Che fatica essere bambini: quale tutela per l’infanzia?

 

 

Giovedì 27, ore 11.30

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Relatori:

Alda Vanoni, Presidente dell’Associazione Famiglie per l’Accoglienza

Oreste Benzi, Fondatore dell’Associazione Papa Giovanni XXIII

Livia Turco, Ministro per la Solidarietà Sociale

 

Vanoni: La tutela naturale di un bambino - viene istintivo pensarlo - è la sua famiglia, quella in cui è nato, i suoi genitori. Nella nostra storia, nella nostra cultura, non ci sono dubbi che questa è la prima tutela di ogni bambino, non solo la prima nel senso cronologico ma la prima nel senso di importanza. Tentativi di collettivizzazione della funzione educativa, come potrebbero essere i kibbuz, non hanno avuto dei risultati positivi tali da creare un’effettiva alternativa. In questo senso il Papa diceva al Forum delle associazioni familiari il 27 giugno ultimo scorso, diceva "la famiglia costituisce anche oggi la risorsa più preziosa e più importante di cui la nazione italiana dispone".

D’altra parte la famiglia è fragile nel nostro contesto sociale. Il lavoro femminile, l’organizzazione del lavoro, i mass media, sicuramente contribuiscono a questa fragilità, anche se si tratta ormai di un problema più radicale, culturale. Le famiglie sono disorientate, insicure e sole e non sanno bene a cosa educare i figli, non sanno bene quali siano i valori di riferimento. Mi sembra che sia la ricaduta sul fenomeno educativo e sulla funzione educativa di quel relativismo e cinismo che purtroppo notiamo avanzare sempre di più nella nostra società di massa, nella quale si è soli; io credo, quindi, che una realistica tutela dell’infanzia non possa prescindere dalla ricostruzione di un tessuto sociale fondato su una cultura o su tante culture se si vuole creare una società pluriculturale, che creino la possibilità di reti di vita, di reti di riferimento, che diano alle persone una maggiore solidità nel sapere quello per cui vale la pena vivere, mettere al mondo i figli e accettare i sacrifici che educarli comporta.

Occorre anche rilevare che, al di là delle affermazioni di principio della Costituzione e della legge 184 dell’83, la famiglia normale, la famiglia come soggetto intermedio è di fatto molto poco presa in considerazione dalla nostra normativa, e la normativa è frutto della cultura e della mentalità corrente. La famiglia normale non fa audience, la normalità non è considerata una cosa interessante. Al più la famiglia viene considerata come centro di imputazione, di consumi, oppure di erogazione di servizi: invece la famiglia è qualcosa d’altro, è un soggetto con una sua forza e presenza culturale. La famiglia è incaricata di un lavoro culturale, l’educazione delle nuove generazioni. Educare una nuova generazione non vuol dire semplicemente dar da mangiare, dar da vestire, mandare a scuola, lavare: è qualcosa di più. È far crescere l’umano del bambino. In questo senso la famiglia è la dimora del bambino, che permette all’umanità del bambino di crescere al massimo di se stesso.

Nella fragilità dovuta alla frammentazione della nostra società, la famiglia va aiutata innanzitutto a capire e a ricentrare il suo essere e il suo compito. Questo aiuto non lo chiediamo allo Stato perché abbiamo paura di uno Stato educatore, lo chiediamo alle realtà educative presenti nella società e diverse dallo Stato. Chiediamo invece all’istituzione pubblica di avere chiara questa soggettività primaria della famiglia, specialmente negli interventi in campo sociale e assistenziale. Ho notato che là dove i servizi assistenziali sono da più tempo più efficaci, come in Lombardia o in Piemonte, le istituzioni pubbliche sono anche più pesantemente incapaci di valorizzare la soggettività della famiglia, più pesantemente si intromettono e affermano di essere detentori di un potere. Questo è un problema culturale grave, su cui sarebbe urgente trovare il consenso o comunque il dialogo con il ministro, perché mi sembra che da qui potrebbe cambiare molto del modo in cui l’assistenza viene di fatto erogata.

In questo senso voglio sottolineare la funzione importantissima delle associazioni come quella che io presiedo, perché sono un momento essenziale di ricostruzione del tessuto sociale e di ripensamento del compito famigliare: vorrei chiedere una valorizzazione di questi enti al di là dei confini totalmente marginali e controllati dal volontariato. La legge sul volontariato, che a suo tempo ci era sembrata una possibilità di diventare effettivamente soggetti sociali, interlocutori del momento pubblico, si è rivelata in realtà un momento di controllo e di controllo molto pesante, di appiattimento delle associazioni a degli standard richiesti che non nascono da come le associazioni sono, ma dal progetto che l’istituzione ha su di esse.

