di noi e si è reso simile a noi che siamo in grado di spiegare la ragione del nostro essere insieme, possiamo cantare, possiamo saltare proprio perché con questa gioia noi facciamo capire e capiamo che apparteniamo a qualcosa di più grande. È stato attraverso questo che ho incominciato a vedere e in modo particolare ho cominciato a capire meglio quello che avevo ricevuto. E ho cominciato a scoprire le mie realtà interiori, che i miei desideri ogni giorno aumentavano. A volte avevo addirittura paura, non sapevo dove i miei desideri, le mie aspirazioni avrebber trovato il loro compimento. Ma la compagnia, il fatto di lavorare insieme mi ha risvegliato qualcosa di diverso. Mi ha portato a capire che tutto poteva essere conquistato attraverso la libertà, quella libertà che ci proviene dall’incontro, quella libertà che rinasce ogni giorno e che ogni giorno non può fare altro che aumentare. Ho scoperto che senza la compagnia le mie speranze, le mie aspirazioni avrebbero potuto diventare solo un sogno, solo una illusione perché mi sarebbe mancato questo punto di riferimento, questa comunità che il Signore mi concede ogni giorno, e l’intero mondo di valori creati senza la sua presenza sarebbe rimasto sospeso nel nulla. Vivere, studiare, continuare a lavorare per me senza la presenza di Cristo sarebbero stati una inutile perdita di tempo. Senza la compagnia la vita avrebbe perso qualunque significato, la verità su me stessa sarebbe stata qualcosa che molto rapidamente sarebbe scomparsa, persa nella oscurità. Questo per me è stato il primo luogo concreto. Nella fatica di ogni giorno ho imparato ad obbedire, a seguire, ad appartenere a questa compagnia.
Attraverso tutto questo ho scoperto chiaramente che l’amore che mi dava la comunità non era dato perché io ero bella, intelligente ma proprio perché vi era la presenza di Cristo che è in me come negli altri. Così ho trovato la ragione e il perché è giusto amare, preoccuparsi e condividere la vita con gli altri. Ho cominciato a guardare le persone, a vederle come parte di me stessa, con la stessa origine e lo stesso destino. Così il mio interessamento, il mio amore per gli altri non ha fatto altro che aumentare sempre di più. Ad esempio quest’anno ho incontrato pazienti con l’AIDS. In particolare me ne è stato portato uno che non aveva neanche una casa ed era obbligato a dormire sotto i ponti. Era una persona di 36 anni ma sembrava ne avesse 100. Per vent’anni aveva preso delle droghe tremende; nell’inverno doveva assolutamente cercare di ripararsi, ma non aveva niente con cui coprirsi. Per questo si è ammalato di tubercolosi e i medici avevano abbandonato qualunque speranza. Era sporco e puzzava. Io stessa ero terrorizzata quando l’ho visto, ma mi sono ricordata improvvisamente che quest’uomo, sporco e ammalato come era, era la presenza, il segno di qualcosa di più grande. Il destino non cambia e questa persona non è diversa per il semplice fatto che puzza o che è ammalato di AIDS. Per questo sono corsa verso di lui e insieme con altre infermiere che lavorano con me l’ho preso. Una mi ha detto che sarebbe andata a prendere dei guanti, ma non è tornata; un’altra mi ha detto che avrebbe portato delle maschere per protezione, ma neanche questa è ritornata; un’altra ancora si è allontanata dicendo che avrebbe portato una carrozzella... Sono rimasta sola con il malato; nel guardarlo ho ricordato la dura esperienza di Maria e Giovanni ai piedi della Croce, il grande avvenimento del Figlio di Dio calato in una situazione di totale umiltà, povertà e miseria. Un altro paziente mi ha visto in difficoltà e ha cercato di trovarmi una carrozzella. Così ho portato il malato in una stanza da bagno e ho cominciato a lavarlo. Ho cercato di mettergli i piedi in acqua tiepida, di tagliargli le unghie, i capelli, la barba. Ho cercato di fargli indossare dei nuovi abiti che mi erano stati offerti da un amico. Poi l’ho messo in un letto e gli ho dato qualcosa da mangiare. Mentre mangiava mi ha chiesto: "Ma sei una suora?" Io gli ho risposto: "Ma perché?" "Perché non sei normale! Fai delle cose che gli altri non fanno. Adesso io mi sento in pace come se avessi ritrovato di nuovo la casa". Io gli ho risposto: "Adesso sì, sei veramente a casa tua e non sarai mai più solo. Dio ti ha spinto verso di noi. Adesso ci appartieni. Adesso hai un presente e tu per me sei un regalo enorme". E mentre stavamo ancora parlando le altre infermiere sono arrivate e hanno incominciato ad urlarmi contro che avevo tagliato male la barba di questo paziente e che stavo perdendo il mio tempo a lavare il corpo di qualcuno che comunque presto sarebbe morto. In effetti questa persona morì tre giorni dopo ma è morto in pace e io sono sicura che non ho perso il mio tempo perché nel mio lavoro considero che il mio compito è di aiutare i pazienti e le altre infermiere a capire che la vita è un dono che è dato a tutti noi(1).
