EDUCARE PER COSTRUIRE. CICLO DI INCONTRI PROMOSSO DALLA COMPAGNIA DELLE OPERE

Più società meno tasse:
la sussidiarietà diventa reale

In collaborazione con Unioncamere

Mercoledì 25, ore 11.30

Relatori:

Sergio Billè,
Presidente Confcommercio

Nicola Rossi,
Consigliere economico del Presidente del Consiglio del Ministri

Giulio Tremonti,
Docente di Diritto Tributario presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia

Billè: Per impostare la discussione sull’argomento di questo incontro, è necessario guardare all’intero problema del sistema economico italiano che oggi soffre di una malattia, speriamo curabile, ancorata ancora a leggi e strategie che appartengono al passato e che poco hanno in comune con i pilastri di una economia moderna. Una malattia che affonda le sue radici nel burocratismo, nello scarso rispetto dei principi della libera concorrenza, nell’assenza di considerazione verso quelle che sono ormai le leggi dell’economia mondiale. Statalismo, inefficienza, inadeguatezza della politica, sono ostacoli alla realizzazione di riforme che servono all’economia.

Siamo entrati in Europa ma per molti versi è come se ne fossimo ancora rimasti fuori: abbiamo un’inflazione doppia rispetto alla media europea, le nostre imprese non riescono a essere competitive perché i loro costi sono doppi e tripli rispetto a quelle delle aziende degli altri paesi ma continuano a pagare gli enormi costi del deficit prodotto dalla mancate riforme. Il fatto è che paghiamo molte tasse ma non riusciamo ad avere servizi dallo Stato; paghiamo pesanti contributi previdenziali che non bastano neppure, se entriamo in una corsia d’ospedale, a curarci; paghiamo molte tasse, ma non riusciamo ad avere una giustizia decente, una scuola che offra ai giovani una possibilità di lavoro, un sistema che consenta alla nostra società di produrre nuovi posti di lavoro, di essere competitiva, di assicurare una degna pensione alle prossime generazioni.

Ecco perché riformare il sistema e riformarlo subito è diventata un’esigenza inderogabile per garantire un futuro degno di questo nome. Questo è un compito soprattutto politico. Per esempio il tema delle pensioni viene oggi affrontato da chi fa politica o sindacato con effetti simili a quelli che produce la labirintite; dopo mesi di dibattiti e di confronti non si capisce ancora che cosa si vuol fare, in quale direzione si vuole andare, come risolvere i problemi che sono già reali e che bisogna affrontare oggi perché non diventino irrisolvibili domani. L’ultima azione del governo riguarda le tariffe, postali e ferroviarie. Il problema è che quest’azione non migliora i servizi e non raffredda l’inflazione: i consumi diminuiscono e le aziende, costrette a tenere fermi i prezzi, rallentano l’economia e arrestano di fatto anche lo sviluppo dell’occupazione. La politica ha preferito non affrontare l’enorme problema energico adottando sempre strategie basate su scelte contingenti senza mai cercare strade che consentissero di alleggerire attraverso fonti alternative un peso che era diventato insostenibile. Purtroppo soluzioni come quella per riparare al rincaro dei combustibili finiscono sempre in una "commedia degli equivoci".

Rossi: Ci sono molte maniere di interpretare il tema che ci è stato sottoposto oggi, io ne vorrei scegliere essenzialmente due. La prima è quella di leggere lo slogan "Più società meno tasse" come una rappresentazione sintetica di quella che è stata l’Italia degli ultimi decenni: un paese in cui le scelte di politica economica hanno condotto da un lato ad un debito che si andava accumulando in maniera spesso incontrollata e dall’altro lato ad una riduzione del grado di coesione della società. "Meno società e più tasse" dunque. Il risultato finale di tutto questo non lo si vede tanto, o non lo si vede solo, sul fronte fiscale e direttamente su alcuni indicatori sociali, ma dal fatto che l’Italia arriva all’inizio degli anni Novanta con un volume di capitale fisico, umano e sociale largamente inferiore a quello del dopoguerra e certamente largamente insufficiente per poter competere nello scenario di questi anni Novanta stessi. Per fare solo alcuni esempi: quando ero ragazzino c’erano 60 lire di ponti, strade, tralicci, aeroporti per ogni 100 lire di PIL mentre all’inizio degli anni Ottanta se ne ritrovano solo 40; il sistema educativo mi offriva una qualità dell’istruzione tale che permetteva di compararci, almeno in alcune fasce, con altri paesi europei e non europei, mentre oggi su alcuni segmenti della scuola siamo largamente indietro. Lo stesso può dirsi certamente per quanto riguarda il capitale sociale: ho trovato impressionante osservare come in Italia, molto più che in altri paesi europei, il livello di disuguaglianza dei redditi sia cresciuto negli anni Settanta e Ottanta a volte in maniera anche rilevante, così che la coesione sociale veniva minata da quegli stessi strumenti che si proponevano di risolverla o di sostenerla.

