EDUCARE PER COSTRUIRE. CICLO DI INCONTRI PROMOSSO DALLA COMPAGNIA DELLE OPERE

Verso un’Europa sotto la mezzaluna? Immigrazione e dintorni

Mercoledì 25, ore 18.30

Relatori:

Livia Turco,
Ministro per la Solidarietà Sociale

Marcello Pacini,
Direttore della Fondazione
Giovanni Agnelli

Samir Khalil Samir,
Docente presso la Saint-Joseph University di Beirut e presso il Pontificio Istituto Orientale di Roma

Turco: Un tema come quello dell’immigrazione si presta di più a scontri che ad approfondimenti. Cercheremo dunque di affrontarlo con rigore.

Anzitutto, l’immigrazione è una risorsa se governata bene: il nostro sistema economico ha bisogno dell’immigrazione, ormai numerosi studi e ricerche confermano che ci sono tanti lavori che gli italiani non fanno più. C’è poi un aspetto più propriamente umano e culturale che riguarda la nostra vita e riguarda la nostra società: gli immigrati ci obbligano giorno per giorno a fare i conti con l’altro, con altre culture, con altre religioni. È una grande opportunità per i nostri figli frequentare la scuola in cui, accanto ai bambini di pelle bianca, ci sono bambini di pelle e lingua diversa. La sfida del Duemila è quello di imparare ad essere cittadini del mondo, e di liberarci così da ogni provincialismo.

Una parte importante della politica dell’immigrazione è, non bisogna dimenticarlo, una politica che punti alla cooperazione, alla pace, allo sviluppo del mondo, perché lo spostarsi da un paese all’altro non dipenda esclusivamente dal dramma della fame. Quest’estate, quattro ministri donne europee hanno lanciato un appello ai governi europei, un appello che chiede di impegnarsi seriamente per combattere la povertà nel mondo, abbattendo il debito dei paesi poveri, puntando e sviluppando fortemente le politiche di cooperazione.

L’immigrazione va governata con rigore senza che ci sia un uso esclusivamente politico del problema, riducendolo alla lotta alla clandestinità degli sbarchi e dimenticando che, invece, il primo dovere è concedere una parità a 1.200.000 immigrati che da tanti anni vivono nel nostro paese lavorano, pagano le tasse, rispettano le nostre leggi. Se si punta ad un’alleanza tra i vari soggetti e le varie forze politiche, riusciremo a trovare strumenti efficaci per combattere l’immigrazione clandestina e contemporaneamente a dare un’opportunità di vita decente a chi è entrato regolarmente nel nostro paese.

Esiste una nuova legge che va applicata con tutti i correttivi referendari. Questa legge si basa su tre principi: mano ferma nei confronti dell’immigrazione clandestina; accordi bilaterali con i paesi da cui proviene l’immigrazione per stabilire concretamente la cooperazione – le quote di ingressi regolari –; riammissione dei clandestini e quote complessive di entrate di immigrati in un anno in Italia. La normativa dovrà occuparsi anche di facilitare il rapporto tra domanda e offerta per gli ingressi di lavoro. La chiamata nominativa non è sufficiente né per la flessibilità del mercato del lavoro, né per lavori, come quello di cura, che richiedono che ci sia un rapporto anche personale tra chi avanza una domanda di lavoro e chi è disponibile a offrire lavoro. Nella legge sulla immigrazione ci sono strumenti nuovi, per esempio, l’anagrafe presso i Consolati, sistemi informatici per garantire presso i Ministeri tutte quelle notizie per chi cerca occupazione seguendo quelli già utilizzati per i lavori stagionali. La pagina dell’integrazione della cittadinanza degli immigrati dobbiamo, purtroppo, ancora in gran parte scriverla. È importante per la gestione della legge realizzare una concertazione forte con le forze imprenditoriali, con le forze economiche del nostro paese, con il volontariato, con gli enti locali, perché soltanto attraverso una convergenza e una sinergia di interventi tra questa pluralità di soggetti noi riusciremo ad affrontare problemi come quello della casa, dei bambini, dei servizi sociali, dei ricongiungimenti familiari.

L’immigrazione significa rapporto tra diverse religioni e diverse culture: come vogliamo regolare questo rapporto? Quale patto tra italiani e nuovi cittadini? In Europa ci sono stati due grandi modelli di integrazione: quello assimilazionista francese, per cui si diventa facilmente cittadini francesi, ma per diventare cittadini francesi bisogna rinunciare alla propria identità; e il modello integrazionista, che rispetta le proprie identità ma ha avuto come conseguenza negativa quella di ghettizzare le identità.