Durante l’inverno a volte avevo delle difficoltà per svegliarmi la mattina. Una mattina mi sono rivolta a Dio dicendo: "Vieni Gesù, ancora oggi, vieni, impossessati di me, io non sono niente, da sola non sono niente, sono solo qualcosa che aspetta la tua presenza. Non so come ti incontrerò oggi ma so che in te troverò la forza". In ospedale la caposala mi ha detto che c’era una chiamata nel reparto di ginecologia. Mi sono chiesta che cosa avessi a che fare con quel reparto dal momento che lavoro nel reparto di malattie infettive. La caporeparto mi ha spiegato che era stata ricoverata una donna per abortire. Una volta di più mi sono chiesta che cosa potevo fare io, io che non sono niente: quale diritto avevo di presentare una posizione diversa? Poi mi sono ricordata di qualcosa d’altro: questo bambino significa per me la presenza di Cristo.
Sono corsa nel reparto di ginecologia, ho parlato con la signora che ha cercato di darmi tutte le scuse possibili perché voleva abortire. Le ho parlato per molto tempo; mi ha chiesto se ero sposata. Io ho risposto di sì e le ho chiesto se non poteva darmi il bambino. A questa mia domanda lei si è messa a ridere: "Ma come, non puoi averne uno?". Ho mentito una seconda volta; ho risposto che non potevo avere figli. A questo punto mi ha pregato di uscire e di parlare con suo marito. Sono tornata a casa; non potevo mangiare e pensavo soltanto a questo Cristo che sarebbe morto all’indomani. Non potevo neanche riposare perché sapevo che quando sarei tornata avrei trovato già la cosa fatta. Molte persone mi hanno visto in questo stato, infelice. Ho spiegato la causa; una di esse mi ha riaccompagnato all’ospedale. Abbiamo telefonato al marito e abbiamo incominciato a parlare, ma quest’uomo era veramente furioso contro di me e non accettava nessuna delle parole che cercavo di dirgli. Abbiamo continuato a parlare per tre ore. Gli ho detto che se non voleva avere il figlio, una volta che fosse nato avrebbe potuto darmelo invece di ucciderlo. Gli ho detto questo senza neanche riflettere; mi era venuto in mente un bambino trovato nella casa della Memores Domini. Non sapevo dove avrei potuto mettere il bambino, ma il mio problema era soprattutto riuscire a far sì che i genitori avessero pazienza, aspettassero 8 mesi. E se questo bambino avesse potuto vivere ancora per 8 mesi, i miei amici ed io avremmo trovato il modo per tenerlo. L’uomo diventava sempre più furioso e francamente ero troppo stanca per continuare a parlare; allora ho detto al Signore: "Adesso sta a te parlare con questa madre, che è tua madre, perché io sono veramente troppo stanca". Stavo appellandomi a Maria, la madre della vita, affinché venisse in aiuto a questo bambino non ancora nato. Guardando la ragazza che mi accompagnava, così paziente, mi sono resa conto che dovevo agire senza nessuna fretta. La pazienza che a questo punto ho avuto il dono di ricevere mi ha incoraggiato a continuare a ripetere le mie richieste. Dopo tre ore il marito mi ha stabilito le sue condizioni: di ottenergli una casa meno costosa, occuparmi di sua moglie quando fosse stata ammalata, di trovargli un lavoro. Ho accettato tutte le condizione che mi venivano poste. Sapevo che se questo bambino avesse potuto vivere soltanto una notte, soltanto una settimana, io avrei sicuramente trovato degli amici che mi avrebbero aiutata a trovare un lavoro per il marito e ad occuparmi della moglie. Ero pronta anche a chiamare Vittadini e tutti gli altri amici del Movimento. Il marito ha accettato di bloccare l’aborto; mi ha spiegato come molte persone l’avevano