A proposito della diffusione del Cristianesimo:
rapporto con culture diverse
Domenica 18, ore 16.30
Relatori:
Enrico Galbiati, Sua. Ecc. Mons. Fouad Twal, Moderatore:
Biblista Vescovo di Tunisi Emilia Guarnieri,
Presidente Associazione Meeting
Guarnieri:
Il tema di oggi riprende due grandi questioni che sono al centro di questa edizione del Meeting e della riflessione di tanti di noi in questi mesi, in occasione della visita alla mostra "Dalla terra alle genti" sulla diffusione del Cristianesimo nei primi secoli.Oggi, ciò che siamo chiamati a guardare è proprio l’eccezionalità di un fatto umano accaduto duemila anni fa – la nascita, la vita, la morte e la resurrezione di un uomo di nome Gesù così come ci vengono attestate dai Vangeli – ed anche la diffusione di questo stesso fatto tra tutte le genti, senza differenze di razze né di culture, senza differenze sociali. Che tale diffusione avvenisse con una rapidità e con una energia assolutamente eccezionali non poteva e non può non porre seriamente l’interrogativo: di che cosa si tratta? Chi è questo uomo la cui vita e la cui memoria ha una tale forza umana e un tale fascino umano da comunicarsi con questa eccezionalità? Questa è la prima grande questione di fronte alla quale oggi ancora ci troviamo a volgere lo sguardo e a riflettere.
La seconda questione è l’aspetto fondamentale, strutturale, di questo fenomeno, quello che chiamiamo ecumenismo, che è ben più di un irenismo che mette d’accordo tanti che sono diversi, ma che è proprio – e il Cristianesimo ne è testimonianza – la capacità di stabilire una volontà di positività, di riscontrare ciò che c’è di comune e di positivo presente in ogni uomo, quel residuo di verità che in varia misura è presente in tutti i frammenti della storia umana.
Galbiati: L’argomento generale che tratterò è quello della diffusione del Cristianesimo e anche, di conseguenza, l’incontro di questa diffusione con culture diverse. È un argomento estremamente vasto; io sono un biblista, non ho una conoscenza universale della storia del Cristianesimo, ma mi interesso molto delle origini, e per questo intendo limitare il mio intervento soltanto alle prime due culture particolari – tra loro abbastanza affini ma non identiche – con le quali si è incontrato il Cristianesimo, la cultura tradizionale degli ebrei della Giudea e della Galilea – i galilei erano giudei immigrati in Galilea per lavoro – e quella degli ebrei che erano vissuti all’estero nella diaspora, e che in seguito erano ritornati a Gerusalemme dove avevano le loro sinagoghe. Questi ultimi non erano più in grado di capire le Sacre Scritture nella lingua originale, e perciò le leggevano nella antica versione cosiddetta dei Settanta, in greco. Sono dunque ebrei di lingua greca e di cultura diversa, che hanno subìto l’influenza del mondo ellenistico.
Quello che descriverò in primo luogo è l’impatto del Cristianesimo con la cultura ebraica tradizionale, che – come sappiamo bene in seguito alle scoperte di Qumran – non era unitaria. Per ridurre e concentrare il mio tema, possiamo dargli questo titolo: "Il Cristianesimo prepasquale nella testimonianza dei Vangeli", dove "prepasquale" indica appunto il Cristianesimo che precede la Pasqua di Gesù e la Pentecoste, quando comincia l’opera degli apostoli.
Comunemente si fa partire la diffusione del Cristianesimo dalla missione di Gesù risorto agli apostoli, come riferiscono le brevissime conclusioni dei Vangeli. Così in Mt 28,19-20: "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e fate discepoli tutte le nazioni ("éthne", che significa proprio "non ebrei"), battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto quello che vi ho comandato. Ecco io sono con voi ogni giorno fino alla fine del mondo". Così anche in Mc 16,15-16: "Andate per tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura". Con termini diversi in Lc 24,46-48: "Così sta scritto, che il Cristo avrebbe sofferto e sarebbe risorto dai morti il terzo giorno e che in suo nome sarebbe predicata la penitenza e la remissione dei peccati a tutte le nazioni, cominciando da Gerusalemme. Voi siete testimoni di queste cose"; parole completate da At 1,8: "Sarete miei testimoni in Gerusalemme, in tutta la Giudea, nella Samaria e fino all’estremità della terra". Sinteticamente in Gv 20,21: "Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi".
Tuttavia, questo modo di concepire la diffusione del Cristianesimo dal momento della missione o della Pentecoste, mi sembra riduttivo. Nel testo riferito da Giovanni, la missione di Gesù agli apostoli è messa in parallelo con la missione data dal Padre a Gesù. Di conseguenza, la diffusione del Cristianesimo è incominciata con la predicazione di Gesù. Si può così dire che il Cristianesimo è nato due volte, una prima volta con la predicazione di Gesù, una seconda volta dopo Pasqua con la predicazione degli apostoli e della Chiesa primitiva. Gesù si è presentato come mandato da Dio con attribuzioni del tutto eccezionali, si è fatto con autorità maestro di una dottrina nuova, si è procurato dei discepoli e ha suscitato un movimento di aderenti che a suo tempo sarebbero diventati il nucleo della Chiesa primitiva. La missione degli apostoli è incomprensibile senza una prima fase, per così dire, di un "Cristianesimo prepasquale". Tutto questo è abbastanza ovvio; la narrazione dei Vangeli ci fa conoscere quella che era già la prima diffusione del Cristianesimo. A condizione però che essa effettivamente sia la testimonianza fedele dei discepoli di Gesù e non la proiezione, sulla vita di Gesù, di concezioni nate nella comunità cristiana primitiva o anche tardiva.