L’Italia, che sta diventando un paese di emigrati, sta affrontando da poco il problema. Un’opinione personalissima è che noi dovremo puntare a realizzare una cittadinanza inclusiva delle differenze, un universalismo che sia inclusivo delle differenze, che abbia come punto di riferimento i grandi trattati internazionali, la Dichiarazione sui diritti dell’uomo e la Dichiarazione sui diritti dell’infanzia. Un universalismo che raccolga i punti alti della cultura occidentale, ma che sia capace di utilizzare il metodo dialogico per capire le ragioni delle altre culture e per arricchirsi delle altre culture. Un modello mite, tra i due estremi, dovrebbe permettere che lo Stato garantisca pari opportunità e lasci poi al volontariato l’azione di integrazione.

Lo Stato deve occuparsi esclusivamente di far rispettare punti irrinunciabili della nostra cultura europea nella forma dei diritti e dei doveri. Si tratta di un compito, già questo, gravoso perché deve far fronte a diversi modi di concepire la famiglia e la vita sociale. Gli emigrati islamici, per esempio, dovranno fare i conti con il fatto che in occidente la poligamia non è ammessa. Su questo aspetto è difficile in Italia stabilire delle intese anche perché la comunità islamica non è unitaria e riconosce quattro punti di riferimento diversi. Nonostante queste difficoltà il governo deve favorire l’integrazione di questi cittadini introducendo soprattutto nella scuola, ma anche nella società, validi insegnamenti sulla cultura islamica che spesso è rifiutata con pregiudizi. In sintesi lo Stato deve garantire il rispetto delle regole di integrazione, i cittadini devono accoglierli conoscendoli.

Pacini: Quando ho fatto la mia riflessione sono stato colpito dal titolo generale della tavola rotonda, "Verso l’Europa sotto la mezzaluna?" La veste con cui intervengo è quella di essere responsabile di una fondazione e non quella di operatore o politico. Un osservatore esterno come me, un rappresentante della cultura, può dire che si da una risposta al problema dell’immigrazione di natura troppo numerica e quantitativa. In realtà, credo che la vera risposta al discorso sia quella di recuperare alcuni temi che qualche anno fa ci avevano interessato e che ora sono stati quasi rimossi. Il primo di questi temi sono le conseguenze dei flussi migratori, flussi che accrescono in maniera drammatica l’elasticità del mercato del lavoro, offrono sempre nuova mano d’opera per l’economia del Mezzogiorno e lo sviluppo tecnologico di questo paese. Che il problema della dipendenza economica delle regioni meridionali non sia più oggetto di grande attenzione, ma si ricordino le regioni del Sud soltanto quando ci sono clamorosi esempi di criminalità, significa ormai tollerare diffuse situazioni di mercato del lavoro irregolare che comunque fanno il male dell’economia, dei lavoratori e degli stessi immigrati, troppo spesso assi portanti di questa penalizzazione delle regioni meridionali.

L’altro aspetto di altro grande dibattito che andrebbe forse recuperato per poter capire se l’immigrazione è una risorsa o è un problema è il discorso ideologico sul rifiuto del lavoro. Troppo spesso si prende atto che i nostri lavoratori, anche giovani, rifiutano certi lavori. In realtà quando si va a vedere il motivo di rifiuto di questi lavori, non si tratta di un rifiuto astratto di tipo culturale generico, ma di precise condizioni economiche e ambientali; la mano d’opera immigrata accetta perché più indifesa per poter caratterizzare il mercato del lavoro in termini che ormai un lavoratore italiano consapevole dei propri diritti stenta ad accettare.

Un ultimo elemento che mi pare sia stato abbastanza è l’attuazione della Conferenza di Barcellona che è stato un momento essenziale dei futuri rapporti con i paesi del Mediterraneo da cui vengono tanti immigrati. Essa prevedeva tre livelli di cooperazione tra i paesi europei e i paesi arabi: un primo tipo di cooperazione di natura politica, la seconda di natura economica e la terza di natura culturale della società civile. Per la prima volta si introduceva come attore importante delle relazioni internazionali la società civile, il volontariato, e tutto quello che nelle società è fuori dallo Stato ed è animata di propositi di collaborazione, di dialogo con le altre culture. Si rompeva così il monopolio degli Stati nelle relazioni internazionali permettendo ai soggetti, molto più disseminati nel territorio di quanto non possono essere singole burocrazie, di intervenire.