ingannato, gli avevano promesso aiuto e questo aiuto non era mai arrivato e poi l’avevano totalmente abbandonato. Gli ho risposto che io ero andata invece verso di lui e con lui perché lui era una parte di me e quindi anche i suoi problemi. Il giorno dopo la moglie è uscita dall’ospedale. Ho trascorso una intera settimana dove vivevano loro per curare la moglie e farle delle iniezioni. Adesso ha raggiunto l’ottavo mese di gravidanza e in settembre avverrà il parto. Lentamente poco per volta sto aiutandoli a vivere con la presenza del bambino e a scoprire qualcosa di più grande, di più vasto nella loro famiglia e nel bambino. Siamo anche riusciti a trovare un lavoro per il marito. E adesso la famiglia sembra essere felice. Quando li ho visti ho chiesto a Betty, la moglie, qual era il nome che aveva scelto. Mi ha risposto: "Rose". Lentamente stanno scoprendo la bellezza della compagnia e il valore della vita. Per me la compagnia e il Movimento rappresentano un dono veramente prezioso perché è attraverso tutto questo che io sono arrivata ad avere un giudizio chiaro e la libertà di fronte alla realtà, quella realtà che mi viene presentata ogni giorno. Tutto questo mi aiuta a capire, a scoprire negli altri quello che vi è di più caro.
Noi che lavoriamo nel campo medico molto spesso siamo tentati di considerare la salute come il risultato dei nostri sforzi personali o della nostra scienza. Il primo giorno che ho lavorato nell’ospedale, il mio desiderio era di curare ogni paziente di fronte a cui mi trovavo ma ben presto ho scoperto che il punto non era questo e che soprattutto era impossibile: uomini e donne venivano continuamente da me con delle domande e la risposta era che quello che veniva fatto non era dovuto soltanto alla medicina che gli davo ma anche all’attenzione e all’amore che faceva sì che loro scoprissero qualcosa di più grande. È dolce, è bello sentirsi amati e questo fa sì che i malati si sentano a casa loro. Più sono felici, più io stessa mi sento felice poiché mi aiutano ad incontrare Cristo. Sono io quella che ha bisogno degli altri, sono io che sono alla ricerca di Cristo, che è la ragione della mia esistenza e del mio lavoro. Io so che non è facile ma la verità nasce sempre dal dolore della carne. Quando in Uganda è apparso il problema dell’AIDS il Ministero della Sanità ha fatto delle pubblicazioni dove si diceva: "Fate l’amore ma con molta attenzione, siate fedeli, amate una sola persona e restate sempre con un solo partner". Ma io ho scoperto che tutto questo è inutile quando uno non scopre e non arriva a capire qual è la ragione per la vita. La vita perde il suo valore, il suo significato, le famiglie si dividono. Quando non esiste una ragione, la vita, il lavorare diventano un enorme caos. E tutto appare come se fosse sospeso nel vuoto, nel nulla. L’uomo afferma che fa moltissimo da solo e se è solo ma quando fa questo l’unico risultato, l’unico prodotto è la disperazione. Dobbiamo scoprire qualcosa di più grande per potere amare e per potere amare una sola persona. Come ha detto padre Tiboni, il grande miracolo è il miracolo del cambiamento; questo è quasi più grande del miracolo della resurrezione dei morti. Tutti, piccoli o grandi, ricchi o poveri, tutti abbiamo bisogno di questa dipendenza poiché l’uomo da solo in quanto tale non è niente. La vera via verso la pace, verso la felicità è attraverso la crescita della nostra consapevolezza, della nostra appartenenza gli uni agli altri, del nostro essere l’uno parte dell’altro e del poterci aiutare lungo il cammino che ci porta verso il nostro destino.