La seconda chiave di lettura che si può dare allo stesso slogan è il fatto di pensare alla società non necessariamente come all’intervento dello Stato ma alla società come qualcosa capace di auto organizzarsi e pensare. Anche da questo punto di vista, gli ultimi 30-40 anni della storia italiana hanno rappresentato la sovrabbondanza di una società etero-organizzata, ma non auto organizzata. Entrambi i due modi di vedere individuano il nodo dei problemi italiani che in questi anni stiamo cercando di risolvere.

Tremonti: "Più società meno tasse, la sussidiarietà diventa realtà". Su questo testo si possono formulare due ipotesi: che sia una tesi o che sia davvero un ipotesi. Che sia una tesi, cioè che la sussidiarietà stia davvero diventando realtà, non mi sembra vero. Credo invece che sia solo un’ipotesi: un’opzione per le cose fattibili, non una constatazione delle cose fatte.

Il rapporto tra fiscalità e sussidiarietà può essere schematicamente posto tra due estreme radicalità. La prima: zero tasse portano a più sussidiarietà, infinita sussidiarietà. È l’ideale tipico dell’anarchia e non funziona perché la sussidiarietà contiene lo Stato, presuppone i mezzi finanziari per lo Stato e quindi contiene anche tasse. La radicalità opposta è quella dogmatica e giacobina: le tasse sono giuste per il solo fatto che lo Stato le impone, non è quindi importante che lo Stato faccia bene o male.

Il problema è mettersi nel mezzo tra questi due estremi, trovare un giusto equilibrio e stabilire quante tasse sono necessarie e quante non sono necessarie, quanto di tasse è sufficiente per fare funzionare la sussidiarietà e quanto, invece, è eccessivo. Per risolvere questo problema, cercare il giusto mezzo, bisogna passare attraverso un paradosso: combinare la sussidiarietà con la fiscalità; la fiscalità, infatti, è il modello, l’archetipo del meccanismo autoritario attraverso il quale lo Stato impone per legge un sacrificio patrimoniale che fa a pugni con la sussidiarietà.

Ci sono due formule per realizzare questa combinazione: la prima è ridurre le tasse, la seconda è introdurre nelle tasse dei meccanismi di riduzione e di detrazione. Il punto critico relativamente alla politica fatta in questo decennio riguarda proprio la riduzione delle tasse: il furore fiscale è andato oltre il previsto. Proprio perché le entrate fiscali vanno sempre oltre le previsioni si introduce demagogicamente la promessa della restituzione. Credo che giustizia sia non restituire a discrezione il maltolto, ma evitare di "maltoglierlo".

Per ridurre la pressione fiscale, tra l’altro, è sufficiente ridurre le aliquote. Ci sono tre ipotesi che, ragionevolmente, consentono di supporre che con questa riduzione il bilancio pubblico non vada a rotoli, ma anzi si risani: se le aliquote sono più basse la gente ha più soldi in tasca e fa consumi o risparmi; aliquote troppo elevate sono la vera causa dell’evasione perché se la trasgressione è diffusa c’è un difetto legislativo, quindi sono le leggi che devono cambiare e non tentare di cambiare la realtà; ridurre i meccanismi di riduzione e di detrazione non consente un gettito più ampio, ma una spesa sociale per lo Stato più alta. È quindi solo un pregiudizio quello che muove certa sinistra a seguire una politica restrittiva.

Il modello dello Stato nazionale moderno giacobino socialdemocratico che si è costruito in questi anni è un modello basato sul mito e sull’ossessione della legalità. Abbiamo una produzione legislativa che io stimo mensilmente pari a 200 metri lineari, quindi 200 metri di nuove leggi o decreti legge o decreti delegati ogni mese. Non è solo un fatto di folclore giuridico, è un fatto politico significativo: lo Stato insegue il cittadino definendo come devono essere sviluppati e regolamentati gli aspetti minuti e minori della sua vita, come se fossero continue e benevole applicazioni dello Stato di polizia. Oltre a stabilire che un fagiolo non è un fagiolo europeo se non è di due centimetri, la normativa europea stabilisce come debbano essere fatti gli impianti elettrici in casa; la legislazione non ha nessi con l’elettricità in casa, sarà il cittadino, nella sua responsabilità ad organizzare la sua casa in funzione di quello che ritiene corretto e giusto, eppure la normativa si esprime in tal senso. È l’eccesso di legge che comprime la sussidiarietà; la vera formula per definire la sussidiarietà è quanto debba essere definito dalla legge nell’interesse generale e quanto invece deve essere definito tra le parti in responsabilità. Se non c’è equilibrio in questo rapporto lo stato rischia di comprimere le potenzialità della società, come nel caso della riforma sanitaria del Ministro Bindi.