Giovedì 25 agosto
"LAVORO, SOLIDARIETA' E NUOVO SVILUPPO"
Partecipano:
Dott. Franco Marini, Segretario Aggiunto CISL;
Dott. Domenico Rosati, Presidente ACLI;
Dott. Lucio Toth, Presidente MCL;
Ivan Guizzardi, Segretario Centri di Solidarietà.
Moderatore:
Dott. Giancarlo Rovati.
G. Rovati:
Nell'ambito del Meeting era importante affrontare evidentemente questo tema perché rappresenta un punto della vita quotidiana assai importante e assai vicino all’esperienza di ciascuno di noi. La maggior parte dei presenti lavora o si avvia a cercare un luogo di lavoro; incontra in questa sua ricerca o in questa sua attualità tutti i problemi che sono in parte nostri e che in parte i relatori di oggi ci illustreranno; nello stesso tempo sperimentiamo come una nuova forma di organizzazione della società richieda a ciascuno la disponibilità a qualche forma di cambiamento. Come documentano gli incontri già fatti in precedenza e come documenteranno i successivi incontri del Meeting, la nostra società vive una stagione di grandi cambiamenti nella struttura produttiva ma anche nel modo di vivere quotidiano; e ciò è dovuto in larga misura ad una grande nuova ondata di cambiamento tecnologico. I mutamenti pongono in termini nuovi innanzitutto il problema dell'occupazione per chi ha o sta cercando un lavoro; nello stesso tempo questi cambiamenti pongono il problema di ripensare a forme di solidarietà tra gli uomini del lavoro perché nessuna categoria, in particolare le più deboli, debba pagare esclusivamente il prezzo del cambiamento. Tutti questi fenomeni conducono per linee diverse a ripensare profondamente il tema del lavoro nella nostra società, non solo però dal punto di vista tecnologico ed organizzativo, quello che per usare una espressione della Laborem Exercens possiamo definire "il lavoro in senso oggettivo", ma anche dal punto di vista dell'uomo che lavora, cioè dal punto di vista del "lavoro in senso oggettivo". Questa tematica sollecita pertanto a ripensare i molti modi di intendere e di organizzare la solidarietà nella nostra società di uomini del lavoro. Vi sono anche dei punti di crisi nel sistema con cui la nostra società ha organizzato fino a questo momento la solidarietà. Negli anni settanta si era pensato di affrontare questo problema con un sistema di garanzie che alla prova dei fatti del uovo decennio si è dimostrato scarsamente flessibile, anche per effetto del consolidarsi di egoismi di gruppo; un altro punto di difficoltà a ripensare la cultura del lavoro è legato in una notevole misura ad una concezione negativa e puramente conflittuale spesso del lavoro. Sono questi alcuni spunti che abbiamo offerto ai relatori di oggi e sui quali chiediamo loro di intervenire. Interverranno su questo tema Franco Marini, segretario aggiunto della CISL che si soffermerà soprattutto sulle implicazioni per il movimento sindacale del tema di oggi. Seguirà poi l'intervento di Domenico Rosati presidente delle ACLI, quello di Lucio Toth presidente dell'MCL e quello di Ivan Guizzardi a nome dei Centri di Solidarietà.
F. Marini:
Io credo abbia ragione Rovati quando, nell'invitarci a qualche riflessione veloce per il tempo che abbiamo sul problema del lavoro e del nuovo sviluppo del nostro paese, parla della necessità di un forte ripensamento; io sono profondamente convinto che anche dentro il sindacato, non è acquisito da tutti il senso di un cambiamento profondo che c'è stato nei rapporti economici sociali del nostro paese. Voglio dire che con un atteggiamento molto comune nella cultura del nostro paese l’azione sindacale è passata da una accettazione totalmente acritica negli anni sessanta, ad una posizione parimenti di forte critica scarsamente motivata oggi. Quelli furono anni in cui furono commessi anche errori, ma cambiò il paese, un senso forte di solidarietà e di uguaglianza si diffuse fra la gente che lavorava. Oggi siamo dinanzi ad un quadro totalmente diverso, l'uguaglianza in particolare, restano tra i valori veri di un sindacato non mercantile. Ci sono esperienze di sindacati autonomi in altri paesi che pensano alla difesa egoistica, anche dentro la crisi, delle posizioni di gruppo. Noi non siamo questi, sulle nostre linee che sono discutibili possiamo sbagliare, ma il senso fondativo del valore dell'uguaglianza e della solidarietà è alla base della nostra esperienza. Che cosa deve cambiare, per mantenere la coerenza con la solidarietà e l’uguaglianza? Vi richiamo a due dati che resteranno permanenti: non siamo dentro una congiuntura economica difficile che automaticamente verrà travolta dalla ripresa dello sviluppo. Siamo, a nostro giudizio, dentro una difficoltà che durerà per ragioni interne, internazionali, di andamento demografico del nostro paese. Una difficoltà che durerà e che ci porrà problemi nuovi, ai quali dobbiamo tentare di dare risposta. Dopo 30 anni - quindi un periodo lunghissimo nella storia di fatti economici di una società - di sviluppo senza limiti praticamente, noi a partire dagli anni '80 viviamo nel nostro sistema una situazione che gli economisti chiamano di crescita zero. Sarebbe lungo parlare delle cause, ma il dato è questo: '80-'81-'82, l'83 si prevede sotto zero. Noi abbiamo una situazione di blocco che non difende la quantità dei posti di lavoro conquistati o presenti ma una situazione di blocco che distrugge posti di lavoro. Il secondo elemento è in parte riflesso del primo. Per ragioni più generali noi abbiamo una situazione del lavoro che si va aggravando. Il numero dei disoccupati purtroppo lo conoscete, compresa la cassa integrazione, non sempre con sbocchi possibili, siamo a oltre due milioni e mezzo. Ma la cosa grave è che nell’industria, che è stato il polmone di assorbimento dell’attività lavorativa, quindi dell'occupazione del nostro paese (che si è trasformato da società contadina a società industriale), nell'industria negli ultimi quattro anni (i dati ultimi sono di questi giorni, elaborati da centri di ricerca di una notevole serietà) abbiamo visto scemare del 10% i dati dell'occupazione. La cosa che deve farci pensare sulla prospettiva è che anche un miglioramento della situazione generale del nostro paese non aumenterà i posti di lavoro, perché la profonda rivoluzione tecnologica in atto nel mondo, il rapporto nuovo dell'economia con i paesi emergenti, sullo sfruttamento dei quali molte nazioni europee