venerdì 31 agosto, ore 11
PER CONTINUARE UN INCONTRO. CHE COSE’ LA GRATUITA' SE NON DARE LA VITA PER IL MISTERO CHE SI E’ INCARNATO?
Partecipano:
Aldo Brandirali
Luigi Negri
Modera:
Alda Vanoni
A. Vanoni:
Il tema di quest’assemblea riassume la storia dell'Associazione in questi anni. Una storia che non abbiamo in nessun modo preventivato, sulla quale non c’era nessun progetto, nella quale siamo stati portati per mano da quello che ieri Mirella Bocchini definiva un disegno provvidenziale. E mi sembra che quello che ci ha fatto essere associazione, sia ciò che ci conduce adesso: in fondo, l'unica cosa che c’interessa. Quando nell’82 ci siamo messi insieme, eravamo alcune famiglie milanesi con esperienze di affido e di adozione: il nostro progetto era diverso, creare una specie di sindacato, si fa per dire, delle famiglie affidatarie, che si ponesse come possibile interlocutore del comune di Milano che, in quel momento, stava varando un regolamento che ci pareva limitasse lo spazio dato alla famiglia affidataria. Quell’inizio, in un certo sbriso casuale, ci ha portato a una storia completamente diversa. Dalle famiglie adottive, la nostra esperienza si è spalancata a persone grandi, ragazzi, malati, ragazze madri. E l’amicizia che è nata sempre più ci ha fatto capire qual era il punto fondamentale: non soltanto cercare di dare una mano, o una casa, o un affetto, o una famiglia, a queste persone abbandonate, piene di problemi e difficoltà e dolore, che incontravamo nella nostra storia, ma capire sempre più il senso di questo nostro aprire la famiglia, il luogo più personale che abbiamo, quello che ci implica 24 ore al giorno. Credo che la nostra storia di questi anni sia segnata da certe tappe come i convegni, i seminari, i momenti pubblici, ma soprattutto dalle occasioni che abbiamo incontrato. Quando per esempio i nostri amici di Firenze hanno incontrato il bisogno delle donne del Terzo Mondo che, sole, avevano il problema di dove stare coi loro bambini, è nata la casa Santa Lucia, e poi il nido: strutture che noi non avevamo né progettato, né in alcun modo immaginato perché assolutamente aldilà delle nostre possibilità, delle nostre forze, di quello che, in fondo, ci sembrava che la nostra vita dovesse indicare e fare. Questa è la storia della nostra Associazione, queste le nostre storie personali: senza pretese, ma col desiderio di dire un sì, di mettere la nostra intelligenza, la nostra generosità, ma anche i nostri limiti, a disposizione di questa costruzione che non è la nostra, come strumenti attivi. Questa assemblea, le testimonianze di oggi, hanno questo desiderio, di farci vedere l’un l’altro la presenza di un mistero che agisce. La presenza tra noi di Aldo Brandirali testimonia come questa nostra storia si sia collegata strettamente, nel tempo, con una storia più ampia, quella della Compagnia delle Opere, e in particolare con le tante opere che lavorano nel campo della solidarietà, protagoniste in questa settimana di racconti, di resoconti, di stimoli. A don Negri abbiamo chiesto, invece, di concludere questa nostra assemblea, proprio perché la sua funzione ci aiuta a recuperare quel riconoscimento del mistero che si fa carne, quello che davvero ci preme.