Pur essendo una associazione specializzata, noi da sedici anni raccogliamo famiglie adottive, affidatarie, comunque ospitali, accoglienti: i nostri incontri, le nostre iniziative, i nostri seminari mettono a tema questo particolare dell’accoglienza, ma nel mettere a tema questo particolare dell’accoglienza facciamo di fatto un lavoro di approfondimento del compito della famiglia come tale, che è stato d’aiuto a tante situazioni che magari non avevano un’esperienza di accoglienza in corso. Ove la famiglia naturale non funzioni, l’intervento pubblico che è necessario e che è previsto anche dalla nostra Costituzione dovrebbe imitare il più possibile questa dinamica famigliare che è la dinamica naturale ontologica.

In questo senso devono muoversi l’adozione, l’affido, o comunque il ricostruire delle condizioni che garantiscano l’esistenza di una dimora per il minore; abbiamo una certa allergia, diciamo così, per quelle che si chiamano le case-famiglia che sono in realtà dei piccoli istituti in cui turnano gli operatori per ventiquattr’ore, in cui quindi è difficile ricreare quella stabilità di rapporti educativi fondati sul nucleo forte. Veder chiamare casa-famiglia delle strutture che non hanno proprio niente di questo se non le mura, il letto, il dar da mangiare, crea una certa difficoltà. Nella regione Lombardia il numero di bambini affidati a queste case-famiglia, o case-alloggio, è superiore al numero dei bambini in affido: se è una linea di tendenza, fa molta paura. E fa paura cogliere anche tra i giudici minorili un’inversione di tendenza rispetto all’affido. In certe regioni, per esempio il Veneto, per diventare famiglia affidataria si pensa ad un itinerario formativo sostanzialmente professionalizzante, che vuol dire scardinare quella che era l’intuizione della legge 184, cioè che la famiglia normale è in grado di farsi carico di una capacità di amore. Mi dispiace anche sentire dei ripensamenti molto critici sull’adozione: l’adozione non è certo una bacchetta magica, comporta tanti problemi, però per tanti bambini è stato un buono strumento, tanti bambini nell’adozione e nell’affido hanno trovato il modo di crescere al meglio di sé, così come la loro situazione che in partenza era una situazione negativa - non dobbiamo dimenticarlo - poteva loro permettere.

Spero che il ministro sia d’accordo con me nel credere nella possibilità che le famiglie italiane sappiano vivere la loro paternità, la loro fecondità in una maniera matura, anche nei confronti di bambini che non hanno messo al mondo loro, che non hanno partorito nella carne. D’altra parte le esperienze di accoglienza sono esperienze che hanno le loro difficoltà; quindi l’importanza di questi corpi intermedi, quello che da più forza è proprio la possibilità di autoconsapevolezza, di autocorrezione e di resa nel tempo dell’esperienza di accoglienza. Questa funzione di compagnia, di aiuto, di giudizio, e anche di correzione è tanto più efficace perché liberamente accettata dalle famiglie: quando questa funzione venga invece in qualche modo imposta o suscitata dall’ente, manca il fattore di libertà e quindi una maggiore efficacia. Mi sembra che tutti noi siamo più disponibili a cambiare se accettiamo liberamente chi vogliamo seguire. Proprio per questo, vorremmo poter essere interlocutori riconosciuti alla pari degli enti pubblici, pur senza doverci vedere imporre gli stessi standard degli enti pubblici. Siamo un’associazione di volontariato che si autofinanzia, è chiaro che non possiamo avere gli standard che ha un ente pubblico che invece ha alle spalle i soldi dei contribuenti: ciò nonostante chiediamo di essere riconosciuti come un soggetto che effettivamente sta facendo un lavoro di utilità generale, dunque un lavoro pubblico.

Benzi: Vorrei elencare cinque piaghe che si possono trasformare in cinque bombe d’amore, per far scoppiare la terra dell’amore di cui c’è tanto bisogno.

