Giovani e mondo del lavoro
Venerdì 29, ore 15.00
Relatori:
Danilo Longhi, Presidente di Unioncamere
Ivano Spalanzani, Presidente di Confartigianato
Tiziano Treu, Ministro del Lavoro
Spalanzani: La categoria degli artigiani è una delle categorie importanti per lo sviluppo del paese, dell’economia e dell’occupazione, come mostrano rapidamente i seguenti dati: 1 milione e 350 mila artigiani, 400 mila collaboratori familiari, 1 milione e 300 mila dipendenti. Sono dunque circa 3 milioni e 100 mila le persone che lavorano nell’artigianato. Si tratta di persone assolutamente produttive, che vivono in un ambiente che è il laboratorio, diventato casa, perché c’è un rapporto interpersonale, familiare, umano del titolare con i propri dipendenti e non c’è assolutamente divisione tra proletari e padroni, ma possibilità per la persona di esprimersi mediante il lavoro con produttività e creatività.
Il nostro paese non ha materie prime, ha solo il turismo, al massimo i marmi di Carrara... tutto il resto dipende dalla creatività, fantasia, voglia di lavorare, intraprendenza, intelligenza: questa è la nostra grande ricchezza. Questa grande ricchezza spesso viene bloccata mediante burocratismi di Stato, centralismi sia a livello romano che a livello regionale. Rischiamo così di bloccare l’Italia. Non è una questione di contrapposizione nei confronti del governo o del ministro del lavoro, ma di questioni sostanziali per il nostro paese: oggi un imprenditore, un giovane che vuole iniziare un’attività artigianale se non può iniziare tramite prestiti d’onore, o lavori socialmente utili, se vuole iniziare un’attività da solo deve essere un temerario, rischiare al di là dello stesso rischio imprenditoriale.
Le linee di condizione di estrema difficoltà per iniziare un’attività imprenditoriale sono varie: la questione fiscale, con aliquote del 60/65%; i problemi della sicurezza sul lavoro, regolati da una legislazione massiccia; le leggi sui rifiuti, con multe di 60 milioni perché non si è riempito un modulo; una serie di problemi risolvibili solo da consulenti - avvocati, commercialisti, medici. Così ci si stanca di lavorare e si ricorre a tre possibilità: o si va all’estero a lavorare, o si va nel sommerso oppure si rimane nell’attesa, senza sviluppo e senza prospettiva alcuna. Questo è il discorso fondamentale; ci sono in questo Paese le massime tutele per i salariati e le minime tutele per i non salariati.
Il ministro attuale quello che poteva fare lo ha fatto, per esempio gli imprenditori ora possono trattare con i sindacati per l’apprendistato, la formazione lavoro, i contratti di tirocinio. Ma c’è un problema che non è stato risolto: la flessibilità nel mercato del lavoro. Nell’ambito della piccola azienda, c’è la famigerata legge 108 per cui l’artigiano non può più licenziare. La soluzione di questa rigidità è che, specialmente nel Mezzogiorno, nessuno assume e si crea lavoro sommerso. In Italia infatti esistono 500 mila miliardi di lavoro sommerso, prodotto interno lordo nascosto: se solo la metà fosse evidenziato, saremmo in Europa da dieci anni. Si pensa che se le aziende non lavorassero nel sommerso non potrebbero lavorare: questo non è vero, è vero invece che se c’è un 20% di aziende che lavora alla luce del sole e che ha di fianco l’80% di aziende sommerse, anche questo 20% di aziende dovrà chiudere e entrare nel sommerso.
Il prestito d’onore e i lavori socialmente utili - che ho sentito criticare dagli stessi sindacati - tentano di porre rimedi, ma sono solo palliativi: abbiamo una generazione che si sta abituando a vivere senza lavorare, che quando avrà un lavoro non riuscirà ad adattarsi alla nuova realtà. Perché, invece, non si creano le condizioni affinché i ragazzi inizino una attività senza dover passare per i burocratismi di Stato? Defiscalizzare chi inizia un’attività è perlomeno sensato, ed è una proposta per dar lavoro a tutti.