Così entriamo nella questione del valore storico dei Vangeli e nell’assunto principale di questo mio intervento: una serie cioè di argomenti, da cui si deduce che questo "Cristianesimo prepasquale" non dipende dalla comunità cristiana primitiva. La scoperta dei più antichi papiri dei Vangeli ha fatto tornare di attualità la questione della datazione degli scritti evangelici per quanto riguarda i sinottici (Matteo, Marco, Luca; Giovanni ha una storia a parte), e di conseguenza la considerazione del loro valore storico. Infatti, è valido in generale il criterio che la storicità è certa quando i documenti sono contemporanei ai fatti o redatti quando ancora i testimoni sono in vita; questo criterio è tanto più valido nel caso della vita di Gesù, trattandosi di fatti di grande risonanza e interessanti direttamente o indirettamente vaste cerchie di persone, amici e nemici. Ma questo non è l’unico criterio: l’analisi dei caratteri interni dei Vangeli, confrontati con i restanti libri del Nuovo Testamento, testimoni della fede della Chiesa primitiva, fornisce elementi validi per il carattere storico e anche per la relativa antichità delle testimonianze trasmesse dai Vangeli stessi.
Lo stato della questione fu posto più di cento anni fa, e si sintetizza nella contrapposizione tra il Cristo della fede, quale è presentato dal kérygma, cioè dalla predicazione della Chiesa primitiva, e il Gesù della storia, cioè quello che emerge dalle vicende reali. Trascurando la tesi estrema di una attività creatrice della primitiva comunità cristiana che avrebbe reso impossibile ricostruire la vera personalità storica di Gesù, si ammette anche in campo cattolico, con diverse gradazioni o sfumature di opinioni, che la fede della comunità cristiana abbia influito sul modo di presentare i fatti evangelici. È per questo motivo che prevalse come opinione comune, accettata da molti ad occhi chiusi, che i Vangeli furono redatti in epoca tardiva: Marco verso l’anno 70, Matteo e Luca tra l’80 e il 90 (Giovanni fu sempre ritenuto della fine del primo secolo). Infatti, per un tale supposto processo di adattamento si esige un lungo periodo di elaborazione. Contro questa teoria non deve far meraviglia che nel campo cattolico, come anche in parte nel campo protestante, si siano levate voci contrarie che sostengono una datazione più antica, e non deve far meraviglia che tali voci siano state rifiutate con una certa energia.
Dal mio punto di vista, condiviso da altri, a favore dell’attendibilità storica della attività di Gesù presentata dai Vangeli e in generale a favore della non dipendenza dei Vangeli dalla fede della comunità primitiva, posso portare un argomento di carattere generale e un certo numero di fatti particolari – contenuti nei Vangeli – che contrastano con ciò che ci si aspetterebbe se ci fosse stata un’elaborazione da parte della comunità primitiva.
1) Argomento di carattere generale
La predicazione di Gesù nei Vangeli sinottici non coincide con la predicazione della Chiesa primitiva quale risulta dagli Atti degli Apostoli e dalle lettere di San Paolo. La predicazione di Gesù è incentrata sul Regno di Dio (che in Matteo è chiamato Regno dei Cieli). Invece la predicazione della Chiesa primitiva è incentrata su Gesù Cristo risorto ed esaltato alla destra di Dio. Il Regno di Dio era un argomento della predicazione dei profeti e Gesù si poneva in continuità con quella predicazione: "da quel momento Gesù cominciò a predicare e a dire: ‘convertitevi perché il Regno dei Cieli è vicino’" (Mt 4,17); "il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo (cioè alla lieta notizia che vi annuncio)" (Mc 1,15). Il Regno di Dio (o dei Cieli) nei Vangeli sinottici è messo 69 volte sulla bocca di Gesù e 2 volte in Giovanni; solo 11 volte nelle lettere di Paolo. Quanto all’argomento del kérygma primitivo col quale gli apostoli si rivolgevano prima agli ebrei e poi ai pagani, è riassunto dagli Atti degli Apostoli nei primi discorsi di San Pietro: "Dio ha costituito Signore e Messia questo Gesù che voi avete fatto crocifiggere" (At 2,36); "Costui è quel Gesù che Dio ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Esaltato alla destra di Dio e ricevuta dal Padre la promessa dello Spirito Santo, egli lo ha effuso" (2,32-33); "Fate penitenza e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo in remissione dei vostri peccati, e allora riceverete il dono dello Spirito Santo" (2,38); "Non vi è in nessun altro salvezza. Infatti non esiste sotto il cielo altro nome dato agli uomini per mezzo del quale noi possiamo essere salvati" (3,12).
Tornando al Regno di Dio, Gesù lo proclamava vicino, anzi già presente e all’opera nella sua persona, benché da realizzarsi compiutamente in futuro; si veda l’invocazione "Venga il tuo Regno!" (Mt 6,10) e la serie di parabole del Regno (Mt 13). L’ingresso nel Regno però è condizionato dalla conversione, cioè non solo dal pentimento dei peccati, ma dal cambiamento totale della mentalità (metanoia in greco), dal ribaltamento di tutte le concezioni precedenti. Non sarà più da considerarsi "beato l’uomo che teme il Signore, perché gloria e ricchezza saranno nella sua casa" (Sal 112(111),1-3), ma la beatitudine per il possesso del Regno di Dio sarà per i poveri, gli afflitti, i perseguitati, per coloro che perdonano, che non fanno resistenza ai violenti, che avranno compassione dei bisognosi. I misteri del Regno saranno rivelati ai piccoli. Questo nuovo ideale di vita troverà la sua continuazione nella comunità cristiana, come si vede nella parte parenetica delle lettere di San Paolo, ma una pratica umanamente così inaspettata, per non dire assurda, era giustificata dal fatto che era stata proposta non dalla comunità ma da Gesù stesso, e dal fatto che questo Gesù era il Salvatore professato dal kérygma e accolto dalla fede.
