La dignità del lavoratore migrante

Evento realizzato in collaborazione con la Repubblica di San Marino

Mercoledì 25, ore 15.00

Relatori:

Noemi Ugolini,
Direttore del Museo dell’Emigrante della Repubblica di San Marino

Edith Tamagnini,
Ambasciatore della Repubblica di San Marino presso l’Unesco

Vittorio Dini,
Docente presso l’Università degli Studi di Siena

Loreto De Paolis,
del Pontificio Consiglio per la Cura dei Migranti

Ugolini: La mostra "Un piccolo Stato nella grande storia. L’emigrazione sammarinese fra evento e racconto", allestita per illustrare il fenomeno dell’immigrazione a San Marino, è patrocinata dagli eccellentissimi capitani reggenti, promossa dalla Segreteria di Stato per gli Affari esteri e dalla Commissione Nazionale per l’UNESCO di San Marino, curata dal Centro di studi permanente sull’emigrazione. Le finalità possono essere così sintetizzate: ricostruire la storia dell’emigrazione evidenziandone tutti gli aspetti; aiutare ad acquisire una più consapevole coscienza critica nei confronti del fenomeno migratorio che non ha limiti geografici e non è circoscritto in un determinato periodo storico; promuovere lo scambio culturale su un argomento di grande attualità; inviare un messaggio di speranza.

San Marino è uno Stato di millenaria storia e cultura, una piccola repubblica fondata nel 301 d.C.; il territorio si estende per 60 km quadrati e ospita 26.000 cittadini; 13.000 vivono ancora all’estero. L’emigrazione è sempre stata per i sammarinesi un modo di vivere e di sopravvivere. Emigrare era un verbo molto conosciuto, una carta da giocare che ogni famiglia teneva nascosta in un cassetto. Fino a metà del 1800 emigravano stagionalmente i lavoratori agricoli che oltrepassavano i limitati confini della Repubblica per cercare lavoro a Ravenna, in Toscana, a Roma: seguivano le tracce di altri emigrati, già noti per laboriosità ed impegno. Quasi tutte le famiglie di San Marino hanno dovuto, prima o poi, giocare quella carta e sono partiti per raggiungere amici o parenti all’estero.

Fra il 1868 e il 1960 sono partiti da San Marino circa 16.000 cittadini che si sono diretti verso le Americhe, la Francia, la Svizzera, il Belgio, la Germania e l’Italia. Nei primi del 1900 le partenze non riguardavano più solo i lavoratori agricoli, che rappresentavano ancora l’80% della popolazione, ma anche artigiani e professionisti.

A partire da questo dato di emigrazione nacque, qualche tempo fa, la necessità di realizzare un Museo dell’Emigrante: per non dimenticare, per salvaguardare una parte della nostra storia, per aiutarci a crescere e soprattutto per vedere con occhi diversi la realtà contemporanea. Questo museo è cresciuto con la popolazione, non con un progetto calato dall’alto. La prima iniziativa è stata una piccola lettera inviata a tutte le famiglie; si chiedeva, nel caso avessero avuto esperienze all’estero, di raccontare alcune ricordi: hanno risposto più di 600 persone. Sotto la direzione del professor Dini, che ci ha insegnato a fare ricerca sul campo, io e alcuni studenti abbiamo cominciato ad andare casa per casa. Forse è questa l’esperienza più bella del Museo dell’emigrante. Le persone coinvolte nella ricostruzione storica del fenomeno hanno incominciato ad essere i cittadini di San Marino presenti nel mondo: le comunità di Parigi e di Roma, per esempio. L’appoggio del Segretario degli Esteri ha permesso di sostenere il Museo dell’emigrante come centro di ricerca permanente; così la ricerca si rinnova continuamente, non è qualche cosa di statico. Il successo di questa iniziativa è stato riscontrato oltre che dai cittadini e dalle istituzioni dello Stato, anche dai visitatori esterni a San Marino che hanno spesso espresso il desiderio di un museo simile nella propria città o regione.

Il successo comunque è dovuto al fatto che le storie che abbiamo raccolto parlano di solidarietà, di amicizia, di disagi, ma soprattutto di estrema fierezza: emigrare è atto di coraggio. Inoltre risulta chiaro che l’emigrante è una risorsa sia per il paese di partenza che per il paese d’accoglienza; l’emigrante va in terre straniere per lavorare, è povero di mezzi, ma non di cultura, quindi, porta sempre con sé la propria cultura, l’immagine del proprio paese.