Devo dire che, nei suoi rapporti col mondo esterno, l’Europa ha già fatto grosse auto rappresentazioni di se stessa perché tutti i processi di associazione all’Europa presuppongono una chiara definizione di rispetto dei diritti umani o di alcuni principi fondamentali che fanno fare un passo avanti al problema. Quello che invece mi pare sempre lasciato nel vago è il discorso di come essa voglia giocare la sua identità nei confronti delle altre religioni e dei nuovi arrivati. Da una parte cerca di non considerarli come cittadini e dall’altra ricerca una assimilazione troppo stretta; un’ottica invece più pertinente è quella non soltanto di avere un obiettivo finale verso cui tendere, ma soprattutto di capire come si raggiunge e si realizza quell’obbiettivo. In questo senso è proprio importante qualificare che cosa sia l’Europa nella sua essenza fondamentale.

Il grande filone dell’identità europea è tutto fissato, inserito, incardinato nel discorso cristiano del rispetto del grande principio di uguaglianza di tutti gli uomini e della libertà della coscienza; le parentesi terribili del totalitarismo del Novecento rappresentano una terribile eccezione. Questo principio è un dono originale e fondamentale al mondo. In Cina questo rispetto per l’individuo, per la persona, non esiste; il mondo islamico stesso si basa su due profonde e drammatiche diseguaglianze: quella fra chi è musulmano e chi non è musulmano, soprattutto se non è monoteista, e quella fra uomo e donna. Questo lo scenario che abbiamo di fronte quando accogliamo i cinesi e gli arabi.

Fortunatamente devo dire che quando si guarda l’islam più da vicino si scopre che queste realtà restano sempre il tessuto unificante in tutto l’islam; quando si va a vedere come in concreto vengono vissute queste pratiche ci si accorge di profonde differenze. Non esiste un solo islam, ma un pluralismo che affonda le sue radici nella storia. Oltre alla differenza tra sciiti, sunniti e leviti, l’islam è vissuto diversamente da chi viene dal Pakistan rispetto a chi viene dai paesi magrebini, o addirittura dall’Iran e dall’Arabia Saudita. Dobbiamo quindi fare lo sforzo di superare un’immagine monolitica e ragionare su queste differenze. Il discorso dell’intesa è un discorso di grande delicatezza, proprio perché dobbiamo esattamente conoscere quali sono i nostri interlocutori avendo come obiettivo strategico la promozione di un islam europeo, di un islam cioè che sia compatibile con la società europea e con le strutture europee. Non è un problema che si risolve con una o due legge, ma cercando un criterio.

In primo luogo, occorre un’integrazione con il concorso di tutti: società politica, società civile, uomini di cultura, uomini politici, operatori economici. È poi indispensabile distinguere i vari problemi che riguardano cultura materiale, diritti e dogmi religiosi, perché possano essere messi in fila su una scala di negoziabilità: alcuni sono massimamente negoziabili, altri lo sono difficilmente o mai; su questi ultimi occorre avere la forza culturale e morale per poter essere capaci di mantenere questo tipo di affermazione. Aggiungerei inoltre la necessità di esaminare criticamente il problema dell’influenza degli stati di provenienza sugli immigrati: di soliti i più influenzati sono anche i meno aperti all’integrazione, sono i cosiddetti integralisti, al servizio pieno del proprio paese d’origine. Un ulteriore problema è quello della rappresentanza delle varie comunità islamiche per le intese politiche: non solo non esistono autorità riconosciute dall’intero islam, non potrebbe essere altrimenti, ma spesse volte chi fa più rumore ha più rappresentanza solo dal punto formale.

L’intera questione può comunque essere affrontata tenendo conto che il tempo necessario per questa integrazione è molto lungo e in primo luogo è necessario evitare che ci siano delle barriere linguistiche di comprensione fra i cittadini italiani e le popolazioni immigrate. È fondamentale poter insegnare chiaramente a queste persone quali sono gli aspetti fondamentale della civiltà con cui essi stessi vengono in contatto.

Khalil Samir: I motivi per cui la gente emigra sono sicuramente economici, è ovvio, ma c’è anche, e lo dico come arabo, una ricerca di più democrazia, di più libertà e di una maggiore dignità umana, valori rispetto ai quali l’Europa è il modello. Per rispondere all’attesa di chi viene è un dovere di amicizia e di solidarietà aiutare l’immigrato a capire questi ideali e a integrarsi meglio. Uno dei problemi dell’immigrazione è che l’immigrato non capisce questo mondo, in un certo senso lo sogna, e venendo in Occidente è sorpreso da tante cose. Ci vuole qualcuno che faccia da ponte, che possa lentamente, concretamente, nel dialogo quotidiano, spiegare questa civiltà che non è solo questione di soldi e di economia. Imparare a vivere insieme non è facile tra due vicini di casa italiani, lo è molto più per chi ha un’altra cultura, ma non è impossibile. Imparare a scoprire le ricchezze dell’altro suppone un atteggiamento del cuore più che delle leggi, un atteggiamento spirituale. Vero o falso che sia, l’arabo è convinto che l’Occidente sia cristiano, ed è spesso deluso perché incontra gente che trasmette tutto fuorché il più essenziale.