Testimonianza:
Mi chiamo Licia e sono di Verona, la nostra avventura è cominciata tanti anni fa. Con un’assistente sociale che lavorava con me, abbiamo sempre cercato di affrontare le cose, rispettando le persone che avevamo davanti. Così, anche quando mi sono sposata e non ho più lavorato, si è mantenuta un'amicizia per cui lei si rivolgeva a me per le varie domande. Un giorno la richiesta era di una ragazza incinta che i genitori non volevano più in casa. Ci siamo date da fare, abbiamo trovato una famiglia. Però, quando i ragazzi l’hanno conosciuta, hanno detto: "non vogliamo che questa Betty venga in casa nostra." Il tempo passava, io e mio marito abbiamo deciso di accoglierla. Ci siamo detti: da mangiare dobbiamo farlo in ogni caso, il lavoro lo dobbiamo fare, il posto per un altro letto, in casa, c'è, è una richiesta per due mesi. Intanto avevamo conosciuto le "famiglie per l’accoglienza", e questa è diventata un’esperienza. Quando Betty è arrivata, dopo un po' di silenzio ha detto: "Ma voi pregate perché vi è morto qualcuno o perché bisogna?" Allora è stato necessario chiederci perché pregavamo: non potevamo dire una cosa per un’altra. Abbiamo cominciato a pregare insieme a lei. La sua vicinanza mi ha fatto capire una cosa: io mi credevo libera, disponibile, aperta, insomma una brava persona. E mi sono resa conto che sono una carogna, perché mi davano fastidio le ciabatte in giro, le sue lunghe conversazioni al telefono, mi seccava che rispondesse in determinati modi ai miei bambini e che intervenisse a sproposito. Tutte queste cose mi pungevano e mi dicevo: ma è possibile che io sia così, che mi diano fastidio queste stupidate. Non c’era niente da fare, io sono così. Quando poi lei mi ha chiesto di chiamarmi mamma, mi ha fatto cadere letteralmente per terra: io sono così, eppure lei mi vuole bene. Di fronte a questa domanda, a parte la risposta immediata che è stata no, no guarda, ho già tre figli, (il più grande non aveva ancora sei anni), lasciamo perdere, la cosa importante è stata chiedermi chi mi ha fatto diventare mamma, e io prima di essere mamma sono figlia di qualcuno, quindi io e te siamo figlie e lasciamo alla storia quello che viene dopo, con la grande fatica di accettare, noi che pensavamo di accogliere qualcuno, di essere accolti da lei che non ci apparteneva, come non ci appartiene nessun figlio. La richiesta da due mesi si è trasformata in due anni, e la decisione di lasciarla andare è costata molto, a noi come a lei. Insieme abbiamo dovuto e potuto riscoprire anche gli amici, la grande storia che ci abbraccia attraverso il movimento. Noi non sappiamo cosa ci chiederà l’accoglienza la mia vita è questa, fatta di piatti da lavare, di bambini da accudire, di telefonate, di amici: ma è grande perché appartiene a qualcuno. Quello che chiediamo al Signore è di voler bene al bene che sta nascendo nella Betty, per l’amicizia con i giovani lavoratori, con i nostri amici. Al bene che altre persone hanno cominciato a fare. E al grande bene che è questa storia per noi.
Testimonianza:
La mia è una storia molto semplice, da cinque mesi ho accolto in casa una bimba Down. lo e mio marito desideravamo un altro figlio e avevamo fatto domanda di adozione. Così abbiamo incontrato "Famiglie per l’accoglienza". La cosa che mi sconvolgeva di più, agli incontri cui partecipavo, era che entravo con un’idea, e uscivo con un’altra, totalmente contraria: perché le cose che venivano testimoniate erano talmente grandi che io sentivo il peso della mia inadeguatezza di fronte alle cose che loro facevano. Io, con il mio desiderio di avere un figlio maschio, bello e sano, mi sentivo proprio fuori luogo. E dicevo: questa cosa non è per me, non sono adatta. Però tornavo agli incontri, volevo capire: ma non c'era niente da capire, semmai un'amicizia da condividere. Le testimonianze, simili a quelle di oggi, mi stimolavano a ripensare alla mia storia. E mi sono trovata tra le mani un grande tesoro, una grandissima felicità, più di quanto non avessi mai desiderato. Mi sono accorta che pian piano iniziavo a guardare le persone, gli amici più vicini, con occhi diversi; e provavo una grande riconoscenza, amicizia, affezione, per le persone delle "famiglie per l’accoglienza", anche per quelle che non avevo mai conosciuto prima e che non mi sembravano estranee. Qualche mese fa fui invitata a un incontro, meditavamo insieme le parole di don Giussani sull'accoglienza al volto del gratuito: alla fine furono dati tre avvisi, veniva richiesta la disponibilità per tre casi particolari. Dato che ero già proiettata nell’idea di adottare un figlio maschio, quando ho sentito l’avviso di due bambini gemelli, ho subito fatto la mia costruzione: prendo quei gemellini, son carini e così via. Poi c’era l’avviso di Daniela. Ritornata a casa, propongo a mio marito questi avvisi: lui ci pensa un po’, dice "i gemellini sono due e in adozione, chissà se siamo capaci, proviamo con la bambina in affido." Subito mi informo e mi dicono che la bimba è adottabile. Ci abbiamo pensato a lungo, per tre giorni, ininterrottamente, dalla mattina alla notte, insieme e da soli. Abbiamo deciso di prendere Daniela. E adesso Daniela è con noi.