Tamagnini: La mia famiglia è emigrata da sempre; sia i miei nonni che i miei genitori hanno cercato un lavoro, dignitoso perché onesto, duro come quelli che non concedono soste, tranne una breve pausa domenicale per coltivare l’orto. Con i miei genitori, dai quali vivevo divisa per motivi di studio, ho avuto un carteggio epistolare durato dall’età di undici anni e mezzo, fino alla laurea. Dentro questo scambio di lettere c’è la testimonianza di una vita. Non erano molte le opportunità che noi avevamo di stare insieme; ad un certo punto credevo di vivere divisa tra due culture e due mondi: quelli d’origine e quelli di adozione. Ho maturato però una certezza: quella lacerazione è diventata per me una forza e un’enorme ricchezza perché le due culture e i due mondi, col tempo, si sono integrati, si sono armonizzati vicendevolmente e mi hanno aperto nuovi orizzonti.

Con i miei genitori la comunicazione è stata costante, sulla base di un valore fondamentale: la dignità che innanzitutto è onestà. Nella mia azione quotidiana non dimenticherò questa equazione e vedo, nel fruttuoso rapporto che si è creato tra l’UNESCO ed il nostro paese in favore dei giovani, un filo del destino. La nostra storia è nelle nostre radici, non dobbiamo mai dimenticare, anzi dobbiamo sapere valorizzare tutto il patrimonio che sono queste esperienze. I sacrifici dei nostri padri, il benessere che loro hanno conquistato per noi, dobbiamo saperlo dividere oggi più che mai con quella parte del mondo, purtroppo ancora troppo vasta, che attende un gesto e una parola di solidarietà.

San Marino ha raggiunto importanti obiettivi: i nostri emigranti, se hanno un problema, non devono più rivolgersi ad anonime istituzioni non sammarinesi; sanno che esistono uffici e persone nel nostro paese che pensano e si occupano di loro, come esseri umani aventi pari dignità e pari diritti, non come entità semplicemente numeriche. È un giusto riconoscimento dovuto a tutti i nostri emigranti per non avere mai rinunciato né alla propria dignità, né alla propria identità anche quando assumere una cittadinanza estera avrebbe significato assumere vantaggi.

La fine di questo secolo si caratterizza per la crescente incapacità di anticipare, di prevedere o anche di presentire quello che sarà. Ciò significa che il secolo a venire inizierà con la perdita di quel conforto che, come diceva Stefan Zweig, può esistere solo quando l’intelligenza è in grado di garantire la sicurezza della previsione. Torna quindi, più che mai, l’esigenza di credere nell’utopia, un’utopia che si traduce in realtà. La stessa Europa è l’esempio concreto di un’idea che fino a dieci anni fa poteva sembrare ancora un’utopia. A questa Europa che oggi ha una sua moneta manca però ancora qualcosa di fondamentale: all’Europa manca il cuore. Dag Hammarskjold nell’opera Markings sostiene: "Non lasciare mai che il successo ti nasconda la sua vacuità, un’impresa la sua vanità, la fatica la sua desolazione. Mantieni vivo dentro di te l’incentivo ad andare ancora più avanti, quell’inquietudine che ci spinge al di là di noi stessi. Non guardare indietro. E non accarezzare sogni per il futuro. Ciò non varrebbe né a restituirti il passato né a soddisfare gli altri tuoi sogni ad occhi aperti. Il tuo dovere, la tua ricompensa, il tuo destino… sono qui ora".

Dini: Quando ho iniziato la collaborazione per la ricostruzione della storia dell’emigrazione sammarimese mi sono reso conto, nel lavoro, che fortunatamente la memoria della gente comune non era ancora del tutto cancellata. Ecco perché questa iniziativa è un’eccezione in Europa; lo è ancor di più costatando che la ricostruzione di una storia, che rischiava di essere persa, continua grazie all’appoggio delle istituzioni di San Marino. Dobbiamo veramente insistere sulla memoria anche perché l’uomo, d’ora in poi, emigrerà sempre, e non con l’accezione che ha accompagnato noi e coloro che ci hanno preceduto nel tempo: è un’emigrazione a tempo più breve.

L’équipe che ha realizzato la ricerca, dopo un corso accelerato sulle tecniche di indagine, ha egregiamente svolto il suo compito. In primo luogo le interviste dei testimoni sono state raccolte concedendo un tempo molto più lungo della solita mezz’ora; qualitatitivamente poi si è focalizzata l’identità della persona e la percezione, che tra pochi anni muterà di nuovo, della propria esperienza di lavoro all’estero.

Il risultato della ricerca ha fatto emergere dei dati molto interessanti: la concezione del potere, la condizione precarie di vita, i rocamboleschi e massacranti viaggi per arrivare nel nuovo paese, il risparmio e il consumo delle famiglie, la memoria delle proprie tradizioni d’origine. Per esempio, rispetto a quest’ultimo, è interessante scoprire che il romagnolo, dialetto parlato anche a San Marino, è diffuso in tutto il mondo grazie ai suoi emigranti.