La prima è l’aborto. In ogni mamma che uccide un bimbo, non ci sarà anche un atto di omissione da parte di qualcuno? Questa è la grande domanda: io sento di non aver mai le mani pulite di fronte ai poveri, perché mi chiedono una conversione continua. Ho scoperto che quando viene fissata una settimana di riflessione prima della richiesta di aborto, la vita spirituale della mamma cambia, l’azione di grazia agisce; quando poi trascorso il tempo stabilito per la riflessione e la mamma va a stabilire la data dell’esecuzione del suo bambino, si sconvolge. La mamma che uccide il suo bambino non lo vuole uccidere, ma si trova in un complesso di situazioni tali, specialmente le mamme sposate, che si sente come schiacciata. Nei consultori si commettono degli omicidi reali, attraverso dei complici, perché non si fa nulla per dissuadere la donna, come invece vuole la legge 194 e come vuole la nostra coscienza di uomini e di cristiani. Io ho chiesto e chiedo continuamente che, come prevede la legge 194, nei consultori ci siano anche persone di organizzazioni riconosciute che lavorano seriamente per la dissuasione dall’aborto. Questo perché la stragrande maggioranza delle donne che vanno ad abortire hanno fede e non c’è nessuno che parli a loro con la verità della fede. L’aborto viene chiamato interruzione volontaria della gravidanza: perché questa ipocrisia? È un assassinio premeditato, con l’aggravante che la vittima non si può difendere.

La seconda piaga è la prostituzione schiavizzata minorile: finalmente, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha dichiarato che tutta la prostituzione su strada è schiavizzata. Bisogna intervenire in via d’urgenza: bisogna impedire questa piaga, con la galera per il cliente che va dalle prostitute minorenni. I primi ad andare in galera devono essere i magnaccia, subito dopo bisogna liberare le ragazze loro vittime e permettere loro di rimanere in Italia, trovandole un lavoro o una famiglia che le accolga.

La terza piaga sono gli istituti: bisogna capovolgere l’assistenza, ripartendo dal bambino, che deve essere accolto e non assistito. I bimbi, specialmente sotto gli otto anni, specialmente gli handicappati, non devono essere più messi in strutture emarginate ed emarginanti. O anche i bambini con l’AIDS, che hanno solo bisogno di stare sul petto della mamma, non in strutture di tipo familiare che di familiare hanno solo il nome.

Quarta piaga: i bambini uccisi, una piaga che interessa moltissimi paesi esteri. Il Ministero degli Esteri o i ministeri interessati, quando danno gli aiuti ai paesi esteri, dovrebbero mettere una condizione: purché non vengano uccisi i bambini.

La quinta piaga riguarda ancora gli affidi: quando il tribunale dei minorenni decide a chi dare i bambini, non deve sentire solo l’operatore sociale, ma anche la famiglia. Non è giusto che, quando ci sono le famiglie pronte, i tribunali sono severissimi. in questa maniera dimenticano che in realtà i bambini hanno un unico bisogno: le braccia di papà e mamma.

Il primo reato di fronte a queste cinque piaghe è l’indifferenza, come diceva Madre Teresa di Calcutta. Giovanni Paolo II ha detto che le povertà non possono essere considerate un fatto naturale: nessuna società può accettare lo scandalo della miseria. L’uomo e la sua dignità vengono prima della economia e del mercato.

Turco: Pur venendo da storie diverse - anche se molti steccati sono caduti - vorrei condividere con voi con molta autenticità e con tutta la mia storia un valore forte, quello della solidarietà e della famiglia. Se ho firmato le due petizioni sulla sussidiarietà e sulla parità scolastica, l’ho fatto sulla base della mia storia e non mettendola da parte, condividendo questo valore forte che è la solidarietà. Che il pubblico non coincide con lo statale lo dimostra proprio l’esperienza della scuola e quindi penso che sia doveroso riconoscere quel ruolo pubblico che molte scuole che solitamente si dicono private hanno,o il ruolo pubblico che molte associazioni realizzano e portano avanti. Così come vedo con grande interesse lo slogan di questo vostro Meeting "Più società fa bene allo Stato". Vedo anche un’evoluzione della vostra riflessione: la non contrapposizione tra società e Stato, ma il fatto che c’è bisogno di uno Stato che svolga una funzione di regolazione e non di gestione - abbiamo tutti subito i guasti dello Stato che gestisce direttamente - e nello stesso tempo uno Stato che riesce a svolgere una funzione soltanto se riesce a valorizzare e a dare spazio a tutte le risorse della società.