hanno creato il loro benessere e la piena occupazione, ci pongono problemi sui mercati per tenere i prodotti; perciò anche investendo nell'industria non aumenteranno i posti di lavoro. Nella pubblica amministrazione ci sono dei limiti oggettivi, nell'agricoltura certo ci sarà posto per i giovani, ma la percentuale di addetti diminuirà. Che fare rispetto a questo? Ci arrendiamo? Facciamo il sindacato degli occupati che non tiene conto di questa difficoltà e cancella i valori ideali della sua fondazione, valori storici comuni anche all'esperienza socialista del sindacato del nostro paese, cioè l’uguaglianza e la solidarietà? La crisi spesso fa registrare momenti di arroccamento e di frattura. Dentro la crisi e l'inflazione forte la reazione è quella di avere le categorie più forti che si chiudono e cercano di difendere le loro posizioni. Quindi è un problema serissimo anche per il movimento sindacale italiano. C'è uno scontro di impostazione anche nel nostro paese, meno rude per la capacità di rendere felpati i dibattiti politici, ma dello stesso contenuto di un dibattito che c'è in Germania, in America e in Inghilterra. Il problema è: come rispondiamo a queste difficoltà? C'è la risposta che per dirla in breve si chiama monetarista, sperimentata in qualche paese, che vuol dire meno Stato, meno intervento di programmazione, meno direzione, più mercato. Cosa vuol dire più mercato? In un paese come il nostro dove il 60% circa delle risorse viene gestito dallo Stato, più mercato vuol dire mettere in discussione le conquiste sulla previdenza e la sanità che hanno generalizzato un’assistenza discutibile che deve essere rivista, ma che non può essere privatizzata. La risposta monetaria dice ancora: meno sindacato, più potere discrezionale all'impresa. Dice ancora: per battere l'inflazione, sindacato debole più disoccupati, minori salari perché ci sarebbero minori costi. E questa risposta è forte, perché una risposta globale, cancella la solidarietà, rimette al centro la meritocrazia e la selezione e quindi chi è più forte si difende meglio. È stata fortemente presente questa tentazione, spinta da settori dell'imprenditoria italiana, nel dibattito politico che c'è stato anche nel corso delle ultime elezioni. Quale risposta dare? È difficile tenendo fermi i valori che ho richiamato e che vorremmo tenere fermi all'interno di grandi difficoltà, perché ci sono anche limiti in questa azione di uguaglianza e di solidarietà. Certo se penso al salario io posso riconoscere che i meccanismi che avevano messi in piedi nel corso degli anni '70, tra automatismo della scala mobile e aumenti salariali nei contratti di un certo tipo hanno sacrificato la professionalità. Aggiustiamo questo dato, ma quando si legge in questi giorni, dirigenti delle organizzazioni dei quadri che nella crisi dicono: "Via il punto di scala mobile in questo modo, contratti individuali per i quadri e rimettiamo in discussione anche la copertura previdenziale e sanitaria in maniera differenziata", qui occorre dire un no secco perché questo cancella l'idea di solidarietà e di uguaglianza. Io sulla risposta da dare richiamo lo sforzo fatto con l'intesa Scotti del gennaio scorso. Cosa c’è in quell'accordo? C'è un metodo della responsabilità e del confronto. Io sostengo con forza le mie opinioni però so che in una società come la vogliamo, come la abbiamo accettata, come i valori profondi della nostra storia e della nostra cultura ci insegnano ad apprezzare, c'è una dialettica tra le parti, c'è la voce anche dell'imprenditore; quindi non vogliamo demonizzare nessuno. In questo accordo c'era proprio la sottolineatura della difficoltà della situazione e la ricerca non della vittoria o la rivincita di una parte sull'altra, che sarebbe distruttiva per il paese e per i giovani, ma si cercava uno sforzo di responsabilità, anche del sindacato che ebbe difficoltà a firmare quell'accordo, degli imprenditori, e del governo per tentare di uscire dalle difficoltà. Come? Noi accettammo un impegno che riguardava la produttività delle aziende, meno rigidità, come diceva Rovati. E nei contratti di lavoro abbiamo onorato questo impegno. Accettammo una lotta più dura all'assenteismo ingiustificato, e una riduzione della scala mobile. Abbiamo sottoscritto il fondo di solidarietà dei lavoratori, cioè contribuiamo alla documentazione delle risorse per finanziare cooperative, attività per i giovani in particolare per il Mezzogiorno. Altri impegni c'erano da parte dei datori di lavoro più o meno onorati; il governo su richiesta nostra per la prima volta ha messo al centro della sua politica di sostegno la famiglia, più assegni familiari e sgravi fiscali per le famiglie mono reddito sui figli e sulla moglie a carico. È una linea politica che vogliamo difendere perché questa è anche un pezzo della linea di solidarietà. Per finire voglio dire che una cosa manca nel rapporto con le autorità di governo; c’è qualche punto nel programma illustrativo del presidente del Consiglio che mette il lavoro al centro. Non avremo occupazione piena nell'industria, nella misura in cui l'abbiamo avuta negli anni '60, abbiamo bisogno oggi di sfruttare tutte le possibilità nella pubblica amministrazione anche con rapporti di lavoro privatistici, con agenzie, con rapporti di lavoro a termine, con rapporti di lavoro part-time, nel settore dei servizi sociali, nei settori della difesa del suolo, nel settori del turismo. Ci sono spazi trascurati nel nostro paese quando l'economia tirava e c'erano posti di lavoro stabili nelle industrie. Ai giovani quanto meno nei prossimi mesi dobbiamo assicurare questo sbocco, sviluppando dei punti che ci sono nel programma di governo. Il piano generale sul nuovo sviluppo è il punto più carente del dibattito politico. Si sviluppò l'industria italiana facendo delle grandi scelte strategiche. Oggi con i cambiamenti che ci sono a livello mondiale non basta fare la 675, una legge per la ristrutturazione dell'esistente. Il cambiamento nel rapporti con gli altri paesi, i cambiamenti indotti dalle nuove tecnologie sono tali che la parte pubblica e anche le parti sociali hanno il dovere di scelte precise. In quali settori si può investire per dare possibilità di sviluppo nel nostro paese? Una risposta positiva la possiamo dare al nostri problemi.
G. Rovati:
Passo ora la parola a Domenico Rosati presidente delle ACLI.