Longhi: Offrirò un contributo che viene dall’esperienza di un’istituzione che è impegnata ad assistere il mondo delle imprese e dell’economia: le Camere di Commercio.
Le Camere di Commercio registrano oggi oltre 5 milioni di imprese, e sono impegnate a dare servizi, ma soprattutto informazioni per rompere quella incomunicabilità che, forse, è uno dei mali più gravi del nostro tempo, incomunicabilità tra imprese e sistema formativo, tra scuola e formazione professionale, tra università e offerta del lavoro. Questa incomunicabilità è particolarmente vera nei riguardi dei giovani.
Nessuno oggi si fa illusioni sul fatto che la ripresa economica produca automaticamente nuova occupazione. Il rischio di quella che è stata definita la ripresa senza lavoro si registra del resto in tutto il continente europeo. Per evitare questo rischio non sono più sufficienti le analisi e le ricette della macroeconomia; è tramontato, per esempio, il dominio indiscusso dell’economia di scala che era proprio delle grandi imprese. La programmazione, che era al vertice del fordismo tipico appunto delle grandi imprese, oggi di fatto non premia più. Oggi è necessaria la flessibilità propria della piccola e media impresa, capace di cogliere le nicchie di mercato e in grado di offrire nuove opportunità del lavoro. Però vi è sicuramente una distonia: tutto il sistema informativo e la formazione professionale sono orientati su profili che non sono più richiesti dalle imprese, e che riguardano più la grande impresa che non la piccola e media impresa. L’artigiano, il commerciante, il piccolo industriale, quando richiedono una collaborazione non la richiedono per un profilo professionale specifico: un lavoratore oggi deve poter svolgere più incarichi, non è sufficiente l’esperienza, legata per esempio a fatti finanziari di un’impresa o alla conoscenza di modalità per esportare, deve conoscere di fatto tutto.
Il sistema camerale sta spingendo, e stiamo assistendo a questo fenomeno da almeno un decennio, verso uno spostamento di popolazione attiva dall’area del lavoro subordinato all’area del lavoro autonomo. C’è un dato sul quale occorre riflettere profondamente: una persona su quattro in attività lavorativa è imprenditore. È da questa lettura della società italiana che occorre partire per programmare il tema della formazione professionale. Secondo una ricerca che il sistema camerale ha avviato con il contributo del Ministero del Lavoro, e della Comunità Economica Europea, nei prossimi due anni usciranno dalle imprese circa due milioni di lavoratori, dei quali circa 500 mila per ragioni di turnover, altri per trasformazioni all’interno delle imprese. Sarà la piccola e media impresa, ancora una volta, a richiedere occupati: nella piccola impresa la percentuale è di almeno 2 punti in più di differenza tra chi esce e chi entra; i laureati, per esempio, passeranno dal 4 e 5% al 7,5%, con notevoli prospettive anche per quanto riguarda i diplomati. Un sistema che abbiamo sperimentato suggerisce che occorre mirare alla formazione professionale proprio per rispondere alla domanda delle imprese, una domanda di lavoro alla quale non è possibile dare una risposta. Il paradosso è che la piccola impresa, che richiede giovani preparati, non ha le risorse sufficienti per fare formazione da sola; la grande impresa potrebbe avere le risorse per fare formazione ma non assume. Il tema della formazione diventa quindi fondamentale, come una sorta di momento assicurativo dell’impresa: formazione professionale o apprendistato che sia. Il 30% delle figure richieste dalle imprese denunciano difficoltà di reperimento sui mercati locali: questo è il problema che dobbiamo affrontare.
Treu: In questo momento, la prima questione sullo scenario del mercato del lavoro è la necessità di investire di più in quella risorsa fondamentale che è la testa: formazione, ricerca, inventiva. Questo è fondamentale per tutti, anche per le persone di mezza età. Il futuro del lavoro e della ricchezza sarà sempre più la capacità di sapere cambiare senza subire il cambiamento: non basta farsi i calli nelle mani, bisogna sempre più usare le risorse umane più nobili. Qui è l’investimento massimo: studiare.