Testimonianza:
Sono il marito, mi chiamo Massimo, sono di Rimini: voglio esprimere la mia gratitudine per l’importanza che ha avuto nella nostra storia l’associazione, indipendentemente dal fatto di aver preso con noi Daniela, per farci capire il senso di quello che facciamo. Il rischio più grosso che corriamo è quello della generosità. Perché la generosità non costruisce, forse ci fa fare venti metri, però dopo siamo fermi. Solo quando abbiamo deciso di prendere Daniela, abbiamo fatto i primi passi. Facevamo 600 km per andare a Bari e ci chiedevamo che cosa voleva dire L’altra cosa in cui ci ha fatto crescere l’associazione è la libertà dal bisogno. Noi non siamo in funzione del bisogno che incontriamo: rispondere a Daniela così come ai tanti altri bisogni che può capitare di incontrare, è accogliere una persona che Dio ha messo sulla nostra strada, nella nostra storia, è rispondere al mistero che si fa carne. Questo è fonte di un'estrema libertà: ogni giorno siamo chiamati a riscegliere.
Testimonianza:
Io sono Antonella, di Bari, assistente sociale. Alcuni mesi fa ho incontrato una bimba di 20 giorni la cui mamma era stata ospitata presso una delle nostre famiglie. La mamma era a pezzi, distrutta, e la bambina era ritornata in posizione fetale, non riusciva neanche più a mangiare. Quando la donna ci ha chiesto di prendere la bambina, l’abbiamo presa. In quel momento non capivamo niente di quello che ci stava accadendo, si trattava di rispondere. Il giorno dopo l'ho dichiarata in Tribunale con la
consueta prassi e il giudice ha fatto il provvedimento, perché il papà era tossico, ecc. A questo punto mi sono resa conto che ero di fronte a un mistero, e ho iniziato a interpellare tutti i miei amici. Ho iniziato a chiedere se non fosse il caso di chiedere l’affidamento, che avrebbe dato alla madre la possibilità di riaccoglierla (…). Nessuno ha risposto. E’ arrivato il giudice che mi ha detto di aver fatto il provvedimento per l'istituto. A quelle parole, mi sono detta: forse anch'io devo chiedermelo, tanto non ho famiglia, non sono sposata. In quel momento mi rendevo conto che anche io da tanti anni ero accolta in un cammino. In quel momento il giudice mi ha chiesto se volevo prenderla in affidamento e io ho detto sì, non sono riuscita a dire no. Così ho preso Annamaria e l’ho portata a casa, dove i miei sono rimasti in silenzio. Poi, pian piano, si sono coinvolti e oggi Annamaria è con loro a casa e io sono al Meeting. Ci diciamo sempre che la dobbiamo accompagnare, ma nello stesso tempo ci rendiamo conto del fatto che Annamaria non è nostra. Adesso Annamaria è in adozione, ma, con i miei genitori, ci poniamo sempre la stessa domanda, se non dobbiamo accogliere, con lei, anche sua madre.