D. Rosati:
Vi ringrazio di questo invito che ho accettato volentieri perché il tema stesso del vostro Meeting è un tema di dialogo e di confronto. L'amico Marini ha già parlato di quello che è stato il vecchio sviluppo che non si riprodurrà più, se io non ho mal capito, perché siamo a crescita zero o a crescita sotto zero. Io vorrei sottolineare che anche se quel tipo di vecchio sviluppo non c'è più tuttavia la nostra mentalità, la nostra cultura è ancora ancorata a quel tipo di sviluppo, per cui, pur non avendone più le condizioni, noi ci comportiamo ancora come se la congiuntura dovesse ricaricarsi positivamente, come se il livello del reddito nazionale dovesse crescere da un momento all'altro, aspettando una ripresa o peggio ancora scambiando una ripresina per una riinversione di ciclo. È invece un punto fermo su cui noi dobbiamo basarci perché l'incognita del futuro, questo nuovo esodo che ci aspetta, sta proprio nel fatto che questo imponente sviluppo che chiamiamo società industriale e capitalistica non funziona più come prima, qualche cosa si è inceppato e per questa via non possiamo aspettare risposta alla domanda del lavoro, alla domanda di nuova occupazione, alla domanda di quantità e qualità del lavoro in misura sufficiente. Io mi ero preso l'impegno con l'amico Formigoni di intrattenervi particolarmente su un'altra delle incognite che vanno a configurare lo scenario del nuovo sviluppo, l'incognita più esattamente della rivoluzione informatica, delle nuove tecnologie che fanno irruzione nel mondo della produzione e nella intera vita dell'umanità condizionandola profondamente; credo che si possa convenire con chi ha affermato che una nuova materia prima si è introdotta fra le altre materie prime e questa materia prima è l'informazione elaborata ottenuta in tempo reale. Brevissimamente, come interferiscono le nuove tecnologie sul modo di lavorare, sul luogo di lavoro, nel tempo di lavoro? Noi abbiamo vissuto finora con un tipo di società che si è formata concentrando la produzione in un unico luogo: il modello, la grande fabbrica, il grande ufficio; nello stesso tempo: gli orari sincronizzati, tutti al lavoro alla stessa ora, tutti all'uscita del lavoro alla stessa ora; e nello stesso modo: il lavoro a catena, il lavoro ripetitivo e così via. L'introduzione delle nuove tecnologie può scardinare questo sistema sul modo di lavoro, certamente non si ha più l'operaio che diventa appendice della macchina che produce, ma l'operaio che presiede all'informazione che guida la produzione. Sul luogo di lavoro il robot può funzionare comandato a distanza; una consol di collegamenti e di comando che sia piazzata a 10 metri dal robot che lavora o a 100 Km è esattamente la stessa cosa. Pensate alle conseguenze che riguardano gli spostamenti, il pendolarismo, la questione dei trasporti e così via. E infine sul tempo di lavoro. Io vi confesso che a me ha fatto una certa impressione quando ho letto in un titolo di giornale che le automobili in Giappone si costruiscono al buio, perché il robot non ha bisogno di luce perché non ha occhi, non deve veder quello che fa e anche da noi si costruiscono al buio. L'anno scorso venne Massacesi al nostro convegno di Vallombrosa e ci disse con franchezza e sincerità: "Ma insomma io il robot lo compero, costa qualche centinaio di milioni, ma nel giro di 5 anni lo ammortizzo e per giunta non mangia, non beve, non dorme, non sciopera, non gli devo pagare il primo giorno di malattia; è veramente un affare!". E non possiamo dirgli che sbaglia se si compera il giocattolo perché il movimento operaio ha sempre sbagliato, Marini correggimi, quando ha bruciato i telai, quando si è opposto all'avanzata del progresso tecnico. Si tratta però di governare questo progresso. La presenza qui dell'amico on. Bersani mi fa ricordare che nel 1957 al palazzo Barberini le ACLI fecero un convegno sull'automazione. E nella conclusione del presidente dell'epoca c'era scritto e fu detto che: "L’automazione è regolabile, ma per poterla regolare bisogna che i lavoratori abbiano voce nel momento della decisione". Questo era scritto e detto allora e questo mi pare si possa dire ancora adesso. Penso che andiamo incontro quindi ad uno scenario che sconvolge non solo le nostre abitudini consolidate, ma la nostra cultura profonda, che introduce variabili di cui non possiamo calcolare la portata nel nostro modo di vivere, nel nostro modo di rapportarci con gli altri. Nell'ultima fiera di Milano ho visto due cose: l'ufficio virtuale e il talamo elettronico. L'ufficio virtuale un ufficio dove non si va, si lavora da casa attraverso un sistema di telematica e di terminali. Il talamo elettronico mi ha impressionato, perché i due letti dei coniugi erano orientabili, nel senso che facendo perno dalla parte della testa potevano divaricare fino a mettersi testa contro testa. E ho domandato perché. Perché così ciascuno dei coniugi può consultare il proprio calcolatore senza disturbare l'altro. Vedete che alla famiglia ci pensa anche l’elettronica. Ci sono queste novità che ci aspettano. Che conseguenze avrà questa nuova risorsa dell'uomo una volta che si sarà diffusa, non solo nei processi produttivi, ma anche nelle attività terziarie? Potrà essere una risorsa di liberazione e di nuova schiavitù? Pensate alla ambiguità potenziale dell'uso delle banche-dati in rapporto alla libertà della persona. È in atto in questi giorni una polemica molto dura in Germania sulla questione della tessera elettronica. In Italia abbiamo fatto la tessera elettronica solo per gli aspetti fiscali, ma in Germania pare che veramente non sfugga niente. E la possibilità che si possa avere tutte le notizie su tutto quello che si vuole nel momento in cui si preme il tasto è una grandissima risorsa. Ma dipende da come viene usata. Io non mi attardo in polemiche sulla neutralità o non neutralità della scienza. Il problema però è del controllo democratico su questi processi, perché questi processi non controllati democraticamente facilmente alimentano la tentazione di soluzioni autoritarie, alimentano la tentazione di attuare nei patti quel decisionismo che viene teorizzato e che finché è capacità di decidere, va bene, ma nel momento in cui dovesse trasmodare diventa un reale pericolo per chi crede nella democrazia. Io credo di dover dire queste cose sottolineando che la mia organizzazione fin dal 1978 ha cercato di definire le coordinate di questo cambio d'epoca ponendo in luce una duplice esigenza: quella della costruzione di una nuova cultura dello sviluppo e quella di una riforma della politica basata sull'intervento di nuovi soggetti. La nuova cultura dello sviluppo, quindi, non solo un nuovo sviluppo, ma una cultura che ne sia supporto, avrebbe da avere, perché è molto difficile realizzare, come coordinate fondanti quella della gratuità, di dare valore a ciò che non è pagato, della solidarietà da tradurre nelle nuove condizioni e dimensioni che non sono più neppure quelle della classe e neppure quelle del popolo, ma si dislogano in dimensioni internazionali e la progettualità come capacità di progettare il futuro e quindi di fare politica. Se dovessi dire che dal 1978 ad oggi queste idee abbiano fatto progresso nel nostro paese vi direi una bugia, ma il fatto che la crosta delle abitudini non si sia ancora rotta non mi fa ancora cambiare idea. Domandiamoci insieme che cosa vuol dire solidarietà oggi: vuol dire costruire la pace, governare l'economia, garantire il lavoro. Se siamo d'accordo su questo, se diciamo che questo è prioritario, allora dobbiamo anche dire che il resto viene dopo. Noi siamo abituati a programmi in cui tutto è prioritario; ma dire che qualcosa è prioritario vuol dire che qualcosa viene prima e qualcosa viene dopo. Non esito a dichiarare che se si mette in scala e si è credibili su questo punto, che prima viene il lavoro e poi viene la tutela della salute, io dico prima viene il lavoro, il resto viene dopo, ma bisogna fare una scelta. Che vuol dire costruire la pace, governare l'economia? Ecco sono interrogativi che lascio e sui quali eventualmente tornerò nella seconda tornata. Che vuol dire garantire il lavoro? Basta dire facciamo nuovi investimenti nel campo industriale e del terziario, quando sappiamo che i processi di razionalizzazione espellono dovunque mano d'opera, o non dobbiamo fare più di quanto non si è fatto finora (quell'idea che l'amico Marini ha ripreso qui e che noi chiamiamo blocchi di domanda fuori mercato, cioè l'impegno straordinario per la difesa del suolo, per la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali, non sotto il capitolo dell'assistenza, ma sotto il capitolo della produttività differita)? Io credo che su queste cose si debba e si possa ragionare. C'è poi il capitolo della riforma della politica. Io mi riservo su questo punto, per stare nel tempo, di intervenire nella seconda tornata. Vi dico solo che questo disegno che noi portiamo avanti non può essere portato avanti da una sola forza, vi dico solo che riforma della politica per noi vuol dire estensione del campo e del numero dei protagonisti, che non sono e non possono essere solo i partiti come di fatto è stato finora in Italia. In questo spirito continuiamo il dialogo e cerchiamo di comprenderci e se per caso dovessi dimenticarmene nella concitazione del finale, buon lavoro al vostro Meeting.