Anche a proposito della fede spesso richiesta e lodata dal Gesù dei Vangeli, notiamo che non è la stessa del kérygma, che dice: "Se tu confessi con la tua bocca che Gesù è Signore e credi nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo" (Rom 10,9). Naturalmente questo credere nel cuore non è solo l’accettazione intellettuale di una verità, ma deve diventare un rapporto personale con Cristo, come nelle parole di Paolo: "Questa vita che vivo nella carne, la vivo nella fede, che è nel Figlio di Dio che mi ha amato e si è consegnato per me" (Gal 2,20). Orbene è questo aspetto di un rapporto personale con Gesù che appare nella fede verso il Gesù dei Vangeli, quella fede che salva, anche se il credente (per così dire) "prepasquale" ancora non ha conoscenza riflessa del mistero di Cristo, ma intuisce che Dio lo interpella nella persona di Gesù. L’incontro personale con Gesù, che riabilita Zaccheo, la peccatrice, Maria di Magdala, è paradigmatico per la fede del kérygma postpasquale, e non viceversa. È il Gesù prepasquale che ha proposto un ideale di vita umanamente inaspettato e un’adesione totale alla sua persona. La fede pasquale, con la realtà della risurrezione, non fece che dimostrare che quella era la sola via di salvezza. Oltre a questa argomentazione di carattere generale vi sono certi dati dei Vangeli che non corrispondono alla predicazione della Chiesa primitiva e che di conseguenza non sono dovuti ad una creazione o influsso della comunità postpasquale. Voglio ora elencare e commentare sei di queste evenienze.
2) Comportamenti e direttive di Gesù che non hanno avuto seguito nella comunità primitiva
Ricordiamo anzitutto la considerazione positiva di Gesù nei riguardi della donna (Luca 8,1-3). È paradigmatico il caso di Maria sorella di Marta, seduta ai piedi di Gesù che la istruisce (Luca 10,38-42), cosa che nessun rabbi avrebbe fatto. Ma invece leggiamo in San Paolo: "come in tutte le Chiese dei santi (cioè dei cristiani), le donne nelle riunioni tacciano" (1 Cor 14,33-34). Altro caso: leggiamo tra i detti di Gesù: "Voi non vogliate essere chiamati rabbi, perché uno è il vostro maestro (didascalos) e voi siete tutti fratelli" (Matteo 23,8). Ma invece leggiamo, in At 13,1: "Vi erano nella Chiesa di Antiochia profeti e maestri (didascaloi)". E in 1 Cor 12,28: "Dio ha stabiliti membri diversi nella Chiesa, in primo luogo gli apostoli, in secondo luogo i profeti, in terzo luogo i maestri (didascaloi)". Analogamente raccomanda Gesù: "Non chiamate nessuno sulla terra padre vostro, perché uno solo è il vostro Padre, quello che sta nei cieli" (Mt 23,9), ma invece leggiamo in Paolo: "Anche se aveste migliaia di pedagoghi in Cristo, tuttavia non avreste molti padri, perché sono io che vi ho generati in Cristo Gesù mediante il Vangelo" (1 Cor 4,15),
3) Termini teologici importanti nei Vangeli, ma abbandonati nel resto degli scritti del Nuovo Testamento
Anzitutto il termine "Figlio dell’uomo", con cui Gesù designa se stesso 31 volte in Mt, 14 volte in Mc, 25 volte in Lc, 13 volte in Gv. In tutto il resto del Nuovo Testamento, il termine compare una volta sola sulla bocca di Stefano (At 7,56). La Chiesa primitiva non sapeva che farsene di questo termine e dunque non può averlo introdotto nei Vangeli, ma ve lo trovò come un dato originario, risalente a Gesù stesso. Analogamente l’espressione "Figlio di Davide" ricorrente nell’ambiente evangelico per indicare Gesù come il Messia, non fu più in uso nella comunità cristiana, anche se era noto che Gesù discende da Davide (Rom 1,3). La cosa perdette d’importanza fuori dell’ambiente giudeo-cristiano. A questo proposito notiamo come Luca, ellenista e universalista, si mostra fedele alle sue fonti giudeo-cristiane quando riferisce quei testi arcaici, in cui la gioia per l’arrivo del Messia figlio di Davide si unisce alle attese di una liberazione nazionale. Si consideri nel Cantico di Zaccaria: "Ha suscitato per noi un corno di salvezza nella casa di Davide suo servo, salvezza dai nostri nemici e dalla mano di tutti quelli che ci odiano" (Lc 1,69-71). Si consideri anche nel Cantico di Maria: "È venuto in soccorso di Israele suo servo, ricordandosi della sua misericordia" (Lc 1,54), dove quell’Israele è messo in linea con i "timorati di Dio, gli umili, gli affamati"; ben diverso da quell’Israele per il quale S. Paolo provava tanto dolore (Rom 9,1-5). Si può notare anche l’uso della parola "Amen" all’inizio dell’affermazione, esclusivamente sulla bocca di Gesù, 49 volte nei quattro Vangeli, per esempio "amen vi dico, hanno già ricevuto la loro ricompensa" (Mt 6,2). Ciò, si stacca dall’uso ebraico e cristiano di mettere l’"amen" alla conclusione di un’affermazione.
4) Parole sulla bocca di Gesù che la tendenza teologica della comunità cristiana avrebbe dovuto sopprimere
È il caso delle parole di Gesù sulla croce: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mt 27,46; Mc 15,34). Si tratta di una citazione del Salmo 22/21 e che in realtà si conclude in un contesto di fiducia in Dio e di ringraziamento. Non era un particolare necessario, e infatti Luca e Giovanni non lo riportano. Ma il fatto che nonostante la difficoltà teologica Matteo e Marco lo riferiscono nella lingua originaria (per lo scherno, data la confusione del nome di Elia), ci riporta all’oggettività dell’informazione evangelica. Un altro detto di Gesù che la tendenza teologica dei cristiani non può avere inventato è quello sull’ignoranza del giorno della fine del mondo: "Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli dei cieli, né il Figlio, ma solo il Padre" (Mt 24,36; Mc 13,32). Come può ignorare il tempo del giudizio colui che deve essere il giudice universale? Si noti l’importanza teologica di questo detto di Gesù; esso si aggiunge a tutti quei passi in cui Gesù rivela di essere in un rapporto particolare e unico con Dio: egli è semplicemente il Figlio di Colui che per lui è semplicemente il Padre (cfr. Mt 11,27; Lc 10,22).