Testimonianza:
Sono Mario, di Varese, vorrei raccontare come il fatto di vivere l’accoglienza cambia la vita di tutti i giorni e il modo di rapportarsi con tutte le persone. Prima è stato detto che la vita dell’Associazione e la vita di ciascuno di noi non è stata progettata: questo è vero anche per me e per mia moglie. Quest'anno doveva essere un anno abbastanza tranquillo, di routine, e invece sono successe tante piccole, grandi vicende. Lavorare all'interno dell’amicizia con tante famiglie ci ha portato a lavorare più strettamente a contatto con il Centro di solidarietà a Varese e quindi con alcuni ragazzi che erano venuti dalla Sicilia a cercar lavoro. Di fronte a queste persone è stato abbastanza immediato e naturale iniziare un rapporto che evidentemente non poteva aver la pretesa di risolvere il loro problema, non solo il lavoro, ma anche la casa. Uno di questi ragazzi ha scelto, se così si può dire, che la sua casa fosse la nostra famiglia. Non nel senso che abita con noi, ma nel senso che in tante occasioni testimonia un'affezione, un attaccamento che ci lascia sbalorditi. Ciò che da questi fatti scopriamo è il fatto che è vero che noi accogliamo, ma è vero soprattutto che siamo accolti da queste persone, richiamati, aiutati dalla loro semplicità, dal loro desiderio di non gestirsi da soli la vita, di farsi aiutare a gestirla. Allora anche tu capisci che l’amicizia non è un accessorio, ma qualcosa senza cui la tua vita proprio non sarebbe.(…)
Testimonianza:
Da un paio d’anni, da quando abbiamo una bambina, non abbiamo più la stanza per portare a casa della gente, come si faceva una volta. E tante volte accadono fatti così grossi che ti fanno venir voglia di dire: anch'io sono capace di gratuità. Mi sento in un momento in cui vorrei dare la mia vita, ma quello che è certo è che è già stata presa, e questo segna la mia esperienza. La mia libertà consiste in un fatto che mi ha preso, al quale non mi sono opposta. E mi ha preso attraverso una serie di piccoli fatti che polverizzano il tempo. Eppure è nel tempo che questa gratuità emerge. Se non le dai tempo, la gratuità - questo fatto che prende la vita -non accade. Anche senza poter fare le
cose toccanti che ho sentito da voi, sento di appartenere infinitamente a questa storia dell’accoglienza, mi sento crescere con voi per lo stesso fatto che fa emergere, nel tempo, la presenza di Cristo nella nostra vita. Grazie.
Testimonianza:
Io sono Irene di Firenze e volevo ricordare brevemente come è nata la storia delle nostre case. Abbiamo incontrato l'Associazione quando abbiamo conosciuto il Movimento, anni fa, ed eravamo un gruppo di famiglie nelle cui case, da anni, venivano accolti per brevi e lunghi periodi, in affidamento familiare, dei ragazzi, alcuni dei quali poi sono rimasti con noi. L’incontro con le "famiglie per l'accoglienza" è stato l'incontro col Movimento, con una compagnia che ci ha fatto capire cosa stavamo facendo, perché, come dice Don Giussani, è ben diverso vivere una vita di gratuità, senza andare a fondo di cosa significa per noi e di come segna la nostra storia. Ancora diverso è viverlo con degli. amici che ogni giorno ti richiamano a quello che stai facendo, al perché
questa storia porta con sé dei segni così grandi e visibili. Nel vivere questa storia di famiglie accoglienti, è importante notare una cosa. Le persone piene di fatica e di dolore che accoglievamo trovavano un luogo fisico nelle nostre case. Questo voleva dire che la casa era veramente un luogo di appartenenza, come la famiglia, un luogo dove queste persone, che fino a quel momento non avevano avuto niente di fisso, trovavano un calore e un affetto visibile anche negli oggetti, nelle mura che li circondavano. Era un fatto importante, e quando abbiamo incominciato l’accoglienza di mamme, bambini stranieri, è diventato ancora più visibile perché gli stranieri, per antonomasia, non hanno dei luoghi e hanno bisogno di trovare un luogo e quindi se stessi, con questo luogo. E stato così che l’Associazione, oltre a continuare il lavoro di compagnia, di verifica e di aiuto delle persone che in casa hanno ancora bambini e continuano ad accogliere, ha chiesto di poter aprire una