Filippo Ciantia, medico, vive e lavora in Uganda. Nato a Venegono (Varese) nel 1954, dopo gli studi classici, nel 1979 si è laureato in Medicina e Chirurgia all’Università di Milano, specializzandosi poi in Igiene e Profilassi nel 1982 e in Medicina tropicale nel 1988. Dopo un primo periodo di esperienza nel laboratorio dell’Ospedale Maggiore di Milano, è partito per l’Uganda dove risiede con la moglie e i cinque figli. Ha prestato la sua attività a Kitgum nell’ospedale governativo e in quello missionario e poi come medico distrettuale. Attualmente continua il suo impegno missionario come coordinatore medico dei programmi AVSI in Uganda.
Ciantia: Il 19 marzo 1988 è una data decisiva per la mia esperienza missionaria in Uganda. A quei tempi con Luciana, mia moglie, e con tre dei miei bambini mi trovavo nel nord dell’Uganda. Dal 1986 nel Nord continuava una guerriglia contro il potere centrale e il distretto di Kitgum era particolarmente sconvolto. In quella fase particolare alcuni gruppi volevano imporre la loro religione, un misto di credenze ancestrali e di riti tribali, a tutta la popolazione: sono numerosissimi gli episodi di pressione e di angherie perpetrati ai danni dei cristiani affinché abiurassero la loro fede. Molti cristiani, soprattutto catechisti che si opponevano, furono uccisi. Alcune missioni furono assalite e saccheggiate; vari missionari furono sequestrati e liberati solo dopo una catechizzazione forzata interrotta dall’intervento dell’esercito.
Quella mattina del 19 marzo, festa di San Giuseppe, era il sesto compleanno della mia primogenita, Maddalena. Un gruppo di guerriglieri assalì la nostra missione di Kitgum. Ricordo perfettamente il grido di allarme degli Acioli che è molto suggestivo, lanciato dalla gente che da alcune settimane si era rifugiata nelle vicine scuole, nell’ospedale, nel centro catechistico per sfuggire alla guerriglia. L’allarme fu seguito da un silenzio quasi irreale che improvvisamente venne rotto dalle urla di guerra di un gruppetto di cristiani, pochi uomini che armati di sassi, di bastoni, di coltelli, di zappe, affrontarono gli assalitori armati di armi da fuoco. Dalla finestra della mia casa presso l’ospedale e vicino alla Chiesa seguivo la scena tenendo in braccio Matteo, il mio figlio di due anni. Non dimenticherò mai quei pochi che si lanciano verso i guerriglieri per difendere la missione. Spariscono dalla mia vista, poi si sente il sinistro suono delle raffiche di mitra seguite da altre urla di guerra, poi ancora un silenzio. I guerriglieri, con le armi automatiche, avevano sparato contro questa gente e li avevano mancati da pochi metri e allora atterriti si erano dati alla fuga. Subito i nostri amici vengono alle nostre case ancora piene di paura, ci abbracciano, felici di aver protetto e salvato la Chiesa, la comunità cristiana. Oltre a noi, medici e tecnici, e alle nostre famiglie, una ventina tra adulti e bambini, c’erano i missionari e oltre tremila rifugiati dei villaggi vicini, soprattutto donne e bambini.
Questo drammatico ed esaltante episodio è per la mia famiglia e per la nostra comunità un evento decisivo; infatti il sogno e il desiderio per cui eravamo partiti si evidenziava chiaramente realizzato e sperimentabile in quel momento.
Luciana ed io, ed anche altri, siamo partiti per l’Uganda nell’80, altri più recentemente o anche prima di noi, lasciando le nostre famiglie, gli amici, alcuni dicono anche una buona carriera, per comunicare e per offrire agli ugandesi l’incontro così bello e significativo che avevamo fatto con Cristo nella comunità cristiana. Quei terribili momenti così difficili e ancora carichi di incognite rivelavano che non si trattava di un sogno; c’erano persone, amici con la faccia precisa, pronti a dare la vita per Cristo e per la Chiesa, pronti a lasciare e a perdere le loro case, le loro famiglie, le loro vite per testimoniare Cristo. Amici pronti a rischiare la vita per i miei bambini, per le nostre famiglie affinché potessimo continuare a rimanere con loro. Amici pronti a difendere ciò che di più caro avevano nella loro vita: la Chiesa. Amici pronti a lottare perché la speranza per l’Uganda potesse permanere e crescere e soprattutto rimanere nel mezzo della guerra, delle sofferenze e della violenza.