L. Toth:
Vorrei riportare il tema di questo incontro a tutto quello spirito generale del Meeting di Rimini e in particolare anche al tema di questo Meeting "Uomini, scimmie, robot", perché sul tema del lavoro si misura in maniera diretta la problematica di questo tema generale, perché mai, come al giorno d'oggi, l'uomo si trova di più di fronte all'alternativa tra il proseguire nella sua evoluzione umana di maggiore acquisizione di coscienza di sé, del proprio destino, oppure di riscivolare verso il primitivismo della scimmia o di avviarsi verso la massificazione che viene dall'avvicinarsi dell'epoca dei robot. Chi mi ha preceduto ha posto in rilievo questo grosso significato di cambiamento di epoca. Il fatto che io vorrei sottolineare proprio per stare nello spirito generale del Meeting, è quello che non si tratta soltanto di una crisi o dei cambiamenti dei metodi produttivi, cioè del passaggio dall'industrializzazione classica al fenomeno della cibernetica, dell'informazione o dell'informatica, ma ci troviamo di fronte ad un'autentica evoluzione della filosofia del mondo occidentale e in generale della civiltà umana. E in questo vostro essere qui insieme, c'è già una contraddizione che un intellettuale cattolico ha messo in rilievo, dicendo: nello stesso momento in cui il Meeting di Rimini vuole reagire alla massificazione, in realtà questi ragazzi stanno insieme, non per sentire quello che si dice, ma soltanto per il gusto di stare insieme. Quasi che questo fosse un qualche cosa di male. Lo ha detto Baget Bozzo criticando lo spirito del Meeting. Bene, io penso che invece questa vostra presenza sia proprio una nostalgia di comunione, quel Omnes laetare in unum della Sacra Scrittura, che è il senso del ritrovamento della persona e del giusto equilibrio tra persone e comunità, che è al centro della tematica del Meeting ed è lo scopo di questa battaglia che noi stiamo conducendo che voi insieme, soprattutto le nuove generazioni state conducendo. Questo ritorno a sé stessi, questo ritorno a Dio segna nella nostra società è la fine, il declino di un grande ciclo storico che è stato il ciclo della morte di Dio; un ciclo storico che è cominciato senz'altro dall"Iluminismo ad oggi, forse anche prima, ed in cui si è cercato lo sviluppo della libertà della persona uccidendo Dio, col risultato che Nietzsche anticipava cent'anni fa di uccidere l'uomo cioè di portare alla morte l'uomo. Voi oggi giovani vivete in una civiltà assurda che è una non civiltà Una civiltà che ci ha dato molto dal punto di vista materiale, ma che ci ha isterilito e che ci sta uccidendo dal punto di vista spirituale. Voi, ad esempio giovani, vivete in una civiltà che vi sta dando tutto, in termini materiali, ma non vi dà la cosa essenziale della quale avete bisogno, cioè il lavoro, il punto e il luogo in cui manifestare e realizzare voi stessi e dare il vostro apporto agli altri fratelli, il senso della vostra vita nella comunità e quindi del vostro passaggio nella storia. L'essere senza lavoro e l'avere tutto il resto, ammesso che lo si possa avere senza lavorare, significa esattamente privare l'uomo della sua essenza più profonda, cioè nel senso della sua esistenza, del suo passaggio sulla terra. E allora questa manifestazione di Rimini è la rivolta del mondo giovanile cattolico, del mondo giovanile in generale contro l'assurdità di questa civiltà sbagliata, che ci dà tutto meno quello di cui abbiamo bisogno, cioè lo spazio esistenziale nel quale vivere, nel quale muoverci. E da questa ideologia della morte di Dio, cioè di questi ultimi 250 anni di storia, che è nato il grande sviluppo del capitalismo e la grande prevalenza del capitale sul lavoro. Prevalenza di capitale sul lavoro che stiamo vivendo ancora oggi perché la robotizzazione esalta il capitale e mortifica il lavoro nella realtà, perché toglie posti di lavoro e dà maggiore importanza all'investimento del capitale. Certo è un processo contro il quale, sono d'accordo con Rosati, il sindacato non può opporre, ma che se noi non controlliamo è il trionfo del denaro, cioè è il trionfo di piccole oligarchie di uomini i quali possono assommare in sé ogni capacità decisionale. Ebbene noi uomini, come si sta costruendo questa civiltà massa, rischiamo di oscillare fra l'essere programmati fin dalla nascita addirittura attraverso il concepimento in provetta, o il vivere come scimmie ai margini della realtà del lavoro, perché tanto un pezzo di pane per ciascuno probabilmente la società può essere anche in grado di garantirlo, ma ciò che sicuramente non garantisce è la libertà e la ricerca di noi stessi, quindi la ricerca della verità. Ecco allora il significato del messaggio della dottrina sociale cristiana che oggi Giovanni Paolo II ha centrato, quando nella Laborem Exercens nel rivalutare il lavoro rispetto al capitale non vede il lavoro come fattore di produzione secondo una prospettiva a cui siamo abituati ormai da generazioni, ma vede il lavoro come espressione della persona, perché ciò che rimane al centro è la persona. Il ragionamento che si faceva poco fa l'ho sentito fare anche lo da degli imprenditori: se io ho il robot sostituisco tutte le persone che girano nell'ufficio, non avrò nessuno che ha il mal di testa, che è di cattivo umore perché ha litigato con la moglie o la fidanzata; per quanto riguarda l'efficienza del lavoro evidentemente il robot sostituisce l’uomo, ma se il robot è stato valutato in questi termini bisogna che ci sia qualche cosa nella filosofia che ha costruito questa civiltà che era sbagliata, perché evidentemente mai un uomo con i suoi valori può essere sostituito da un robot. Evidentemente qui sta la logica falsa che concepisce il lavoro soltanto come una merce. Il risolto istituzionale a cui veniva accennato poco fa è naturalmente la crisi delle istituzioni rappresentative, che si farà più grave ancora degli anni passati se noi non saremo in grado di correggere i sistemi rappresentativi e di raccogliere il consenso alla base della idea sociale, cioè ricreando un nuovo rapporto tra chi governa e chi è governato. Oggi c'è una incapacità delle istituzioni sia di interpretare i bisogni che di articolare i consensi attraverso una concentrazione del potere in poche mani e voi potete immaginare attraverso il dominio dell'informatica a quali risultati e a quali conseguenze noi possiamo arrivare, come ciascuno di noi, anche se sarà un operatore di cervelli elettronici, sarà a sua volta manipolato e sarà operato da pochissime altre persone; cioè praticamente noi andiamo verso l'instaurazione di sistemi che uccidono la libertà. Allora si tratta di sapere se noi come cattolici, perché qui io parlo soprattutto come rappresentante di un movimento di lavoratori cattolici, se noi siamo gli epigoni di un cielo iniziato con l'illuminismo e che ha cercato la libertà attraverso l'assassinio