5) Parola non pronunciata da Gesù e che la comunità primitiva si sarebbe trovata nella necessità d’inventare se davvero fosse stata una comunità creatrice
Manca una parola di Gesù sulla non necessità della circoncisione per la salvezza. Si trattava di una controversia suscitata da una parte dei giudeo-cristiani che pretendevano di far circoncidere i pagani che abbracciavano la fede in Cristo (At 15,1-5). Era in questione l’avvenire stesso della conversione dei pagani, oltre l’aspetto dottrinale. L’ostinazione dei giudeo-cristiani si protraeva anche dopo la decisione degli apostoli (At 15,6-11) come risulta dalla lettera ai Galati. Orbene non si trovò una parola di Gesù che risolvesse la controversia. Pietro potè solo appellarsi alla visione di Giaffa e all’esperienza del dono dello Spirito Santo nella conversione di Cornelio (At 11; 15,7-9), mentre Paolo portava come argomenti la rivelazione avuta personalmente (Gal 1,12) e l’esperienza dello Spirito Santo avuta dai Galati stessi.
6) Assenza nei Vangeli di allusioni alla situazione nuova creatasi con la diffusione del Vangelo tra i pagani
L’attività e la predicazione di Gesù quale ci è presentata dai Vangeli è totalmente immersa nell’ambiente degli anni 30 e Gesù stesso è presentato fedele al suo programma: "Non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele" (Mt 15,24; cfr. Mc 10,5-6). Le controversie riguardano questioni giudaiche: il sabato, la purezza legale, il digiuno, le tradizioni vane, il comportamento dei farisei, il materialismo dei sadducei. Tutti i Vangeli, compreso quello di Giovanni, insistono su questioni giudaiche le quali dopo la catastrofe dell’anno 70 non dovevano avere importanza nelle comunità cristiane provenienti dal paganesimo. Certamente gli evangelisti leggevano gli avvenimenti del Gesù prepasquale con la fede nella divinità di Colui che era risorto e glorificato, ma anche nei passi in cui si rivela la personalità trascendente di Gesù, si limitano alle espressioni di colorito giudaico: "Gesù insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi" (Mc 1,22); "Il Figlio dell’uomo ha sulla terra il potere di perdonare i peccati" (Mt 9,6; Mc 2,10); "Il Figlio dell’uomo è padrone del sabato" (Mt 12,8); "Vi è qui ben più di Giona... vi è qui ben più di Salomone" (Mt 12,41-42); "Vi è qui uno più grande del tempio" (Mt 12,6). L’espressione più esplicita nei sinottici è la confessione del centurione sul Calvario: "Costui era veramente il Figlio di Dio" (Mt 25,54; Mc 15,39). La definizione "Figlio di Dio" (Mt 14,33; 16,16; Mc 1,1; Lc 1,32-35) potè essere intesa nel senso della fede postpasquale, ma non venne resa esplicita, come invece nella conclusione del quarto Vangelo si trova sulla bocca di Tommaso: "Mio Signore e Mio Dio" (Gv 20,28). Tale incontrovertibile definizione non è raggiunta nei sinottici neppure nel contesto di rivelazione delle due teofanie del battesimo e della trasfigurazione (Mt 3,17; Mc 1,11; Lc 3,22; Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35), dove l’espressione del Padre: "Questo è il mio Figlio prediletto", "Tu sei il mio Figlio diletto" certamente erano intese dagli evangelisti nel senso della fede pasquale.
7) Assenza nei Vangeli di allusioni alla situazione totalmente nuova in seguito alla distruzione del Tempio e di Gerusalemme
La distruzione di Gerusalemme è certamente espressa ripetutamente e in termini chiari in Lc 19,43-44 (il pianto di Gesù su Gerusalemme), 21,20-24 (il discorso escatologico), 23,28-31 (il discorso alle donne di Gerusalemme: "Piangete non per me ma per voi stesse e per i vostri figli"). Tuttavia non è evidente che si tratti di una cosiddetta profezia post eventum, perché è certo che la profezia o predizione della distruzione del Tempio e della città esisteva molto prima che l’inizio della guerra nell’anno 66 ne facesse prevedere la tragica fine. Ciò risulta dal discorso escatologico o "apocalisse sinottica" di Mc 13 e Mt 24. Questo testo, praticamente identico nei due Vangeli, è certamente riportato da uno scritto precedente ed è formato da parole di Gesù, ma raccolte insieme da un redattore che ha mescolato inestricabilmente ciò che si riferisce alla fine del mondo e alla seconda venuta di Gesù nella gloria. Di conseguenza è certo che il redattore di questo discorso non scriveva dopo l’avvenimento. Ne espresse l’attesa in termini giudaici ("Pregate che la vostra fuga non debba avvenire d’inverno o di sabato", Mt 24,20) e con un enigmatico riferimento all’"abominio della desolazione" (bdélygma tés eremòseos) con cui il libro di Daniele (9,27; 11,31) indica la profanazione del Tempio. Il primitivo redattore (non l’evangelista che scriveva in ambiente cristiano) voleva forse evitare che la previsione fosse travisata dai malevoli come una bestemmia contro il Tempio. Comunque è ovvio che dopo l’avvenimento dell’anno 70 nessuno avrebbe messo in rapporto immediato la fine di Gerusalemme con la fine del mondo. Di conseguenza non era necessario che Luca conoscesse gli avvenimenti dell’anno 70 per descriverli con maggior chiarezza. Sapendo dal Vangelo di Marco e anche dalla tradizione che Gerusalemme sarebbe distrutta, egli descrive il fatto come normalmente avveniva l’assedio e la conquista di una città. Nella sua redazione del discorso escatologico (21) è evidente che segue il testo di Marco, di cui riporta molti passi alla