Io sono medico; per molti anni ho lavorato in ospedale con mia moglie ed altri; da un paio d’anni lavoro per l’AVSI, sono coordinatore di quattro programmi di sviluppo sanitario e agricolo. Per più di 10 anni ho lavorato nel settore dello sviluppo di cui oggi si discute parecchio. Si parla soprattutto di fallimenti, di difficoltà e quindi di che fare. Lo sviluppo vero è che crescano delle persone nuove, capaci di costruire e lavorare con un significato e una speranza nel contesto drammatico dell’Uganda. Una nazione si costruisce attraverso il lavoro e l’operosità di persone che costruiscono dei piccoli pezzi di società cambiata dove l’uomo può difendere la sua vita. Una operosità vera è possibile se ci sono delle persone. Tutto quanto costruiamo attraverso i nostri grandi progetti di sviluppo durerà se ci saranno persone nuove piene di passione per l’uomo che soffre, per l’uomo che gioisce, fa famiglia, costruisce, lavora. Un programma sanitario non è possibile senza persone come la Rose. Lavorare per lo sviluppo è incontrare gli altri uomini e trasmettere loro la buona notizia che ci ha mossi. Allora si lotta e si rischia per difendere l’opera del proprio lavoro, la propria famiglia e la propria casa.
Recentemente un esponente di alto livello dell’UNICEF, dopo aver visitato i nostri programmi a Kitgum, si congratulava per la forza e il coraggio dei nostri amici che tuttora rimangono lì in quella situazione e per il lavoro che fanno a favore della gente.
Vorrei ora ricordare due persone la cui amicizia ha permesso il miracolo di questa presenza che anche altri riconoscono. Due persone che oggi non sono più tra di noi, il primo si chiama Santo Kot, è un catechista della parrocchia di Palabek al confine con il Sudan. Durante i momenti più gravi della guerriglia ha scritto: "Non lascerò questo posto e non lascerò il mio popolo. Ho amici con cui vivo una perfetta comunione. So bene che mi trovo in grave pericolo e che è in gioco la mia vita. Ma so anche che tutte queste sofferenze ci capitano a causa della verità. Incontro tante opposizioni a causa della chiara proposta di vita che faccio alla gente. Voglio ricordare le parole di Tiboni: ‘Devo condividere la vita di Cristo fino alla morte’. Ci sono stato fino in fondo allora e ci sto anche ora". Santo che ci ha testimoniato una affezione straordinaria a Cristo e agli altri uomini e che tante volte aveva rischiato di essere ucciso per rimanere fedele a Cristo, è morto di una grave malattia polmonare a Palabek il 5 maggio 1991 senza alcuna cura medica.
Il secondo amico è Elli Onghe. Elli ha vissuto il dramma dell’AIDS che ha sconvolto e distrutto la sua famiglia, testimoniandoci che pur nella sofferenza più grave e nel dramma più oscuro in ciascuno di noi c’è la presenza di Cristo che rinnova e trasfigura il mondo trasformando la tragedia in una cosa bella per Dio e per gli altri uomini. Il 16 giugno 1990 i movimenti cattolici si sono riuniti a Kampala per testimoniare come la fede affronta la sfida dell’AIDS. In quell’occasione Elli Onghe disse tra l’altro: "Io soffro di AIDS. Vorrei mandare un messaggio a tutte le persone che soffrono di AIDS, ai loro amici, ai loro famigliari. Voglio dirvi che è possibile vivere una vita piena di significato, è possibile vivere una vita che abbia uno scopo. La vita non finisce con la morte. Non abbiate paura della morte perché in Cristo la nostra vita continua. Non c’è nulla da temere con amici che vivono con significato, potete continuare a vivere. Non c’è nulla da temere perché sono convinto che Cristo mi ha dato il coraggio con cui vivo. Mi ama e avrà cura di me. Non è importante la lunghezza della vita, anche se durasse un solo minuto essa deve essere vissuta intensamente perché è un passo verso il mio destino. Ho scoperto qualcosa di meraviglioso, la sofferenza non è per niente, la sofferenza ha un significato; questo è straordinario. Cristo cambia tutto, anche la sofferenza e passo dopo passo egli mi guida". Elli è morto il 6 agosto 1990, festa della Trasfigurazione di Nostro Signore. La sua opera e la sua memoria continuano attraverso gli amici di un gruppo che si chiama Meeting Point che si cura dei malati di AIDS.