De Paolis: Leggendo la Bibbia in chiave migratoria l’attenzione cade sulla vicenda di due categorie di persone che, invitate da Dio a raggiungere la terra da Lui promessa, si comportano in maniera differente, in maniera addirittura opposta. Da una parte abbiamo i patriarchi, tra cui il prototipo Abramo, che durante il loro peregrinare rafforzano la loro fede; dall’altra parte, invece, abbiamo il popolo che, liberandosi dalla schiavitù dell’Egitto attraverso il mar Rosso, si comporta in maniera diversa, diventa ribelle, testardo e diffidente. I patriarchi sono ospiti di un paese straniero dove trovano cibo in abbondanza e gente che li aspetta e li accoglie; nel deserto, invece, la situazione è differente: non c’è cibo, non c’è acqua, non c’è vita, non si semina, non si raccoglie, la terra è improduttiva e anche gli uomini, precisa la Bibbia, sono senza seme: nel deserto si muore, ma non si nasce. La prospettiva si presenta chiusa, la promessa non è sostenuta da elementi che la illuminano e la giustificano. È un cammino verso l’ignoto e l’assurdo: questo porta alla ribellione, inaridisce la speranza, provoca ripiegamento su se stessi accompagnato anche da un rimpianto verso le pentole di carne o di cipolle consumate in Egitto. Una situazione che impoverisce le energie, spegne la fede, favorisce l’idolatria.

Per completezza del discorso dobbiamo anche dire che alla fine la situazione viene sbloccata da Dio attraverso un intervento miracoloso, facendo piovere la manna dal cielo, facendo scaturire l’acqua dalla roccia e facendo convergere stormi di quaglie verso gli accampamenti. Questo è comunque un cibo che non ha niente a che fare con quello dell’Egitto, ma è una realtà carica di significato, il cui senso verrà spiegato più tardi, nella lettura del Nuovo Testamento. "La fede – dice l’apostolo Paolo, commentando, rievocando, proprio le figure dei patriarchi – è il modo di possedere già le cose che si sperano, modo di conoscere già le cose che non si vedono, modo di anticipare la meta verso cui si cammina". Ed è appunto per questo che la fede è attenzione a spiare i segni dei tempi, è intraprendenza, è iniziativa, è impegno a realizzare il presente quanto si conosce in visione.

Da questo quadro profetico è possibile trarre delle analogie che possono essere così riassunte: il cammino della migrazione può evolversi in senso positivo o negativo a seconda delle circostanze. Quello della migrazione è un fatto sociale e come tutti i fatti sociali ben difficilmente si può dire che siano assolutamente buoni o cattivi in sé stessi, ma sono in grado di diventare l’una e l’altra cosa a seconda delle circostanze.

Quello che possiamo dire è che l’emigrazione è sempre un fatto gravissimo quando la si lascia senza direzione e senza tutela. La Chiesa difende il diritto dell’uomo a migrare, ma si guarda bene dallo spingerlo all’esercizio di questo diritto: sa che l’emigrazione è sempre un trauma, soprattutto se chi la intraprende ha la responsabilità della famiglia; d’altra parte non dimentica neppure che la migrazione è un male a volte necessario. Le migrazioni presentano sempre un conto molto alto, e a pagarne il prezzo più elevato è certamente il protagonista di questa avventura e cioè l’emigrato stesso: è lui che ne porta il peso maggiore.

Il migrante si muove per motivi economici e viene accettato dalla società di arrivo in questa prospettiva e la terminologia già è eloquente: nei commenti internazionali, vicino alla parola migrante, si aggiunge anche quella di lavoratore, formando l’espressione "lavoratore migrante" per sottolineare che, chi si muove per andare a lavorare in un altro paese, deve lavorare; nell’ipotesi che rimanga senza lavoro, altra alternativa non ha, per non diventare un paradosso, che quella di tornarsene al suo paese.

Quest’ultima è una visione molto riduttiva della migrazione perché non tiene conto della dimensione umana del lavoro stesso: l’uomo è una persona la cui dignità è anteriore alla società e per quanto povero e debole lui si possa presentare, conserva sempre una radice di indipendenza che si sviluppa fino alla libertà perfetta che nessuna società potrà mai né togliergli, né dargli. Nei primi tempi della sua permanenza all’estero, l’emigrato, spinto dall’urgenza di trovare i mezzi indispensabili per sopravvivere, si rassegna a condizioni dure, spesso ingiuste, accantonando temporaneamente quelle istanze umane quali l’unità familiare, il rispetto della sua identità culturale, la partecipazione alla vita sociale e politica. Terminata però la fase di emergenza quei diritti torneranno ad emergere e a imporsi. A tenerne conto non è soltanto una concessione benevola, ma un dovere che è implicito nell’accettazione del migrante portatore di diritti e di istanze alle quali la società deve venire incontro. Questa può essere, anzi, deve essere la parte di peso che la società di accoglienza deve pagare: le migrazioni hanno costituito sempre una vera risorsa sia per i paesi di partenza come di quelli ricchi. Secondo le sapienti parole di Paolo VI, chi aiuta a scoprire in ogni uomo, al di là dei caratteri somatici, etnici, razziali, l’esistenza di un essere uguale al proprio, trasforma la terra da un epicentro di divisioni, di antagonismi, di insidie e di vendette, in un campo di lavoro organico e di civile collaborazione. La pace è lo specchio dell’umanità vera, moderna, vittoriosa di ogni anacronistico autolesionismo.