lettera, ma quanto all’ "abominio della desolazione" (Mc 13,14), incomprensibile per i suoi lettori, la interpreta come la presenza degli eserciti intorno a Gerusalemme. Così si mostra qui come negli altri due passi citati (Lc 19,43-33; 23,28-31) più preoccupato della povera gente assediata che della sorte del Tempio, nonostante che proprio questa avesse provocato la domanda fatta dai discepoli a Gesù (Mt 24,3; Mc 13,4; Lc 21,7). Inoltre è evidente che Luca pone un netto distacco tra la distruzione di Gerusalemme e i futuri fenomeni paurosi che annunceranno imminente la venuta di Cristo: "Gerusalemme resterà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani saranno compiuti" (Lc 21,24), il che sembra voler dire che Gerusalemme resterà occupata da non ebrei e nel frattempo si compiranno i tempi stabiliti per l’evangelizzazione dei pagani. Solo dopo questo intervallo indeterminato "vi saranno segni nel sole, nella luna, nelle stelle" (Lc 21,25-28). Per avere questa chiarezza nel distinguere i due avvenimenti non era necessario che Luca scrivesse dopo l’anno 70, bastava infatti la sua intelligenza e la riflessione su un passo del discorso escatologico, che in Mt 24,14 suona così: "E questo Vangelo del Regno sarà predicato in tutto il mondo in testimonianza a tutte le nazioni. Allora verrà la fine" e in Mc 13,10: "Ma prima bisogna che il Vangelo sia predicato a tutte le nazioni".
Concludo con un’apparente difficoltà che, al contrario, può essere considerata come un argomento in favore dell’antichità dei Vangeli e ancor più del materiale di cui sono una redazione intelligente al servizio della comunità. Il "Cristianesimo prepasquale", cioè la predicazione che Gesù rivolgeva alla folla e che dedicava ai discepoli era certamente nella lingua del popolo, cioè in aramaico. Invece i Vangeli, che ne sono la testimonianza, sono in greco. Questo potrebbe far pensare ad un adattamento tardivo e ad una soluzione di continuità. Al contrario ci fu un periodo nel quale non esisteva soluzione di continuità e fu quando nei primi tempi della predicazione apostolica questa veniva fatta non solo nella lingua degli ebrei di lingua aramaica, ma anche in greco, in favore dei cristiani di lingua greca, provenienti dalle comunità degli ebrei rimpatriati che avevano in Gerusalemme le sinagoghe, dei Liberti, dei Cirenei, degli Alessandrini, di quelli che provenivano dalla Cilicia e dalla provincia romana dell’Asia (At 6,9). Questi cristiani di lingua greca, chiamati "ellenisti", si erano lamentati perché le loro vedove venivano dimenticate nella quotidiana distribuzioni ai poveri della comunità. Per questo in loro favore furono istituiti i sette, tutti ellenisti, dei quali il primo era Stefano "pieno di fede e di Spirito Santo" (At 6,5-6). Lo scopo immediato di questi sette era di presiedere alla mensa dei poveri, liberando gli apostoli da questo impegno, perché fossero più liberi di attendere alla preghiera e "al ministero della parola", o "una parola di Dio" (At 6,2.4). In un altro contesto si dice che i credenti erano assidui "all’insegnamento degli apostoli" (2,42). Se ci domandiamo in che cosa consistesse questo insegnamento, che cosa avessero da dire oltre all’invito alla fede, dobbiamo concludere che si trattasse di trasmettere gli stessi insegnamenti di Gesù, che essi conoscevano a memoria per essere stati suoi discepoli per 2 o 3 anni. Gli insegnamenti di Gesù non dovevano andare perduti, ma perpetuati nella Chiesa (Mt 28,20: "insegnando loro tutte le cose che io vi ho ordinato"). Orbene, i cristiani di lingua greca non dovevano restare privi di questo insegnamento. Stefano, che si dimostrava zelante predicatore, ed eventualmente altri come Barnaba che era di Cipro (At 4,36), dovevano comunicare in lingua greca agli ellenisti quello che gli apostoli insegnavano in aramaico. E poiché questi predicatori, a differenza degli apostoli, non conoscevano a memoria i discorsi di Gesù, né ne erano stati testimoni diretti, dovevano servirsi di promemoria, praticamente di traduzioni in greco di quanto gli apostoli predicavano in aramaico.
Così si spiegano molti fatti messi in evidenza dall’esame letterario dei Vangeli sinottici. In particolare si spiega il fatto che Matteo e Luca attingono da una stessa raccolta in greco dei detti di Gesù (quella che si usa chiamare fonte Q). Matteo per ragioni didattiche raccoglie questi detti in cinque grandi discorsi, mentre Luca li distribuisce in diversi contesti. La coincidenza spesso verbale dimostra che tale fonte era già in lingua greca. Quando al seguito del martirio di Stefano si scatenò la persecuzione contro i cristiani Ellenisti (circa l’anno 36) e questi fuggendo giunsero ad Antiochia, predicando e convertendo anche i pagani (At 11,19-21), il lavoro della redazione in greco della predicazione degli apostoli doveva essere già a buon punto, perché la comunità di Antiochia era isolata rispetto al centro di Gerusalemme, e non poteva restare senza il continuo sostegno della predicazione.
Twal: Interverrò sull’origine del Cristianesimo in Africa – dividendo la mia esposizione secondo sei periodi storici – in qualità di vescovo della Tunisia, terra di antichissima evangelizzazione, e in qualità di membro di quel "popolo amante di Cristo", come si definivano gli abitanti della mia città natale, Madaba in Giordania, nei mosaici del VII secolo.