casa che in due anni ha accolto più di 500 donne, alcune anche per brevissimi periodi, naturalmente. Abbiamo cercato - e siamo riuscite a farlo con la seconda casa che il comune ci ha assegnato alcuni mesi fa di dare un luogo affettuoso a queste persone: le case non sono due strutture fredde o lucide che si offrono come immagine di un’Associazione che vuole a tutti i costi dare delle risposte ai bisogni emergenti, ma luoghi in realtà fisicamente belli, gradevoli, nei quali queste persone trovano ogni giorno la risposta, anche se minima, al loro bisogno di accoglienza; trovano altre persone a loro disposizione, per tutto quello che è ascolto, incontro. Devo dire che lì dentro abbiamo incontrato veramente il segno visibile della Provvidenza, perché queste case in cui centinaia e centinaia di donne e bambini sono passate, sono tuttora l’unico tipo di assistenza. Noi viviamo di carità e questo significa che ogni giorno il Signore ci fa arrivare quello di cui abbiamo bisogno. Si
tratta della verifica che ogni storia porta con sé il segno grande di questo mistero che si è fatto carne.
Testimonianza:
Mi chiamo Franca e sono di Rimini. Da un anno a questa parte abbiamo accolto a casa nostra il babbo di mio marito, mio suocero che ha 77 anni e da vent’anni circa è ammalato del morbo di Parkinson. Un’esperienza che stiamo facendo non ha nulla di clamoroso, nel senso che se non fossimo stati noi ad accogliere quest'uomo, nessun altro l’avrebbe fatto perché mio marito è figlio unico, e quindi lui sarebbe rimasto in un ospizio, più o meno accogliente, più o meno gradevole, ma pur sempre un ospizio. Ciò che ci ha fatto compiere questo gesto non è tanto un senso del dovere fine a se stesso, quanto la gratitudine grandissima che abbiamo nei confronti del Signore, per i doni
che lui in tutti questi anni ci ha fatto. La Sua presenza ci ha maturati e una delle manifestazioni del suo amore è stata l’incontro con l’Associazione. Quando mio suocero è arrivato in casa nostra, io ho cercato, non solo di dargli una buona accoglienza, ma anche di darmi da fare prevenendo i suoi bisogni, cercando di essere attenta in mille modi, e questo ha comportato e comporta ancora un notevole dispendio di energie. Ma non mi costa, perché sto capendo che il sacrificio è fondamentale per la nostra vita e la croce, una normale condizione di vita per il cristiano. Comunque, aldilà di tutte le mie previsioni, mi sono accorta che se non mi fossi continuamente affidata in questo cammino alla preghiera non avrei retto. Pensavo un giorno a quello che un sacerdote di Rimini disse
parlando del bisogno umano, che il bisogno è quella sporgenza della realtà che ci richiama al mistero: guardando mio suocero costatavo che proprio era così
Testimonianza:
Sono Novella di Castelbolognese, sono venuta al Meeting con tantissime domande: mi chiedevo soprattutto se è vero che la vicenda dell’accoglienza rende concreto quel dare la vita per uno che ci ha accolto gratis e mi sono accorta che non era così chiaro e scontato. Venendo qua mi dicevo: ma dov’è quel mistero per cui io devo dare la vita, come è possibile risperimentarlo perché in me rinasca l’energia? lo mi sto accorgendo che il dono che ci raggiunge attraverso l’Associazione è questo forte richiamo a un rischio dentro i rapporti Sono rimasta molto colpita, in questi giorni, anche dal lavoro che insieme ad Aldo abbiamo fatto, per reinterrogarci su come le nostre esperienze potevano essere arricchite vicendevolmente. Ho stimolato anche gli amici con cui stiamo costruendo questa casa ad incontrarci, col desiderio che veramente il nostro limite venga recuperato dentro questa appartenenza. L’altra cosa che mi ha molto colpita è questa: dentro la storia di un Movimento, dentro l’incontro che ogni uomo fa, si riapre la dimensione naturale della gratuità. Sono venute molte persone a dire che erano disponibili ad accogliere. Per me l’Associazione è questo: la possibilità che la vocazione all'accoglienza, che è normalmente aperta dall’incontro con Cristo, possa portare il suo frutto. E di testimonianze in questi giorni ce ne sono state a bizzeffe. L’altro giorno, una signora che abbiamo incontrato e che aspetta un bambino handicappato diceva: come è vero che dentro la compagnia e dentro l'esperienza di Cristo vissuta nel quotidiano, uno riesce a perdonare la diversità, perfino l’handicap. Ecco, queste sono le cose che in questo Meeting, dentro l’esperienza di famiglie per l’accoglienza stiamo assaporando: vale la pena dare la vita per il mistero che ci accoglie, quando un altro più grande ci ridona quest’energia. L’accoglienza diventa frutto di gratitudine. Vorrei che Aldo potesse dire qualcosa a questo riguardo.