Per quanto riguarda le difficoltà burocratiche legate a questo tipo di investimento, la prima flessibilità è nell’atteggiamento della persona. Il fatto che l’Italia abbia poca mobilità è un fatto anzitutto culturale. I nostri giovani sono troppo attaccati alle sottane delle madri, sono troppo attaccati al titolo di studio e poco alla capacità, alla voglia di muoversi. I miei venticinque anni di insegnamento mi hanno convinto di questo; dunque, anche qui dobbiamo investire. La nostra società è ancora troppo abituata al fatto che l’istruzione coincide con il titolo di studio. Fortunatamente, la quantità di investimento nell’istruzione cresce, nel senso che i giovani hanno una scolarizzazione maggiore di quello che dicono i dati formali. L’Italia non ha ancora i sedici anni di scuola dell’obbligo, quando la Cina adesso ha i diciotto anni di scuola dell’obbligo.
La seconda questione riguarda la semplificazione, la liberalizzazione, il decentramento, rispetto all’organizzazione del mercato del lavoro. L’Italia ha una storia di centralismo di decenni ed ha una storia anche di legislazione, di burocrazia, un peso storico che abbiamo e che dobbiamo progressivamente cercare di ridurre. Stiamo cercando di decentrare l’organizzazione del mercato del lavoro: già in parte abbiamo cominciato a decentrare come mostra l’esempio della Regione Lombardia. Molto più difficile è l’opera di semplificazione, giustamente richiesta da molti. Semplificare è molto più difficile che complicare. Identificati cento procedimenti amministrativi, abbiamo cercato di scegliere proprio quelli che servono per l’economia, per la vita economica, e quindi per favorire la nascita di imprese. Sono complicatissimi, li abbiamo esaminati, li abbiamo sezionati in decine e decine di passaggi. È tanto difficile perché questi procedimenti sono nati in centinaia di anni, ognuno ha aggiunto del suo, magari a fin di bene; alla fine abbiamo queste enormi "salsicce" di passaggi burocratici che sono infernali.
La terza questione riguarda i lavori sempre più diversi. Tutti i lavori che sono in crescita sono lavori che non erano usuali, lavori di tipo sempre più misto, che non si capisce se siano autonomi o se dipendenti, perché sono un po’ più autonomi di quelli dipendenti. Si tratta di lavori nei servizi nuovi alle persone, alle imprese ma anche nei servizi tradizionali di qualità. Dobbiamo prepararci ad avere una sperimentazione continua nel modo di cercare lavoro; dobbiamo insistere sui lavori di alta qualità e di alta tecnologia. Se l’Italia non sta in questo campo, perde il passo con le nazioni progredite e questo impoverisce tutti. I lavori di high-tech sono ad alta capacità distruttiva di lavoro ma li dobbiamo fare perché altrimenti perdiamo il passo con le nazioni progredite. Tutti dobbiamo decidere di lanciare i nostri sforzi, i nostri investimenti sui lavori ad alta tecnologia che sono trainanti ma che non danno occupazione. L’assistenza agli anziani, agli non autosufficienti, l’assistenza ai bisognosi, la cura delle città, dei musei è un’altra zona enorme di sviluppo del lavoro futuro, una delle grandi piste del futuro del lavoro.
L’ultima questione su cui voglio insistere è il fatto che il lavoro è troppo caricato di costi. Negli ultimi decenni, non solo in Italia ma anche in tutta Europa, è stata fatta una politica che ha caricato tasse e contributi sociali sul lavoro. Questo è un potente incentivo alla frode, al lavoro nero. Questo problema va affrontato: come Ministero del Lavoro possiamo e vogliamo fare qualche cosa; è chiaro che la riduzione di questi pesi si può fare gradualmente. In questo dobbiamo essere molto europei, perché essere europei non è solo conoscere e analizzare i numeri di Maastricht, che sono ossessivamente ripetuti, ma anche cercare una diversa distribuzione dei carichi.