In ogni paese europeo riscontro sempre la stessa preoccupazione nei confronti dei musulmani. È utile precisare che non è vero che essi siano più presenti in Europa, ma piuttosto che si fanno sempre più visibili e chiedono sempre più anche dal punto di vista politico. Rispetto a questa situazione occorre innanzitutto conoscere l’islam non cadendo nelle solite generalità che, siccome tutte le religioni sono vie verso Dio, tutte le religioni vogliono la pace. Non sto polemizzando, voglio dire che il rispetto dell’altro consiste nel riconoscerlo come diverso da me: una moschea non è una Chiesa musulmana, una moschea è una moschea! Una moschea può anche essere il centro di partenza di una determinata ideologia politica, perché l’islam si definisce religione e stato. L’islam se vuole così, faccia come vuole, ma non ostacoli nei propri paese altre religioni: ci vuole reciprocità.

Non condivido il discorso della multiculturalità: ogni paese ha una cultura, un’identità che suppone secoli. Come egiziano so di avere dietro di me 5000 e più anni e questo ha creato la mia cultura e identità egiziana. Non voglio cambiarla ma voglio arricchirla, aprirla. C’è una identità italiana e una identità più largamente europea. Dire che vogliamo fare una società multiculturale mi pare un’utopia. C’è un discernimento esigente. Ogni gesto deve essere ponderato. Il modello della famiglia musulmana non è condivisibile e la tolleranza non è ammettere qualunque principio è un assoluto. Un uomo ha diritto di vivere la propria fede finché non oltrepassa la casa altrui.

Spesso noi arabi musulmani e cristiani chiamiamo religioso ciò che è tradizioni, usanze, invece si tratta di promuovere una vera tolleranza fatta di discernimento delle cose essenziali e ammissibili e delle cose che non lo sono, non lo possono essere. Per il musulmano la poligamia è normale, e se arriva in Occidente si trova frustrato. Pazienza! Non si possono fare due sistemi. Questo l’Occidente ce lo ha insegnato e lo vogliamo noi arabi.

La laicità mi pare una delle caratteristiche essenziali per noi del mondo arabo-musulmano. Ci sono voluti secoli in Occidente per arrivare alla laicità e c’è voluta la lotta contro la Chiesa ed era necessario: felicemente siamo arrivati a uno stato di distinzione dei settori, politica, Stato, religione e Chiesa. Questo è mi pare un acquisto che sarebbe una cosa fondamentale per i musulmani e la presenza degli immigrati musulmani qui potrebbe aiutare lentamente a cambiare la mentalità per scoprire il valore positivo di ciò che sembra oggi negativo. Il secondo punto è il dialogo. Metterei il dialogo sul piano dei valori, quelli dell’Occidente e quelli del mondo musulmano. L’Occidente può offrire al musulmano l’esempio di come si conciliano, come si congiungano fede e modernità. Oggi, il maggiore problema dell’islam, ed anche il problema che crea l’integralismo e il fondamentalismo e addirittura il terrorismo, è il confronto con la modernità. Tutto ciò che viene dall’Occidente è visto dai fondamentalisti come cattivo, tutto ciò che è moderno fuorché la tecnica è visto come più o meno antimusulmano. Questo modo di vedere la modernità vorrebbe la tecnica, l’ultima tecnica, ma non lo spirito che ci sta dietro. E questa è la catastrofe perché aumenta il divario tra l’islam e il mondo, tra l’islam e la modernità: qui l’Italia può contribuire a riscoprire per il musulmano i valori dell’Europa riguardo ai diritti dell’uomo.

L’ultimo fattore che voglio evidenziare è la solidarietà umana. Anche la solidarietà è un contributo dell’Occidente, che a livello politico si esprime nella democrazia.

L’Occidente ha dunque dei valori acquistati con fatica ma abbastanza acquistati. Sarebbe egoistico pensare: noi ce li abbiamo e gli altri si arrangino. Penso che il dialogo significhi anche scambio; l’occidentale può, ad esempio, scoprire dai musulmani il senso della religiosità, il modo in cui Dio governa tutta la vita. Questo valore esiste anche nella civiltà cristiana, ma nella secolarizzazione attuale dell’Occidente è andato perso: lo si può riscoprire grazie all’incontro con il mondo arabo. La reciprocità non è solo a livello politico, ma consiste anche nel far scoprire i valori che ogni civiltà possiede, e compiere così un vero confronto culturale tra la civiltà dell’Europa e quella del mondo islamico.