Testimonianza:
Innanzi tutto ringrazio l’Associazione che conosco da poco, perché promuove nelle famiglie una consapevolezza. Io opero in una comunità terapeutica d’accoglienza solo diurna, ma constato molto spesso un’ignoranza, l’abitudine a dire mio figlio, che produce poi un'educazione, una cultura. Uno dice mio figlio, è mio figlio, invece il figlio che è di un altro, è nato da un altro, non può essere mio figlio, perché, di fatto, non nasce da me. Io cerco di portare le persone ad una considerazione ulteriore: tuo figlio è tuo perché lo hai costruito, oppure la vita ti è stata data? La vita di tuo figlio
ti è arrivata vicina perché l’hai trovata già esistente Come Associazione, voi fate un meraviglioso lavoro nell’aiutare le persone a capire la distinzione e la vera realtà della vita nella quale ci troviamo immersi, quindi io dico a me stesso: la mia vita mi è stata affidata, io accolgo la mia vita e la distinzione tra il figlio mio e quello di un altro è solo di vicinanza. Questa consapevolezza è indispensabile per rompere il timore e la paura.
A. Brandirali:
Se avessi parlato all’inizio, mi sarei tuffato in questo cuore dicendo grazie, grazie per tutto quello che siete, per quello che implica. Io faccio una ditta per l’accoglienza, si tratta di una cosa diversa, però dentro questa ditta ho della gente che, grazie a Dio, fa "famiglie per l’accoglienza", per cui la trama serve a qualcosa. Però dopo aver sentito gli interventi, mi è venuta una specie di ribellione, non contro gli interventi stessi, per carità, ma la voglia di provocare uno spostamento leggero dello sguardo. Nel senso che, testimoniando tra voi, giungete fino a un bellissimo punto in cui dite che i
conti tornano: l’accoglienza mi ha cambiato e ci ho guadagnato anch'io. questo il punto in cui vorrei ribellarmi. Perché voi non siete mica gente normale, c'è una normalità dell’accoglienza, certo, ma c'è anche un’anormalità, in questo Meeting dove la gente mi sembra fuori di testa, a passare l’ultima settimana di agosto tra il caldo e la baraonda, ed è proprio quel fatto che mi ha cambiato la vita. Allora? Pensavo a questo mentre ascoltavo questa serie enorme di gesti, di fatti, in tutta Italia, dal sud al nord, dappertutto, una cosa incredibile. Pensavo che io, con la Cooperativa "Impianti 2000", 7,8,10 casi trattati, sono andato in giro a raccontare, dappertutto. Ma non c’è proporzione rispetto alla potenza missionaria che c’è dentro di voi: allora questa vita cambiata consiste nella capacità di andare a dirlo, di rendere testimonianza, di fare evangelizzazione, di essere espressione di presenza. Insomma, io sarò anche bravino a raccontare le cose che faccio, ma è la potenza stessa delle cose. Il cambiamento allora consiste proprio nel fatto che non sei più semplicemente una famiglia, sei un militante, uno che ha ricevuto in dono la possibilità di dire alla gente, al popolo, questa novità presente. Testimoniare fuori, mostrare che i conti tornano ma, nello stesso tempo, che è un’eccezionale, grande espressione della novità presente in questo Paese, in questa epoca, in questa modernità allucinata. Nello stesso tempo, vorrei sottolineare la trama dicendovi che Serignè, un sudanese che è diventato bravissimo nella mia ditta, sta in una famiglia di sette figli. E’ stato accolto, lui che è nero come il carbone, ha ormai una mamma piccolina e bianca. Incredibile. Ma a questo mio Serignè, il principe lo chiamo, manca un quid, e gli è venuta voglia di fare un viaggio di