Un altro avvenimento molto grande nella nostra vita in Uganda è stata la prima Assemblea Nazionale delle Opere a Kampala dal 16 al 18 maggio. Scuole, gruppi di donne, associazioni di volontari che aiutano malati di AIDS, gruppi che aiutano gli orfani, opere che coinvolgono migliaia di persone tra chi ci lavora e chi ha trovato lavoro ecc.
Quando Luciana ed io ci siamo sposati abbiamo scritto sul biglietto di partecipazione una frase di Gabriel Marcel: "Amare vuol dire che tu non morirai, vuol dire dire all’altro: Tu non morirai". Abbiamo vissuto molto acutamente questa esperienza attraverso l’amicizia con una nostra amica di Kampala che dall’inizio di quest’anno si è ammalata. È stata ed è una sfida alla vita perché abbiamo dovuto riscoprire noi il significato della povera condizione umana in cui siamo per affrontare in modo ragionevole questo fatto. Perché quando è una persona cara o quando hai la consapevolezza di Rose non puoi limitarti a offrire un po’ di compassione ma devi coinvolgere tutta la tua vita senza fare cose esaltanti, ma affrontando gli istanti, le cose di tutti i giorni. Akumu è una giovane donna, ha una figlia di sei anni gravemente handicappata a causa di una asfissia neo-natale che necessita assistenza in tutto. Dopo la nascita della bambina il marito l’ha abbandonata e da allora vive sola con Anita in una piccola stanzina. Vi assicuro che non si può affrontare una situazione così da soli, né da soli si può aiutare qualcuno in tali condizioni. Quando uno soffre ha bisogno al suo fianco di un amico. Abbiamo scoperto che l’unica cosa bella per la nostra vita è vivere per far sentire agli altri, in questo caso ad Akumu, una compagnia tenera, l’amore di Cristo e riconoscere nell’altro il volto del Signore. Abbiamo affrontato insieme tutti i momenti. Ci sono momenti difficili, gli alti e i bassi, i momenti in cui le cose vanno male, i momenti in cui si migliora, i momenti in cui sei stanco o deluso. La cosa più impressionante è che la mia giornata lavorativa, sono un tipo abbastanza impegnato di per sé, è stata segnata negli ultimi mesi da questo rapporto. Mi è spesso capitato di andarla a trovare numerosissime volte durante la giornata, quasi una attrazione, un fascino nel farle compagnia, nel guardare quella faccia e nell’incontrare Anita, stare insieme a lei e darle le medicine. Tante volte ci siamo trovati che non sapevamo cosa dire e allora guardavamo il manifesto di Pasqua e ci accorgevamo che c’era un Altro sulla barca che ci spingeva. Recentemente abbiamo avuto la visita dell’onorevole Formigoni in Uganda e tutto è andato in modo perfetto. Ma tutto è andato bene perché Akumu ha pregato perché questo incontro avvenisse e tutto andasse bene perché questo era importante per la nostra presenza in Uganda.
Il giorno prima di partire dall’Uganda sono andato a trovare Akumu. Le ho detto che dovevo parlare qui e le chiedevo qualche suggerimento. Mi ha detto: "Racconta di me, di come sono felice. Racconta che senza di voi non potrei vivere. Racconta di me, di noi affinché credano che con Cristo i miracoli sono possibili".
Pietro Tiboni è nato a Tiarno di Sopra (Trento) nel 1925, entra da ragazzo come studente fra i Comboniani e diventa Sacerdote nel 1950. Compie gli studi filosofici e teologici a Roma. Si laurea in Teologia e Filosofia.
In Inghilterra ottiene il certificato generale in Educazione per insegnare nel Commonwealth. Svolge in Italia come insegnante di filosofia i primi cinque anni del suo ministero. Nel 1959 parte per il Sudan e nel 1964 ne viene espulso con tutti gli altri missionari cattolici del Sud. Nel 1970 parte per l’Uganda. A Kitgum fonda il K.P.I. (Kitgum Pastoral Institute), un seminario per vocazioni adulte (formazione pastorale e comunitaria). Incontra attraverso i volontari là presenti il Movimento di CL. Nel 1975 viene espulso con altri 15 comboniani, scelti tra i più significativi.