di Dio o se siamo i prodromi, come S. Giovanni, di un ciclo nuovo che vuole ritrovare la verità dell'uomo e restituirlo a se stesso, riconciliandolo con Dio e rimettendolo in comunione con l’universo e con gli altri uomini; ed il tema di questo vostro Meeting che è questa ricerca di comunione con la natura, ricerca di comunione con il nostro passato, con il passato delle nostre nazioni, con il nostro passato popolare. Se il punto cruciale della crisi, il luogo dove brucia di più, sono essenzialmente gi Stati Uniti d'America, perché è il paese più avanzato della civiltà occidentale laddove questa tematica si sente di più, io ritengo che la risposta stia venendo dall'Oriente europeo cioè dal mondo del dissenso, da uomini come Tarkovskij, come Solzenicyn o dal dissenso polacco; è lì che noi troviamo la risposta alla crisi dell'uomo contemporaneo, cioè alla crisi di valori presente nella civiltà occidentale; perché in una situazione di assenza di beni materiali l'uomo dell'oriente europeo ha riscoperto la verità della persona e il suo dovere di difendersi dalla massificazione. Ecco che allora noi dobbiamo guardare questa esperienza dolorosa, perché da questa esperienza dolorosa e sofferta nasce l'umanità di domani. E allora il lavoro e l'uomo diventano il punto centrale, cioè il punto centrale diventa i ritorno alla solidarietà, cioè il valore del lavoro come espressione di se stesso e del legame di ciascuno di noi, insieme con gli altri. Oggi andiamo incontro, come ha ricordato Marini, a grandi sacrifici dettati dalla crisi economica, ma dettati anche dalla riconversione industriale e del terziario. Questi sacrifici non possono essere realizzati se non attraverso il consenso delle parti sociali; sempre come l'accordo Scotti dell'inizio di quest’anno rimangono l’unica strada praticabile in un paese democratico come il nostro, a meno che il Governo e i partiti non vogliano diventare l'espressione della filosofia imprenditoriale, che non è la filosofia del nostro paese e non è la filosofia di noi cattolici. E concludo con il riferimento al nuovo sviluppo e alla cultura del nuovo sviluppo. Uno degli aspetti più gravi dell'assurdità di questa nostra società è la capacità che abbiamo in un momento di crisi economica di produrre armamenti e di suscitare e alimentare conflitti locali. Nel momento in cui noi parliamo abbiamo almeno una decina di paesi in cui la gente si sta uccidendo con le armi prodotte dalla nostra sovrapproduzione industriale, cioè da un eccesso di produttività. E allora c'è anche il discorso del livellamento che questa società sta portando e quindi della riscoperta dell'identità nazionale, un tema al quale so che voi, qui al Meeting, siete particolarmente sensibili e che io condivido pienamente. Perché per non essere scimmie, per non essere robot bisogna conservare, ed essere consapevoli come uomini del proprio passato, del lavoro delle generazioni che ci hanno preceduto. Allora il ritrovamento anche dell'identità nazionale, dell'identità popolare, come fatto distintivo di ciascuno di noi rispetto ad un livellamento assurdo che vorrebbe farci vivere secondo degli schemi astratti, è un altro di quei passi sui quali noi cattolici dobbiamo riportare l'attenzione, se vogliamo esercitare una funzione se non di guida certo di illuminazione in un momento in cui l'umanità sta attraversando una crisi di trasformazione che va al di là del fatto economico, perché è una crisi di trasformazione di un'intera impostazione di carattere religioso e di carattere filosofico. Io spero che da questi nostri incontri noi traiamo la conclusione di questo orgoglio e di questa fierezza, di essere gli interpreti più sensibili, più sofferti forse di questa nuova esigenza.
G. Rovati:
Grazie; do ora la parola a Ivan Guizzardi a nome dei Centri di Solidarietà.
I. Guizzardi:
Parlando dei Centri di Solidarietà, non possiamo non partire da un fatto che è avvenuto tre anni fa, da una grande parola che è stata posta per tutti i cristiani e per tutti gli uomini che vivono e che sono appassionati alla loro dignità. Mi riferisco in maniera evidente alla Laborem Exercens. Per noi questa parola è stata decisiva come conferma di un lavoro in atto e come sviluppo di un lavoro che oggi chiamiamo Centri di Solidarietà. Ma voglio soffermarmi in particolare su due termini della questione: cos'è il lavoro, cos'è la solidarietà? C'è un'affermazione nella Laborem Exercens che è decisiva per una cultura del lavoro, che ha fatto emergere nella sua radicalità le posizioni che da sempre i cristiani vivono di fronte al lavoro cioè la posizione di essere succubi delle forze che concepiscono il lavoro in maniera borghese, oppure ridurre il lavoro ad una militanza. La Laborem Exercens definisce il lavoro una dimensione fondamentale dell'esistenza dell'uomo e credo che questa sia la parola più determinante perché attorno a questa affermazione non si può più svincolare via. Cosa significa che è dimensione fondamentale? Significa che ogni uomo è chiamato a viverla, dal lavoratore della grossa fabbrica alla casalinga. Non è possibile essere uomini se non si vive fino in fondo questa dimensione. Cosa significa vivere questa dimensione? Significa innanzitutto riscoprire la propria soggettività; per questo la centratura da far riemergere è l'uomo che lavora. Sono consapevole di affermare questo in un momento in cui, come ci diceva Marini molto bene, è sempre meno lavoro. Ma dico che anche uomini che hanno un lavoro è come se fossero disoccupati, perché vivono la loro condizione senza un senso, perché succubi di una mentalità; può essere una mentalità marxista, che idealizza il lavoro, o può essere una mentalità borghese, che ti offre la possibilità di un lavoro perché sarei qualcheduno nella società. A me sembra che la centratura, e lo ripeto con forza, stia proprio in questo: si riscopre il lavoro nella misura in cui riscopriamo la nostra umanità: chi sono io, cosa sono chiamato ad essere, qual è la mia responsabilità di uomo oggi. Certo io non so se riusciremo a controllare democraticamente lo sviluppo, se andiamo sempre più incontro ad un tipo di umanità che ci parcellizzerà. Quello di cui, però, sono altrettanto consapevole è che non posso non lavorare perché l'uomo riscopra un proprio significato, perché l'uomo ritorni ad essere padrone del proprio lavoro, sia l'uomo che lavora, sia l'uomo che non ha lavoro. Per questo allora parlare di lavoro oggi significa assumersi una grande responsabilità: la responsabilità di una creatività. Io non sono scandalizzato dei robot, anzi talvolta nella mia azienda ho dovuto lottare contro altri compagni del sindacato, perché vedevano la novità in termini tecnologici come una riduzione, come una espulsione. Perché non sono angosciato di questo? Perché sono consapevole che comunque si sviluppi la società, questa domanda esistenziale