1) Le origini (I secolo)
Sulle origini della Chiesa del nord Africa non vi sono dati storici molto precisi. Alcuni fanno risalire la diffusione del Cristianesimo in Tunisia all’opera di Crescente, discepolo di S. Paolo; la Chiesa copta d’Egitto asserisce che San Marco, fondatore della Chiesa di Alessandria, fosse originario della Cirenaica, tanto più che egli è il solo evangelista a nominare nel racconto della Passione di Gesù i due figli di Simone il Cireneo, Alessandro e Rufo. Sant’Agostino (Epist. XLIII, 7) afferma che il Cristianesimo giunse in questa zona "da tutte le regioni del Mediterraneo", già in contatto con Cartagine per motivi economici e militari. Certamente un ruolo importante fu giocato dalla comunità ebraica, presente in nord Africa dal tempo della diaspora conseguente alla conquista di Gerusalemme (70 d.C.): si può postulare una comunità giudeo-cristiana, la cui presenza in Tunisia è testimoniata dalle tombe cristiane trovate nella catacombe ebraica di Gammarth. Il fatto su cui tutti gli storici concordano è che il Cristianesimo fu presente in questa terra a partire dalla fine del I secolo, poichè le testimonianze del periodo successivo (martiri, estensione delle catacombe di Sousse) fanno pensare ad una comunità già numerosa nel II secolo, quindi nata parecchio tempo prima.
2) Martiri e pastori (II e III secolo)
Il primo dato storico sulla presenza cristiana nella nostra terra di Tunisia è costituito dai martiri scillitani, decapitati a Cartagine il 17 luglio del 180 durante la persecuzione di Commodo dopo essere stati processati dal proconsole Saturnino. Si tratta di una comunità di 12 persone, 7 uomini e 5 donne, di cui alcuni di origine cunica, almeno a giudicare dai nomi. Negli Acta martyrum si evidenzia da subito un contrasto di posizioni: l’accusa mossa ai cristiani è di dementia, pazzia religiosa, e di un rapporto di non totale dipendenza dall’imperatore, dominus noster. Sperato risponde difendendo la propria correttezza nel rapporto con l’autorità civile che riconosce tale. Dominus è per il proconsole Saturnino l’imperatore; per Sperato, il re dei re. La fede cristiana sconvolge le categorie del buon senso. È definita dementia dal proconsole romano, mentre per il martire la fede è nel Dominus, in un Signore che è padrone della vita e quindi è Signore anche dell’imperatore, nel senso che l’ha creato e lo costituisce.
L’orizzonte del pensiero romano si sta squarciando e grazie alla testimonianza cristiana si aprirà sempre di più il punto di fuga che rivela l’origine della vita. Con questi primi martiri la Chiesa, non ancora pubblica, rivela il suo compito: quello di risvegliare agli uomini il senso religioso, dove sia la vera paternità.
Un altro martire di questa nostra terra è Papa Vittore I, originario di Leptis Magna nell’attuale Libia come pure l’imperatore Settimio Severo, che decretò la sua condanna. Fu Papa Vittore a dirimere la questione della data della Pasqua, oggetto di controversia tra la Chiesa occidentale e quella orientale, fissandola alla domenica più vicina al quattordicesimo giorno del mese ebraico di Nisan; stabilì inoltre che qualunque cristiano, in caso di necessità, poteva battezzare, a condizione che il battezzando avesse fatto professione di fede. Le opere da lui composte per esigenze pastorali sono fra le prime della letteratura latino-cristiana. Sempre durante la persecuzione di Settimio Severo trovarono la morte le Sante Felicita e Perpetua e i loro compagni, martirizzati molto probabilmente nell’anfiteatro di Cartagine il 7 marzo 203. Quest’episodio è stato per tutta la Chiesa – non solo quella del nord Africa – un avvenimento, nel senso più pregnante del termine. Lo testimonia ad esempio la menzione del loro nome nella prima preghiera eucaristica e nelle litanie dei Santi, la presenza dei loro ritratti nei mosaici di Ravenna e l’onore attribuito alle loro reliquie nell’antica "Basilica Majorum", situata fra Cartagine e Sidi Bou Said. Ultimo documento in ordine cronologico di tale esemplarità è la sosta di preghiera del Santo Padre nell’Anfiteatro, il 14 aprile scorso, accompagnato dai Vescovi del nord Africa – fra cui il sottoscritto –, dal seguito papale e da una numerosa rappresentanza di cristiani di Tunisia. È significativa l’affermazione dell’identità cristiana come risulta dal dialogo di Perpetua con il padre: "Io sono cristiana e non posso non chiamarmi con questo nome senza creare confusione". Nel martirio comune di Perpetua, nobildonna, e Felicita, sua schiava, viene inoltre dato un annuncio chiaro al mondo pagano del fatto che in Cristo tra schiavi e padroni non c’è distinzione.