ferie in Sudan. Il problema è che c’è là una ragazza che gli è stata promessa in moglie da quando aveva sette anni: il corollario culturale è altro, vuole andare e nello stesso tempo vuole rompere tutto, tagliare le radici, insomma. E la preoccupazione è proprio che ora riguadagni, invece, questo affronto delle radici, che riscopra la capacità di portare nel suo Paese, nella sua cultura, nella sua storia, quello che ha incontrato. Ieri uno di quelli che organizza il "Meeting del Mediterraneo" mi ha detto: "Sarebbe interessante organizzare insieme la questione degli extracomunitari, se trattassimo il tema di come l'Islam, gli islamici possono rapportarsi con il cristianesimo, ecc.". Io, a un certo punto, non ne ho potuto più e gli ho detto: "guarda, per quello che risulta a me, si incontrano i cristiani." E il problema non è quale mediazione sulla loro origine, o cultura, o tradizione, anzi. Agli imprenditori che mi dicono, ma cavolo, questo si ferma cinque ore al giorno per pregare, si mette sempre in ginocchio lì, mi viene da rispondere (e per dirlo io, figuratevi): magari ti fa memoria di una cosa che può servire. Vedo qui Osman, per esempio, uno attivo nella Cooperativa San Martino, che è venuto qui al Meeting, con gli occhi spalancati: è il suo incontro reale di carne, di sangue, di fatti, di evidenze, che diventa il dibattito, la possibilità interiore, non di abbandonare la propria religione, ma di riguadagnare la ragione di essa, per quello che ha di buono. Questa è anche la storia di Gabriele. Gli amici di Crema, quattro famiglie, tengono le quattro figlie di questo etiope, che ha altri tre figli giù in Etiopia, non so quante mogli, e che lavora lì da me. E' come se tutti, io con la ditta, gli amici di Crema con le famiglie, stessimo lavorando per una ricomposizione: ma una ricomposizione di quale moralità? Dobbiamo ammazzare le altre mogli, cosa possiamo fare? Da quel che ho notato, tutto questo incontro con i cristiani, proprio di un’apertura nuova che è di coinvolgimento e di scambio, fa guadagnare innanzi tutto una disponibilità umana perduta. Perché ciò che è più evidente, nel disfacimento di famiglia, di condizione umana, è legato alla miseria, ma anche alla fragilità di una dimensione culturale ed etica: e allora riguadagnare una dignità, ma soprattutto la struttura di sé, è più importante di qualunque definizione di come dovrebbe essere la sua famiglia: proprio perché esso abbia le armi per giocare liberamente, a fondo, la sua identità. Allora, questa idea che siamo tutto un pulsare di una compagnia di opere, e che quindi siamo una trama che è fatta di famiglie, di aziende, di scuole, è la grande opera che sta, non su un valore, sulla moralità della famiglia, sull'efficienza o validità di un impresa, sulla novità o ragion d'essere di una scuola libera, ma veramente nella missione che si svolge qui, a fronte di tutto ciò che chiede, che chiama disperatamente, nel suo bisogno. Questa missione che si svolge qui è tutta su uno, e partecipa della nostra operosità, di un incontro, di una possibilità che ricostruisce, nel bisogno, la dignità dell’uomo.