Oggi il problema degli emigranti è diventato più difficile e complesso, per diversi motivi, il primo dei quali è proprio il fatto che le migrazioni regolari sono praticamente chiuse ovunque. L’uscita di sicurezza per le situazioni difficili di popoli e di singoli, e la via del riscatto dalla miseria rappresentato sempre dalla migrazione, sta diventando più tortuosa e più ingarbugliata. La difficile situazione è possibile spiegarla soltanto richiamandosi pure brevemente ad un fenomeno che oggi sembra costituire l’epicentro della questione sociale del mondo industrializzato; un fenomeno pervasivo di tutte le dimensioni del vivere umano che passa sotto il nome di globalizzazione. Il termine salito alla ribalta della riflessione soltanto nei tempi recenti è diventato sinonimo di marcia sincronizzata di tutti i popoli verso una terra promessa dove il benessere è assicurato a tutti.

Il nuovo sistema ritiene che l’emigrazione non è né necessaria, né utile allo sviluppo. Per contro, la libertà del movimento del capitale, è vista, programmata e attuata, come sostitutivo proprio della migrazione. Secondo questa tesi il movimento del capitale e il movimento dell’emigrazione sono, tra di loro, in rapporto inversamente proporzionale: più aumenta il movimento del capitale, tanto più diminuisce la migrazione stessa. E sempre secondo questa tesi, la libertà del movimento di capitali favorisce gli investimenti di paesi da cui viene oggi l’emigrazione: se il movimento del capitale favorisce gli investimenti, gli investimenti; favoriscono il lavoro, favoriscono il guadagno, favoriscono la ricchezza e favoriscono anche il livellamento fra i paesi in via di sviluppo e i paesi già sviluppati, è chiaro che viene meno anche l’incentivazione ad emigrare. Secondo i fautori di questa tesi questo sistema favorirebbe anche i paesi in via di sviluppo, perché oggi, uno dei problemi che questi paesi devono affrontare nel campo dell’occupazione, è proprio quello dell’eccessivo costo della manodopera non specializzata. In questo modo si risolverebbe il problema portando le imprese nei paesi in via di sviluppo.

Purtroppo è anche vero che questa tesi è teorica. I capitali esportati in questi paesi in via di sviluppo, infatti, non vengono gestiti da un’impresa inserita nel sistema produttivo locale in vista di una commercializzazione propria del prodotto; la fabbrica continua ad appartenere al paese industrializzato, è stata impiantata in un paese povero solo per utilizzarne l’abbondante manodopera a prezzo basso e sfruttare materie prime alle stesse condizioni. Il prodotto appartiene al padrone che lo commercializza a proprio vantaggio nell’ambito e nelle condizioni del mercato internazionale. Il salario con cui viene pagato il lavoro effettuato dagli operai locali sono briciole rispetto ai prezzi con cui il prodotto è venduto. Le imprese dislocate producono alle condizioni dei paesi in via di sviluppo e commerciano alle condizioni dei paesi industrializzati. Gli operai locali hanno ruolo nella fase produttiva, ma non ne hanno in quella della commercializzazione: il paese produce ma non esporta.

Questo sistema sostituisce la migrazione, però ne abolisce anche i vantaggi. L’emigrato migliora la sua condizione, non perché gli si da qualsiasi lavoro a qualsiasi prezzo, ma perché viene pagato secondo le tariffe praticate dal mercato dei paesi industrializzati. In questo modo, negando a lui il diritto di migrare, viene a lui negato anche l’uso di quell’unico canale che i paesi sottosviluppati hanno di partecipare al processo di sviluppo di paesi industrializzati. Questo è stato anche il motivo per il quale il Santo Padre, nel suo discorso rivolto ai partecipanti al IV Congresso della pastorale dei migranti, nell’ottobre scorso condannò questo sistema come poco rispettoso della dignità del lavoro. Rievocava, in riferimento ai cittadini dei paesi poveri, la situazione dei servi della gleba, i quali, legati alla terra, ne seguivano le sorti nei passaggi della vendita e della compera.