non può essere eliminata e il nostro compito esattamente ridar voce e contenuto a questo. Ma non sto facendo un'affermazione sentimentale. Anzi dentro la condizione oggettiva in cui siamo messi siamo chiamati a vivere tutta la nostra responsabilità, a tal punto che nuove forme di creatività possono far nascere nuove forme di lavoro, a tal punto che persone che vivono la loro professionalità veramente in maniera nuova (come purtroppo non emerge dai discorsi sulla professionalità che si fanno oggi), rendono la loro professionalità non un privilegio, ma una condizione per creare nuovo lavoro. Sto pensando all'esperienza di taluni amici che nel campo dell'informatica hanno messo a servizio la loro capacità professionale; ed è significativo questo, perché vuol dire che l'ideale non si stacca dalla realtà, ma proprio un ideale vissuto con questa consapevolezza ha reso capaci di creare nuove forme di lavoro. Può essere sintomatico, può essere una goccia, ma che 20-25 disoccupati aiutati dentro una compagnia abbiano trovato una nuova possibilità per la vita innanzitutto e per il lavoro, mi sembra un esempio particolarmente eloquente. Un'altra parola mi sembra decisiva in quello che stiamo dibattendo qui tra di noi oggi. E anche questa la Laborem Exercens ha fatto emergere con spessore, ci ha fatto percepire perché i lavoratori polacchi hanno chiamato il loro sindacato Solidarietà: appunto la parola solidarietà. Certo gli uomini del lavoro hanno sempre avuto come tensione e come valore questo. Forse proprio in questi anni abbiamo capito come questa esigenza profonda di solidarietà era poggiata su dei paletti troppo deboli, che la crisi che stiamo vivendo ha spazzato via. La solidarietà io credo che abbia la sua origine in una coscienza, e questa coscienza è la coscienza di un'appartenenza. Sono solidale con il mio compagno di lavoro perché come lui sono un uomo e come lui tendo al mio destino. È solo questa concezione di solidarietà che fa resistere di fronte alle difficoltà, che ti fa essere te stesso, totalmente legato all'altro pur dentro le difficoltà. Sto esattamente indicando un lavoro che abbiamo già cominciato a fare, un lavoro che vogliamo proseguire. È da qui allora il termine "Centri di Solidarietà". Brevissimamente, cosa vuol dire Centro di Solidarietà? Mi soffermo innanzitutto sulla parola Centro che non è casuale. Abbiamo voluto chiamare Centro perché in un mondo del lavoro sempre più disgregante, come ci è stato descritto poc'anzi, sempre più parcellizzato, dove gli uomini si vedono sempre di meno e mi sembra sintomatico l'esempio che faceva Rosati, costituire un centro vuol dire costituire un luogo in cui degli uomini vivono, perciò vuol dire costituire un luogo incontrabile da tutti. Perché il centro non è le mura, non sono le iniziative, ma il centro sono degli uomini che vivono appassionati all'ideale e che in forza di questo sono appassionati alla vita degli altri uomini. Per questo un fatto sintomatico che in un momento in cui anche chi da più anni vive dentro il mondo del lavoro, - le varie organizzazioni, le varie associazioni, i vari movimenti – è come messo in difficoltà dalle condizioni che cambiano, in pochi mesi i nostri Centri di Solidarietà hanno dato vita a decine, oramai quasi a centinaia di luoghi in tutt'Italia. Badate bene che chi li ha messi su non lavora nei grossi complessi, almeno la maggior parte, taluni, sono anche disoccupati, eppure questi centri sono luoghi di incontro per gente che vive nel piccoli studi, che magari lavora sul proprio calcolatore elettronico. Ma che cos'è che rende capaci di quest'unità? Una passione all'uomo e una gratuità, perché non si reggono in forza di nessun quattrino e non si reggono in forza di nessun tempo pagato, si reggono in forza di un volontariato, di una gratuità. Questi centri sono luoghi di incontro nelle nostre città, in tanti nostri paesi per cui gli uomini del lavoro possono ritornare ad essere tali, per cui altri giovani possono incontrare degli uomini, possono incontrare una possibilità di lavoro. Tre caratteristiche e concludo: la prima è che abbiamo costituito questi centri per gli uomini del lavoro; oggi qual è il bisogno del lavoro? Lo dicevo già prima, è duplice: il bisogno di dare un senso a chi il lavoro ce l'ha, per cui pur andando a lavorare non si senta disoccupato, e il bisogno del lavoro per chi non ce l'ha. Da qui la costituzione di cooperative, la costituzione di scuole che abbiamo chiamato scuole-lavoro, dove ti un mestiere e ti danno la possibilità di lavorare subito, l’incontro con imprenditori, con gli enti, affinché la gente possa ritornare a lavorare. Seconda caratteristica: lo diceva già prima, gli uomini del lavoro. Noi ci caratterizziamo per questo, vogliamo incontrare l'uomo nella sua globalità, vogliamo incontrare l'uomo non in un aspetto, in una dimensione, ma l'uomo nella sua totale globalità. Perciò un uomo che lavora è un uomo fatto di carne ed ossa, con la sua famiglia e i suoi problemi, con il suo bisogno di divertimento, col suo bisogno magari di sport. L'uomo, così come il Meeting di Rimini ce l'ha insegnato, deve essere incontrato nella sua globalità; per questo parliamo di uomini del lavoro. Per questo non a caso la Laborem Exercens parla di uomini dei lavoro; l'incontro con la globalità, per cui l'inserirli nei circuiti di spettacoli, di cultura. Terza ed ultima caratteristica: una presenza è incidente nella misura in cui sa creare una cultura, sa creare una mentalità. Non facciamo le cose tra di noi, non facciamo le cose per sentirci a posto rispetto alle problematiche di questa società, le cose le facciamo perché crediamo che siano un valore per noi e per ogni uomo, non per i cristiani solamente, per ogni uomo. La battaglia che s'è aperta oggi nel nostro paese è una battaglia culturale, una battaglia di mentalità, perché un'immagine di uomo è stata spazzata via e si tratta di ricostituirla: un uomo che sia tale, che sappia chiamare bene il bene e male il male. Atlantide, conosciuto oramai in tanti nostri paesi, è il nostro strumento di battaglia, una battaglia non per la difesa del proprio interesse, ma una battaglia perché vogliamo giudicare quel che capita nel nostro paese a partire da ciò che viviamo.
G. Rovati:
Il tempo è abbastanza tiranno, in questi incontri e, per poter consentire a chi è intervenuto in precedenza di fare una seconda tornata di tavolo, passerei subito la parola a Franco Marini, questa volta riprendendo un'espressione che lui ha usato e su cui a me personalmente interesserebbe provocatoriamente avere ulteriori chiarimenti. Marini ha parlato della necessità di un sindacato non mercantile, cioè di un sindacato non solo degli occupati, ma anche di chi cerca un nuovo lavoro: è questo uno degli spunti che credo potrebbe essere utile approfondire, purtroppo soltanto in cinque minuti.