L. Negri:
Se devo dire come il sentimento della partecipazione a questo grande avvenimento, che è stata la vostra assemblea di questa mattina, all'interno di quella grande assemblea che è il Meeting, dico che Giovanni Paolo Il ha una volta definito l'esperienza della presenza cristiana nel mondo con questa espressione: "Era necessario che l’eroico diventasse quotidiano e il quotidiano eroico". Non c'è volto della missione cristiana più profondo e più vero di questo: che la quotidianità sia vissuta nella certezza dell’appartenenza all'eroico. L’eroico è la presenza di Cristo. L’unica cosa che dà significato e valore e dignità a tutto, all’istante, come al pensiero più sublime, come all’esperienza più vergognosa del limite, è solo la presenza di Cristo. Per questo la prima parola è "missione". Siete la missione di Cristo nel mondo, nella quotidianità e nella normalità della vita. Lo siete in varia misura, ma in modo commuovente esemplare; lo siete perché vivere la gratitudine di essere stati accolti, voi per primi. Ed è la gratitudine di un’accoglienza il primo aspetto di questa accoglienza degli altri: sta nell'offrire loro un luogo dove il calore dell'affetto, l’avete detto, si esprime anche attraverso le cose. Chi come me ha vissuto per decine d'anni in una casa sostenuta dalla fede e dalla carità di una madre e di un padre, sa quanto questa sia una cosa vera, che sta prima di tutte le altre per l'uomo di si oggi sballottato, distrutto, massificato, espropriato. Un luogo di accoglienza, dove il calore dell'affetto si esprime anche nella povertà, ma nell'ordine, delle cose. Ma questo è possibile soltanto nel sacrificio quotidiano del tempo e delle energie. L’esperienza di questa accoglienza che si fa nella vita, è stata indicata benissimo: le doti, che pur sono necessarie, e di cui Dio vi ha certamente forniti non sono più spunto per una presunzione, i limiti non sono più, lo ha detto benissimo il primo intervento, un’obiezione, ma un dato su cui si costruisce e, soprattutto, si riceve, molto più di quanto non si desideri. Poiché questa accoglienza di cui siamo stati oggetto, è diventata anche una struttura d'aiuto, di richiamo reciproco, operativo, stringente, che cambia il modo con cui guardare i problemi perché quando uno rinasce, è stato detto, l’occhio con cui guarda tutto è diverso la vostra Associazione, nella gioia della grande compagnia che ci accompagna da tanti anni, adesso ci rende lieti e in pace. Ultimo punto, dunque, è la missione di Cristo nel mondo, alla quale partecipiamo così come siamo, senza farci molti problemi per la strada che c'è ancora da fare, certi della pazienza che il Signore dovrà usare con noi. Tutti attenti alle circostanze che ci darà, ai segni che pone dentro la nostra vita o nella vita dei fratelli che ci circondano, attenti ai bisogni degli uomini, che sono il grande, continuo grido di Dio alla nostra vita. Ma il cuore di questa missione, e l’aspetto per cui questa missione si rinnova continuamente, è che ci rende più pieni di confidenza verso Cristo. Quando qualcuno di voi ha parlato del modo nuovo con cui ha riscoperto la preghiera, mi è venuto in mente che l'ultimo giorno di una vita, come l'ultimo giorno della storia della Chiesa, tutto quello che abbiamo fatto e creato, tutti i limiti che abbiamo portato e tutta la gioia che abbiamo vissuto, tutto il dolore che abbiamo sopportato, tutto questo dovrà dare spessore e consistenza all'unica cosa che da 2000 anni la Chiesa grida: vieni, Signore Gesù. Che la nostra esperienza, che la vostra esperienza di accoglienza, nella normalità e nella quotidianità della vita, sappia rendere ogni giorno più vero questo grido, sappia incrementare questo grido che la Chiesa rivolge ogni giorno al Signore. Vieni Signore Gesù: questa è la cosa più profonda da conquistare ogni giorno, ma anche la cosa che dà verità ad ogni istante della nostra esistenza. Grazie.