Non è forse esagerato pensare che il concilio di Cartagine del 215, convocato dal vescovo Agrippino e raggruppante ben 70 vescovi della provincia Proconsolare e della Numidia, sia anche frutto del sangue sparso per Cristo da questi Santi. Come dicono i nomi delle province appena citate, e che comprendevano il territorio della Tunisia, l’Algeria orientale e la Libia occidentale, la Chiesa aveva derivato la propria organizzazione territoriale da quella dell’Impero romano. Le informazioni su questo Concilio ci vengono da Sant’Agostino. Cinquant’anni dopo, i Vescovi del nord africa erano 150 ed altri martiri avevano portato avanti la consacrazione di questa regione al Signore: fra essi il nostro predecessore, il Vescovo di Cartagine San Cipriano nel 258, durante la persecuzione di Valeriano. Nato pagano, Cipriano si era convertito a seguito dell’incontro con un sacerdote di Cartagine, Ceciliano. Qualche tempo dopo il battesimo fu ordinato sacerdote e poi consacrato Vescovo (248). Per primo scrive un trattato sull’unità della Chiesa. Si impegna nel sostegno di coloro che subivano il martirio e nel contempo si applica a risolvere con misericordia il problema dei lapsi che avevano abiurato la fede per non essere uccisi, ma che desideravano tornare in seno alla Chiesa. In questa circostanza nasce, seppur in modo non del tutto chiaro, la prima prassi penitenziale dopo il battesimo e che Tertulliano chiama la seconda tavola di salvezza. Nella lettera a Cecilio del 253, Cipriano ci parla del sacramento dell’Eucarestia, opponendosi a tanti abusi e fornendoci indicazione sul rito eucaristico. La partecipazione alla liturgia era secondo Cipriano il segno ordinario dell’appartenenza alla Chiesa, salvo nei momenti più duri delle persecuzioni; le parti della celebrazione, che si svolgeva la domenica, il mercoledì e il venerdì, sono quelle ancor oggi usate, in un ordine leggermente diverso. In particolare, dopo l’omelia veniva fatta una preghiera speciale per i catecumeni e i peccatori, i quali, finita la preghiera, lasciavano l’assemblea, perché iniziava la liturgia eucaristica. La presentazione dell’Eucarestia, come memoriale della passione del Signore e di tutti i benefici del Padre, sottolinea che la memoria viva è dimensione fondamentale del cristiano. Il culto del martire San Cipriano, subito venerato dalla Chiesa d’Africa, testimonia l’unità della terra cristiana: le sue reliquie giunsero infatti in Francia insieme a quelle di San Sperato, martire siciliano, e sono venerate nella chiesa di Moissac, nel Tam (Francia meridionale).
Desiderio di verità, desiderio di liberazione e di salvezza, desiderio di santità: ecco i grandi motivi della conversione cristiana durante i primi secoli.
L’ultima grande persecuzione contro la Chiesa prima dell’Editto di Costantino fu quella di Diocleziano degli anni 303-304. Il nord Africa continua a dare testimonianza della fede in Cristo con i martiri di Abitinia (oggi Chouhoud-el-Batteul), Thelepte Medinet-el-Khedima, nei pressi di Feriana, Thuburbo, El-Alia, Sousse e Rades. La persecuzione di Diocleziano non fu l’unica prova cui la Chiesa fu sottoposta: nel 312 il Vescovo di Cartagine Donato, riprendendo in parte la corrente montanista e a seguito della difficoltà dovute alle persecuzioni, si stacca dalla Chiesa per un rigorismo accentuato, che lo faceva ritenere il solo vero seguace dei martiri.
3) La Chiesa libera
Con l’editto di Costantino, la comunità dei cristiani può finalmente uscire allo scoperto e significare la sua esistenza anche con l’edificazione di chiese, cappelle, basiliche. La prima chiesa di cui abbiamo notizia si trovava nella località oggi denominata Chlif, fra Orano e Algeri; a Cartagine ne sorgevano almeno 5-8, di cui forse la più celebre è quella di Damous el Karifa, le cui rovine possiamo ancora vedere, molto simile alle basiliche siriane, a testimoniare il contatto primordiale della Chiesa d’Africa con il Medio Oriente. Da questa basilica del IV sec. provengono alcuni bassorilievi di probabile epoca bizantina, riguardanti i misteri della nascita di Gesù.
Nella Chiesa, Cristo non ha fatto mai mancare il segno umile ma profetico di coloro che sono chiamati ad imitazione di Lui e della Sua santissima madre, alla dedizione totale della vita a Dio per gridare a tutto il mondo che solo il Signore è il motivo per cui vale la pena vivere. Nel nord Africa l’editto di Costantino apre la strada anche all’edificazione di monasteri, che sorgono un po’ ovunque e che daranno numerosi Santi alla Chiesa, fra i quali parecchi martiri.
4) Il Donatismo e Sant’Agostino
Riprendendo la nostra storia, l’avvenimento più importante è il contrasto fra i donatisti e i cattolici, i cui "momenti forti" sono i concili che condannano la tendenza rigorista, finché nel 337 viene riconosciuto lo status quo, in cui donatisti e cattolici convivono, spesso con la compresenza di due Vescovi nella stessa diocesi. Anche oggi, in diverse città, troviamo vari Vescovi per diverse confessioni cristiane. E l’anormale col tempo diventa normale. La ribellione donatista si era legata anche a rivendicazioni degli agricoltori punico-berberi sui proprietari romani, che erano sfociate anche in episodi di violenza nei confronti di questi e del clero cattolico. L’atteggiamento degli imperatori romani è vario: Costante, figlio di Costantino, cerca prima una pacificazione fra le parti, poi perseguita i donatisti, mentre Giuliano, fautore del neopaganesimo, restituisce ai seguaci di Donato i beni perduti. Nel 384 si giunge ad una nuova proibizione del Donatismo, che prolifera ugualmente suddividendosi in varie sette. È in questo contesto che Sant’Agostino rientra dall’Italia, dopo essere stato battezzato; fonda un monastero con Alipio e il figlio Adeodato nella tenuta ereditata dal padre e si reca a Cartagine, dove ingaggia la lotta contro il Donatismo, predicando e rendendo pubbliche tutte le discussioni dottrinali con gli avversari. Nel 411 una conferenza raccoglie a Cartagine 279 Vescovi donatisti e 286 Vescovi cattolici: terminerà con la sentenza di condanna al Donatismo, ma ciò non impedirà il permanere di chiese scismatiche in Mauritania e Numidia. Inoltre già dal 410 era presente a Cartagine Pelagio, con il suo discepolo Apringio: una nuova prova mette in difficoltà l’unità della Chiesa, poiché la dottrina della grazia predicata dai pelagiani, nonostante la scomunica di Pelagio e gli interventi di Sant’Agostino, trova seguito nel nord Africa.