F. Marini:
Voi capirete che cinque minuti sono pochi anche per chi ha capacità di sintesi, ma io sarò disciplinato tentando in questa nostra distribuzione di compiti di svolgere il mio ruolo. Io ho proprio l'ossessione di chi è impegnato a misurarsi su questi temi giorno per giorno, per vedere come migliorare la situazione, rispetto a questa difficoltà di creare lavoro nel nostro paese. A Rovati voglio dire, per tornare poi un attimo su questo secondo punto che, quando io parlo di sindacato non mercantile, di sindacato non egoistico, non schiavo di una ideologia della competizione che è forte in questa nostra società, ho davanti le argomentazioni di parte degli imprenditori. Nelle più recenti vicende sindacali, prima dell'avvio del rinnovo dei contratti si diceva: neanche dieci mila lire di aumento nel triennio, non si reggono rispetto alle difficoltà di rapporti sui mercati internazionali. Quando il sindacato, ha fatto uno sforzo sempre con l'occhio a questo problema enorme, morale, civile del lavoro, prima ancora che economico, e ha cercato di impostare le piattaforme anche nella direzione di una contrattata riduzione degli orari di lavoro (che resterà un obiettivo permanente di chi agisce per governare questi meccanismi), ha risentito da parte di alcune organizzazioni padronali i discorsi di cinquant'anni fa, quando la settimana lavorativa era di settanta ore, che cioè è impossibile. Ma l'introduzione della macchina, del robot, di tutte le nuove tecnologie non si governa difendendo i posti di lavoro senza la riduzione dell'orario. Inoltre il rimettere al centro di tutta la politica salariale del sindacato, come abbiamo iniziato a fare noi con una battaglia di tre o quattro anni, la famiglia: questi sono esempi del modo di reagire al tentativo di mercantilizzare l’azione sindacale, per renderla funzionale ai miti e alle storture di un certo modo di concepire della società borghese; da non condannare, perché l'industrialismo ha liberato anche l'uomo, sono le storture dell'industrialismo che debbono essere condannate. Affermare questi valori sia rispetto al lavoro sia rispetto al modello di vita dell'uomo italiano che è la famiglia, difenderlo questo valore anche con il salario, perché l'uomo vive lì, si confronta lì, lì ha i figli, lì ha rapporti, rendere funzionale alla famiglia e non più al salario individuale eventuali necessità di revisione del sistema previdenziale e del sistema sanitario: questo è un modo di fare sindacato non mercantile. Ultimissima riflessione. Il punto centrale delle preoccupazioni che noi oggi abbiamo qual è? Qui continua una polemica, si dice: "se volete difendere il lavoro la strada è solo la ripresa degli investimenti produttivi", cioè che riprenda, rispetto alle difficoltà interne ed estere, il meccanismo. Questo è vero, cioè il meccanismo deve riprendere, noi non è che siamo contrari ad uno sforzo di questo genere, ma ci sono spazi da utilizzare subito, nel rapporto con le controparti padronali e del Governo. Nel nostro paese rispetto anche all'evolversi della mentalità e della disponibilità di giovani, accanto a questo sforzo di difesa del sistema industriale, di risanamento che non aumenterà globalmente, purtroppo, i posti di lavoro ci sono spezzoni di attività, possibilità nuove trascurate per il passato, utilizzabili per centinaia di migliaia di posti di lavoro; noi dobbiamo spingere per creare questa spinta politica, perché si metta mano a questo progetto per il lavoro giovanile negli spazi che sono stati ricordati prima da me e da Rosati e che riguardano centinaia di migliaia di posti di lavoro, anche se non a tempo indeterminato. Questo è il modo, l'unico, forse possibile, accanto allo sforzo di risanamento più generale, di raccogliere la domanda che viene dai giovani fuori dai circuiti produttivi di Napoli, di Palermo, di Roma. Credo che sia uno degli obiettivi che questo sindacato oggi deve avere.
G. Rovati:
Rosati aveva già preannunciato un prosieguo al suo intervento e quindi lo inviterei a concludere quanto aveva pensato.
D. Rosati:
Sì, anche se io mi trovo in difficoltà tra il dire quello che avevo stabilito di dire e l'esigenza di riprendere o sottolineare alcuni spunti che sono venuti dagli interventi che mi hanno preceduto. Io sono convinto che negli ultimi duecentocinquanta anni accanto a cose disdicevoli altre buone ne sono fiorite, penso ad esempio alla democrazia politica; credo che dobbiamo usare nella valutazione della storia come nell'attualità il criterio del discernimento che ci presenta sempre la possibilità di estrarre il bene da quell'impasto di bene e di male che è la storia; così come mi piacerebbe approfondire il concetto di solidarietà, un concetto di solidarietà dal quale non possiamo tenere estranea la tradizione del movimento operaio. Il concetto di solidarietà in una fase di crisi impone una cultura del differimento dei benefici, ma anche chi accumula dal punto di vista capitalistico, realizza un differimento dei benefici. "Accumulo, investo, riscuoterò domani" ma chi fa questo lo fa per sé per il proprio interesse singolo, mentre il Movimento operaio ha sempre realizzato una cultura del differimento dei benefici non solo per sé, ma, come diceva Marini, per un progetto di società in cui tutti potessero star meglio. D'altra parte una scelta per il tempo s’impone e so del resto che voi mi aspettate anche un po' al varco tenuto conto di qualche scambio di cortesie che c'è stato ultimamente tra di noi; cose del resto naturali, perché se non c'è dibattito non c’è crescita e vorrei utilizzare questi pochi minuti per dirvi con franchezza il pensiero mio e della mia organizzazione sul quadro politico e su quello che intendiamo noi per riforma della politica. Avrete compreso allora che noi siamo interessati, non tanto, ad operazioni di consolidamento e restauro di questo o quel partito e tanto meno interessati ad una operazione di fondazione di nuovi partiti, ma siamo impegnati a far crescere, questo è un invito, a far crescere nei centri vitali della società, nelle associazioni, nelle comunità, nei circoli una consapevolezza nuova, più impegnativa: quella di essere soggetti e protagonisti a pieno titolo delle vicende politiche locali e generali. La riforma della politica, in altri termini, per noi passa per una riforma della società; una società più matura ed esigente costringerà i partiti ad essere meno portati all'occupazione del potere e spesso all'arroganza del potere. Noi mettiamo a disposizione anche vostra l'esperienza delle ACLI, perché non è stato agevole per la mia organizzazione giungere a questa scelta, giungere a concludere che bisogna lavorare per la promozione di un movimento della società civile, per un'autentica diffusione dei poteri e delle responsabilità. Nella nostra storia noi abbiamo conosciuto e praticato anche altre esperienze come quella, ad esempio, legittima di operare dall'esterno come movimento e dall’interno come gruppo di pressione della Democrazia Cristiana cercando di rigenerare quel partito. Non mancarono i successi, come la realizzazione dell'incontro storico di governo tra la Democrazia Cristiana e il partito Socialista, parlo dell'inizio degli anni '60. Ma non mancarono le delusioni e gli insuccessi sia dentro che fuori dell’ambito democristiano. L’esperienza delle ACLI nel bene o nel male è comunque ormai una pagina incancellabile della storia dell'impegno sociale e politico dei cattolici del nostro paese. E io mi permetto di dirvi che è solo il ricordo delle molte amarezze vissute che mi fa qualche volta essere un po' severo nei giudizi verso la generosità e l'entusiasmo di chi legittimamente pensa di affermarsi là dove noi non siamo riusciti. Non c'è né invidia, né malanimo, ma quando vediamo presentate come cose nuove proposte che da noi sono state già sperimentate negativamente abbiamo il fraterno dovere di segnalarlo. Naturalmente tenendo conto della differenza di tempo e di luogo che può persino, in teoria, consentire che si riesca là dove prima si è fallito e in questo senso si può anche dare una mano. E questo perché siamo convinti che se dimentichiamo il nostro passato siamo in un certo senso condannati a riviverlo. Al contrario, e concludo, oggi io sono convinto che non si riesca a governare il presente e a governarlo democraticamente, se non ci si sforza di progettare il futuro. "Uomini scimmie robot" del 2000 debbono potersi muovere in un mondo migliore di quello in cui viviamo noi "Uomini scimmie robot" perché in ciascuno di noi c'è un po' di uomo, un po' di scimmia e anche un po' di robot, degli anni '80. Ma per progettare questo mondo nuovo nel quale si può davvero realizzare l'unità del genere umano occorrono a mio giudizio, cari amici, almeno due condizioni: l'umiltà della ricerca, l'unità della ricerca. Rispetto al passato possiamo essere più o meno dotti o ritenerci tali, rispetto al futuro siamo tutti ignoranti; riconoscerlo e mettersi nella disponibilità di apprendere nuovi linguaggi, di trasmettere e ricevere nuovi segnali, di allargare l'orizzonte verso nuove conoscenze. E la ricerca deve essere comune, aperta a tutti i contributi, a tutti gli apporti perché si tratta dell'impresa di tutta l'umanità che affronta l'incognita di questo nuovo esodo. Il nostro compito di uomini del tempo è quello di costruire con tutti gli uomini del tempo la civitas humana sui principi e sui valori, non abbiamo dubbi, ma non sembri segno di debolezza, il riconoscere che sul piano pratico bisognerà ancora accumulare conoscenza, esperienza ed anche sofferenza. Nell'ordine delle soluzioni pratiche sento che questo dovere di ricerca, di confronto, di accoglienza mi è imposto dalla mia stessa professione di fede. Rispetto agli altri, infatti, sento il mio essere cristiano solo come un dovere in più; se lo presento come un privilegio sarò giudicato dura mente ed a ragione, se rifiuto il mio servizio, sarò colpevole due volte verso la mia stessa fede e verso i miei fratelli. Ringrazio dell'attenzione.