Il tempo politico che noi viviamo è un tempo che ha bisogno di valori forti, di identità forti ma anche di molto dialogo e di ricerca di convergenze. Ha bisogno di dialogo e di ricerca di convergenze perché i problemi che abbiamo di fronte, i problemi che sono stati richiamati anche qui, chiedono a ciascuno di noi di avere l’umiltà di dire che non sempre da soli ce la si fa ma che c’è bisogno di ricercare, sulla base di valori forti, dialoghi, convergenze, persone di buona volontà che vogliano risolvere quei problemi gravi che abbiamo di fronte. È questo il mio modo di vedere la politica e le istituzioni.

Per quanto riguarda i temi dell’infanzia, i diritti dei bambini, e le questioni che sono state finora poste, vorrei dire che innanzi tutto condivido l’approccio che è stato proposto, che consiste nel partire dalla normalità e dalla vita dei nostri bambini. Dobbiamo anzitutto occuparci di quella normalità della vita dei bambini che vede i genitori dare poco tempo ai propri figli, non in nome di una patologia o di una devianza, ma proprio perché c’è una normalità dei nostri stili di vita che fa mettere da parte ciò che è essenziale - il tempo - per esaltare invece ciò che è superfluo, come i consumi. Questo modo di intendere la promozione dei diritti dell’infanzia, questo modo di intendere il diritto del bambino come diritto anzitutto a relazioni umane ricche e significative, come diritto ad essere amato concretamente giorno per giorno e valorizzato nella sua autonoma personalità e nella sua autenticità, è però tremendamente difficile. È tremendamente impegnativo occuparsi dei bambini in questo modo; è tremendamente impegnativo intendere la promozione dei diritti dei bambini come diritti a relazioni umane ricche e significative, e soprattutto è tremendamente impegnativo occuparsi in questo modo dei bambini nella politica. Occuparsi così dei bambini nella nostra vita di tutti i giorni e nella politica, significa non soltanto mettere in campo dei buoni sentimenti, che è comunque un fattore assolutamente essenziale, e non significa neppure toccare questioni marginali della politica, significa invece mettere mano a nodi di fondo della nostra vita di tutti i giorni e della politica. Vorrei nominarli, come elemento di una personale riflessione su un’esperienza in corso.

Promuovere i diritti dei bambini come diritto a relazioni ricche sul piano umano, promuovere i diritti dei bambini sapendo che questo significa anche spostare risorse per l’infanzia, significa prima di tutto affermare una qualità della democrazia. Una democrazia che sa ascoltare anche chi non vota, la democrazia degli esclusi, la democrazia che non dà retta soltanto ai grandi interessi in gioco, la democrazia che costruisce, attraverso il dialogo e la mediazione, quel bene comune che non è sempre facile da realizzare. Occuparsi dei bambini significa avere questa idea sulla democrazia, un’idea che non si basa soltanto sulle regole ma che punta alla costruzione della comunità e che valorizza le reti comunitarie.

Promuovere in questo modo i diritti dell’infanzia significa affrontare un altro nodo molto complicato per il nostro paese, ovvero il nostro sistema di protezione sociale. La legge 285 ha il merito di spostare risorse significative per l’infanzia, ma se questa legge non si accompagna ad una riforma del welfare State - riforma che peraltro abbiamo iniziato - che punti molto di più al sostegno alla famiglia, non si riuscirà a fare una vera politica per l’infanzia.

Occuparsi dei bambini in questo modo significa anche per noi adulti interrogarci sulle nostre relazioni quotidiani coi bambini e interrogarci sui nostri normali stili di vita. Se i nostri normali stili di vita sono, per esempio, improntati su una dimensione del tempo che è tutta velocità, tutta affanno, una dimensione del tempo in cui il tempo per la famiglia e per i figli diventa scarso, non facciamo del bene ai nostri figli e limitiamo la promozione dei diritti per l’infanzia. È la questione del rapporto tra il tempo del lavoro ed il tempo della vita famigliare, questione molto complicata perché io non credo che si possa chiedere alle donne di rinunciare al lavoro quando è cresciuta un’identità femminile che vuole lavorare e dedicarsi alla famiglia. Bisogna raccogliere questa sfida, riuscire ad avere un’organizzazione del tempo del lavoro che consenta la conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare. Spero ad esempio che il Parlamento approvi rapidamente quella legge che consente ai genitori di potersi prendere delle pause durante la vita lavorativa per poter seguire il proprio figlio.