Nel 1980 rientra in Uganda, dopo la caduta del presidente Amin. Ad agosto 1981 incomincia in Uganda il Movimento di CCL (Christ is Communion and Life).
Tiboni: Il titolo dell’incontro era "Dieci anni di compagnia in Uganda. Fare il cristianesimo ‘81-’91", perché il movimento "Cristo Comunione e Vita" è incominciato proprio in agosto dell’81, dieci anni fa. Ciò che è venuto fuori in tutta la storia, ma specialmente quest’anno in un modo prepotente, bellissimo e stupendo, è proprio il miracolo di una amicizia e di una compagnia così profonda che quando uno la guarda resta sempre più stupito. Così è giusto quel titolo: "compagnia" perché credo che la cosa più bella sia questa. Per tutti noi, nei vari luoghi dove ci si trova, ci sostiene una amicizia ed intimità così profonda, così intensa che, come osservate, non fa nessuna differenza tra bianchi e neri. Questa amicizia è una cosa così grande che mi sostiene continuamente, che mi dà grande gioia.
Chi mi ha incontrato durante quest’estate ha visto che sono molto contento; ebbene questa contentezza, questa gioia viene proprio da questo fatto. Lo stesso vale per la nostra gente a Kitgum. Quest’anno è vissuta nella situazione peggiore di tutti gli anni scorsi perché c’è stata una operazione militare (cose dell’altro mondo!) ma la cosa stupenda è che dentro una situazione così, per una amicizia profonda che c’è stanno bene. Stanno bene vuol dire che quando li incontro o vengono a Kampala li trovo felici. Perché stanno bene? Perché l’unità tra di loro, senza distinzione di colore, è così intensa e così grande che è come se esistesse una faccia unica. L’appartenza e la coscienza della presenza di Cristo fa venire fuori una unità che poi è fecondissima, sta diffondendo il movimento con una forza anche nel campo delle opere che è stupenda. Quando ci siamo incontrati nella diaconia dell’Est Africa, del Kenia ecc. oppure nell’Assemblea della Compagnia delle Opere, abbiamo scoperto una unità nelle varie realtà che neppure potevamo sognarci. Veramente è cresciuta e sempre con un metodo preciso, lo stare insieme con una sola coscienza: siamo insieme per la presenza di Cristo, per nessun altro motivo perché non esiste nessun’altra ragione.
La cosa che mi ha stupito di più quest’anno è stato vedere come l’incontro con la compagnia abbia trasformato i malati di Aids a tal punto da diventare i protagonisti più grandi del Movimento, quelli che hanno cambiato veramente la vita di tanta gente del Movimento e sono stati capaci di proporlo agli altri. In questa gente, nell’incontro col Movimento, proposto secondo quel metodo di cui parlava Rose (non si tratta di andare da uno per compassione o per aiutarlo, si tratta di andare da una persona e dire concretamente: tu appartieni a me perché hai lo stesso destino, invitarlo a qualcosa di grande, cioè è importante per me), si sono destate una gioia ed affezione che ha fatto in modo che ci fosse uno sviluppo in tutte le realtà dell’Uganda veramente di una caritativa non fatta per generosità, ma perché è necessaria per la nostra vita.
NOTE
(1) Il tempo della vita ci è dato per incontrare e fare qualcosa di più grande. Più a lungo dura la vita, maggiore è la possibilità che abbiamo di utilizzarla per fare qualcosa di più grande. Quello che possiamo fare anche in un solo secondo, se lo facciamo convinti, è molto di più di 100 anni sprecati inutilmente. Anche se oggi non riesco a fare quello che voglio, la soluzione esiste: rivolgermi sempre a Cristo e alla sua compagnia. Come un bambino che corre e torna indietro sempre verso la propria madre, dipende totalmente da essa. E questo mi incoraggia a chiedere ogni giorno a Cristo di essere sempre più presente e che la sua volontà si compia come egli l’ha programmata per me. E da questo deriva la libertà di accettarlo come mi si presenta. E io mi sento sicura nel pormi nelle sue mani per vivere nel presente la presenza di Cristo. Io so che i suoi piani per me, per la giornata, sono i suoi piani, io non ho dei piani miei. Il mio compito è unicamente quello di compiere ciò che ha previsto per me poiché egli sa.