G. Rovati:
Anche questo IV Meeting ringrazia tutti quelli che hanno portato di questo tavolo il loro contributo finora. Toth facendo riferimento a questo tema ha toccato un'immagine suggestiva ponendoci di fronte a una possibile alternativa: l'essere epigoni tristi, una decadenza che si sta consumando o iniziatori di un nuovo ciclo. Se potesse dirci qualche cosa sui motivi di questa speranza che lui ha anche adombrato gli saremmo grati.
L. Toth:
Io penso che nella cultura cattolica ci sia stata in passato, ci sia ancora oggi una mentalità del cedimento e della decadenza. Cioè una coscienza di declino quasi inevitabile dei valori religiosi e quindi di inginocchiamento rispetto al processo di secolarizzazione. Quello invece di cui io sono convinto e che la vostra presenza mi conferma, così come l'esperienza che io vivo all'interno del movimento cristiano lavoratori, mette in rilievo il dovere di acquisire questa coscienza di vivere un cambiamento d'epoca. Perché allora tutti i problemi che noi affrontiamo e che noi discutiamo nei nostri incontri esigono una filosofia del cambiamento. Infatti il pensare che queste cose avvengano senza che ci sia dietro una linea direttiva di pensiero evidentemente è folle; significa privarci della possibilità di guidare il cambiamento. Ecco allora che da questa coscienza di vivere il cambiamento deve nascere anche la nostra consapevolezza di dover avere una progettualità e una filosofia del cambiamento. Negli anni '50 i cattolici italiani, e diciamo anche i cattolici in generale in Europa, nell'America Latina, hanno ritenuto di poter coniugare felicemente la democrazia liberale e l'insegnamento sociale cristiano. Su questo hanno assicurato all'Europa occidentale il periodo più lungo di pace, di prosperità che questo continente abbia conosciuto. Ebbene, di fronte però a un processo di secolarizzazione che si è verificato negli ultimi anni, oggi c'è una reviviscenza di un laicismo di massa che è intimamente antireligioso e voi vivete proprio come giovani ed è a questo tipo di materialismo e di laicismo di massa che voi vi ribellate. Ecco perché oggi il compito dei cattolici nel sociale, come nel politico, si presenta più difficile di quello dell’indomani della seconda guerra mondiale, perché allora si trattava di ricostruire la democrazia liberale dalle rovine fatte al totalitarismo fascista e nazista, oggi il discorso è più difficile, più problematico perché il passaggio dalla società industriale alla società dell'informatica pone dei problemi molto più sottili e molto più complessi.
G. Rovati:
Passiamo ora la parola a Ivan Guizzardi.
I. Guizzardi:
I Centri di Solidarietà contengono una originalità di posizione, di giudizio rispetto al momento storico che stiamo vivendo, perché le cose, gli avvenimenti, i fatti che avvengono non si possono non leggere nella storicità del momento che si pongono. Due considerazioni voglio fare per questo: la prima è che noi non siamo partiti per fare nessun progetto sulla società e tanto meno sul lavoro. Noi partiamo (e posso sembrare banale in questa ripetizione, ma credo sia la nostra originalità) da ciò che da sempre ci definisce: il desiderio di rendere l'incontro cristiano un fatto vivibile, incontrabile per ogni uomo nella storicità del momento in cui viviamo. Questo è ciò che ci rende umanamente comprensibili e interessanti. Non voglio difendere le mie qualità, ma dentro l'azienda in cui ho vissuto per quindici anni di tutto potevano dire di me, fuorché non fossi una persona che poneva delle provocazioni. Il compito è esattamente questo: rendere l’esperienza cristiana un fatto provocante per la vita dell'uomo. Non sto parlando di santini, sto parlando di uomini che vivono nella storia, che si fanno concretamente incontro, si rendono concretamente percepibili, visitabili, dentro la storia attuale che viviamo noi. Questo è ciò che ha dato origine a un modo originale di affrontare l'assistenza, le cooperative, il lavoro. Questo è ciò che dà consistenza al nostro lavoro d'oggi. Non c’è altro motivo. La seconda considerazione che voglio fare, perché potrebbe sembrare riduttiva questa, è che proprio nella misura in cui andiamo a fondo a questo noi incontriamo ogni uomo nella sua originalità, nel suo desiderio più profondo di verità. Questa non è l’affermazione di un discorso, ma è l'affermazione di una posizione, di uno che si pone, di uno che costruisce, di uno che passa il suo tempo insieme a venti disoccupati e non fa loro il discorso, ma affronta il lavoro, di uno che passa il suo tempo assieme a dei giovani dentro il loro bisogno, dentro la loro concretezza, non facendogli il discorso. La seconda considerazione è che noi siamo ben consapevoli di essere inseriti dentro un contesto, dentro una condizione precisa. Io non vorrei aver creato un equivoco su quello che dicevo prima sull'aspetto della solidarietà. Siamo ben consapevoli che il movimento dei lavoratori ha sempre espresso un desiderio, e non solo un desiderio, ma anche delle forme, delle opere di solidarietà. Noi diciamo che non possiamo non portare il nostro contributo, che è un contributo di originalità. Io affermavo sempre che la solidarietà non la smettevo quando smettevo la tuta alle cinque e venti di sera. Per me la solidarietà, quello che ho iniziato a vivere con i miei compagni durante le otto ore, non può non proseguire nella mia vita come tensione, come preoccupazione, come affronto del comune vivere. E questa è un'originalità. Così come non posso dimenticarmi che sono appassionato alla vita di un uomo non per l'idea che ho io dell'uomo, ma proprio per quello che l'uomo è, così come Dio l'ha voluto. E questo l'ho imparato nell'esperienza cristiana. Non è censurare nulla e nessuno; è semplicemente portare la propria originalità, che è un'originalità di posizione, di giudizio, ma è anche un'originalità di affronto della storicità. Perciò i Centri di Solidarietà non sono alternativi al sindacato, tutt'altro; anzi noi diciamo che attraverso i Centri di Solidarietà costruiamo un uomo che sa affrontare i bisogni, le esigenze, le tematiche, così come ci diceva Marini. È importante questo. Non sono in alternativa a nulla; è il luogo dove si costruisce un uomo, si aiuta a far emergere la verità di un uomo che sa affrontare la sua storia, senza buttar via nulla, ma valorizzando tutto ciò che c’è.