5) I Vandali (V secolo)
In questo quadro turbolento fanno la loro comparsa i germanici Vandali, giunti dalla Spagna. Non è solo un nuovo elemento etnologico che si inserisce nell’ambiente nord africano, ma una nuova eresia, quella ariana, che complica ancor più la vita della Chiesa. In quanto tali, i Vandali cercano alleanze con gli altri Ariani già presenti sul luogo africano, con i Donatisti, con i Manichei ed iniziano una fase di distruzioni e persecuzioni che durerà una cinquantina d’anni. Durante l’assedio vandalo alla città di Ippona muore Sant’Agostino, e proprio ad Ippona, nel 435, sarà siglata una pace fra Romani e Vandali che assicurerà a questi ultimi i territori conquistati. Forti di tale situazione, i sovrani vandali tentano di convertire le popolazioni nord africane all’Arianesimo con la persuasione, mostrandosi morigerati e virtuosi; ma il fallimento di tale tattica li induce all’uso della violenza, soprattutto nella Provincia Proconsolare. Continuano anche le conquiste territoriali, con la presa di Cartagine nel 439. Uno dei metodi più usati contro i cattolici è quello dell’esilio, a cominciare dalla gerarchia ecclesiastica, che viene sostituita dal clero ariano nominato dal re. Solo nel 454 Cartagine riavrà un suo Vescovo cattolico, Deogratias; ma la carità di questo nei confronti dei deportati da Roma, conquistata nel 455, irrita il re Genserico, che esilia nuovamente il clero e proibisce di ordinare Vescovi. Nonostante una breve pace, le crudeltà si intensificano e aumenta il numero dei martiri. Un episodio di questo momento quanto mai drammatico è la convocazione di 466 vescovi a Cartagine per una discussione-farsa con gli Ariani, terminata con uccisioni ed esili. Gli ultimi re vandali si dimostrano per fortuna più tolleranti, anche se ricorrono ancora alla pratica dell’esilio, durante il quale alcuni vescovi periscono. Di questo periodo (fine V secolo-inizio VI) si ricorda innanzitutto San Fulgenzio di Ruspa, monaco e vescovo, autore di opere di controversia dottrinale e venerato dal popolo, più volte esiliato in Sardegna. Diciamo anche per inciso che tra il 492 e il 496 sedette sulla Cattedra di Pietro il terzo Papa nordafricano, Gelasio. In questi anni riprendono dunque i concili nordafricani e viene sancita la supremazia della sede di Cartagine sull’Africa.
6) Il periodo bizantino – L’avvento degli arabi
La sera della battaglia di Ad Decimum (15 settembre 533), che segnò la vittoria dei Bizantini sui Vandali ariani, tutte le campane delle chiese di Cartagine suonarono a distesa; la Chiesa Cattolica veniva liberata dopo un secolo dall’oppressione dell’Arianesimo. Chiese e monasteri furono restaurati e se ne costruirono altri in tutte le province. Fu favorita e incrementata l’evangelizzazione dei Berberi. Ma la festa non durò molto tempo: l’imperatore Giustiniano, per mettere d’accordo le sette monofisite divise e in lotta tra loro sulla natura di Cristo, pubblicò l’Editto dei tre Capitoli, contrario alla dottrina ortodossa, costringendo le Chiese all’approvazione. Il Vescovo di Cartagine lottò con ogni mezzo, pagando anche di persona con l’esilio, per mantenere la sua Chiesa fedele all’ortodossia. Il Donatismo riprese vigore. Dopo la grande battaglia di Sbeitla (Tunisia), in cui l’esercito bizantino fu distrutto, gli Arabi "cavalieri di Allah" avanzarono nel giro di trent’anni fino ad arrivare a Cartagine verso il 700. Berberi e Numidi, dopo aver cercato di frenare l’avanzata araba, secondo un’abitudine già praticata con Punici, Romani, Vandali e Bizantini, passarono dalla parte dei vincitori come alleati e si convertirono all’Islam. A metà del 700 le Diocesi dell’Africa del nord da 200 si riducono a 30. I cristiani delle grandi città si ritirano verso la Sicilia, l’Italia, la Gallia e Costantinopoli.
Se facciamo un salto storico, attualmente in Tunisia esiste una sola Diocesi con un solo Vescovo. Le cause della scomparsa del Cristianesimo nell’Africa del nord sono varie: le sintetizzerò brevemente.
Anzitutto, la qualità di vita cristiana descritta da San Cipriano (De lapsis, VI): "Ognuno si adoperava ad aumentare la fortuna. Dimenticando quello che facevano i cristiani di un tempo, all’epoca degli apostoli, e ciò che dovrebbero fare sempre, bruciando dal desiderio insaziabile di ricchezze, tutti si occupavano ad accrescere le loro entrate. Non c’era più pietà nei preti, non c’era più integrità nella fede dei ministri di Dio, non c’era più carità nelle opere, non c’era più regola nei costumi. [...] Non si ha per i superiori che sdegno pieno di orgoglio, si lancia contro il prossimo il veleno della maldicenza, odi persistenti dividono gli uni dagli altri". Inoltre, l’attenzione e la premura rivolte soprattutto alle grandi città, dove vivono e discutono fra loro teologi e professori, e molto meno ai villaggi e piccole comunità; nessun interesse alla religione popolare dei "comuni mortali".
Infine, altre cause di ordine storico-culturale: gli attacchi dei Vandali del nord e dei Berberi del Sud; la lontananza geografica, politica ed affettiva del nord Africa da Roma, centro della cattolicità; l’uso della lingua latina nella liturgia e non quello della lingua locale, e come conseguenza la non-inculturazione; l’arrivo di un Islam semplice e forte, moralmente naturale, totalitario ed intransigente verso gli altri.
E purtroppo, la storia rischia di ripetersi.