Un’altra questione fondamentale sono le politiche sociali, che devono rinnovarsi: le nuove politiche sociali devono potersi avvalere di risorse certe, perché di fatto la spesa per le politiche sociali è irrisoria all’interno del nostro sistema di protezione sociale. Una nuova generazione di politiche sociali vuol dire una generazione di politiche sociali che punti molto sulla prevenzione, sul lavoro a rete, sulla integrazione di professionalità e di ambiti di competenza. Una nuova generazione di politiche sociali significa chiedersi le modalità attraverso cui queste nuove politiche sociali riescano a valorizzare le reti informali, comunitarie e associative, che sono una grande risorsa di questo paese, e il soggetto famiglia. Da questo punto di vista sono importanti le richieste che sono state qui formulate: la prima è che le politiche sociali abbiano come riferimento non soltanto l’individuo, l’anziano, il bambino, chi è in difficoltà, ma il soggetto famiglia; la seconda richiesta, ancora più precisa, è che venga valorizzato e riconosciuto il ruolo dell’associazionismo delle famiglie.

Sul primo punto, sul riconoscimento del ruolo del soggetto famiglia, nella legge quadro di riordino dell’assistenza nelle politiche sociali che abbiamo fatto come governo, legge nella quale si definisce quali sono i soggetti che partecipano alla programmazione per l’elaborazione delle politiche sociali, noi abbiamo indicato la famiglia. All’interno della sinistra c’è una discussione, ci sono differenze, e c’è qualcuno che fa fatica a riconoscere il ruolo della famiglia; e fa fatica a riconoscere il ruolo della famiglia perché ci si trova dentro una storia in cui la famiglia era stata contrapposta alla libertà delle donne. Se c’è un punto sul quale credo che gli steccati siano caduti è proprio questo, perché non soltanto la coscienza e la cultura cattolica, che ha nella famiglia un riferimento fondamentale, ma qualsiasi persona di buona volontà non può non riconoscere che per prevenire le varie forme di disagio, per realizzare la coesione sociale, per consentire il benessere della persona, è fondamentale puntare sulla coesione della famiglia. Questo è a mio parere un valore anzitutto laico.

Per quanto poi riguarda l’associazionismo delle famiglie, questo tema è meno scontato, e quindi ha più bisogno dell’avvio di un dialogo. È meno scontato, anche se ormai si è acquisita la consapevolezza che molte famiglie normali, soprattutto giovani, hanno il problema della solitudine e di sentirsi impreparati quando nasce un bambino o quando un ragazzo vive la fase dell'adolescenza. Molte esperienze ci dicono che il dialogo tra le famiglie è importante per prevenire il disagio, è importantissimo per combattere quella solitudine, è importantissimo per aiutare i genitori ad essere genitori. A partire da qui, è chiaro che l’associazionismo delle famiglie va riconosciuto, sostenuto, valorizzato come indirizzo delle politiche sociali proprio per dare efficacia alle politiche sociali. Bisogna avere una iniziativa anche di tipo legislativo che integri la legge 184, sulla base delle esperienze concrete.

Per quanto infine riguarda il problema della legge 184, dell’affido familiare e degli standard dei servizi, ritengo che l’affido familiare sia una grande esperienza che va sostenuta e valorizzata. È una grande esperienza perché ha la sua base nella reciprocità del dialogo tra famiglie: una famiglia che prende in carico una famiglia in difficoltà, non soltanto il bambino, è un grande messaggio culturale, oltre che di esperienza, perché propone un rapporto adulti bambini basato sulla gratuità e sulla reciprocità. L’affido familiare significa dare mano a un bambino, dargli l’affetto, dargli l’amore, dargli ciò che gli serve per crescere in quel momento, pur sapendo che probabilmente quel bambino non sarà mai mio, che sarà di un'altra famiglia. È un elemento di gratuità e di non proprietà. L’affido familiare è sicuramente un’esperienza difficile, ma è anche un’esperienza che incontra degli amici e che va fortemente sostenuta;, facendo una grande investimento soprattutto sulle famiglie affidatarie, attrezzando i servizi sociali ad essere adeguati e ad aiutare l’esperienza dell’affido familiare facendo un’azione di promozione dell’esperienza dell’affido familiare sulla comunità locale e dando un aiuto alle famiglie affidatarie. Aiuto formativo, psicologico, informativo ed anche economico. La 184 è una grande legge, sia per l’idea di adozione che è alla sua base, per cui la maternità e la paternità è data da una capacità d’amore e non soltanto dal fatto biologico. Ogni legge è una legge perfettibile che va modificata e che può essere modificata: ma i valori che sono alla base della 184, il diritto del bambino ad avere una famiglia e la concezione della famiglia come la grande capacità di amare un bambino, sono valori da confermare fortemente.