Dove va l’informazione in Italia
Giovedì 27, ore 15
Relatori:
Paolo Liguori
Walter Veltroni
Paolo Mieli
Alessandro Banfi
Carl Bernstein
Moderatore:
Alberto Savorana
Savorana: Carl Bernstein ha aperto su New Republic, una rivista statunitense, un dibattito sulla cultura popolare e sull’informazione; l’articolo, ripreso e rilanciato in Italia dalle colonne dell’Unità, parlava di una "cultura idiota".
Ai nostri ospiti vorrei chiedere quale opinione hanno del loro lavoro, della responsabilità che esercitano per l’informazione in Italia e se l’informazione e i mass media contribuiscono in qualche modo ad aumentare il deserto di solitudine e di violenza della nostra società, o, all’opposto, collaborano e lavorano per favorire un risveglio, una coscienza popolare.
Paolo Liguori, direttore de Il Giorno.
Liguori: Quali sono oggi i problemi da affrontare a viso aperto nel campo della comunicazione e dell’informazione?
Io sono parzialmente d’accordo con la definizione di "idiota", riferita alla cultura dei giornali e all’informazione: è certamente una cultura idiota nel senso che è una cultura molto spesso sorda, che poche volte percepisce e raccoglie la realtà e che, più spesso, fa centro su se stessa. Credo che ci sia una cultura dell’informazione specifica, se si può definire cultura quella che esce dai giornali. Essa è molto autocentrica, si autolegittima per trovare, con le persone e con la realtà, un continuo alimento. Il problema esiste e questo problema è dato dalla velocità della comunicazione che è già aumentata ed è impossibile che venga seguita a pari passo dall’impegno e dal lavoro dei giornali e dei mezzi di comunicazione. Così, la velocità della comunicazione e la lentezza degli addetti alla comunicazione producono inevitabilmente un concentrato culturale di opinioni trasmesse all’interno di questo circuito, senza che questo comporti una verifica costante all’esterno. Idiota, perciò è questa cultura, cioè fessa, sorda. La cosa grave è che, però, essa non ci viene proposta come stupida, semplicistica o superficiale, ma ci viene trasmessa dai mezzi di comunicazione come un modello culturale. E’ una cultura intelligente quella dei giornali che contrappone le persone del Meeting alla realtà dell’Italia moderna, pretendendo che le prime siano una folla di retrogradi, persone che guardano il passato mentre fuori c’è l’Italia moderna che va avanti? A voi sembra intelligente che i giornali considerino progressista chi tiene per Bush e conservatore, reazionario, uomo del passato chi parteggia per Clinton? A voi sembra una cosa intelligente che le ragioni della guerra in Irak siano ragioni di modernità? Questo è sui giornali tutti i giorni, questo è il filo con cui i giornali e i giornalisti, una cultura, leggono l’attività quotidiana, leggono i giorni del Meeting, leggono le parole, le frasi. E’ un’operazione culturale profonda, un’operazione culturale totalitaria e sui giornali è presentata come una operazione scontata e acquisita, anzi, come punto di partenza per qualsiasi ragionamento. E chi non parte da questo punto acquisito è fuori dalla cultura dominante dei giornali, dunque è arretrato, retrogrado, è una persona che vuole portare il mondo indietro.
Questa non è una cultura idiota, questa purtroppo è una cultura intelligente, troppo intelligente, di una intelligenza basata sul nulla, una intelligenza che sfugge alla realtà, alla pratica, al contatto con le persone. Ed è una cultura semidittatoriale che crea un’esclusione dalla quale ci si può salvare solo chiedendo scusa e chiedendo di essere riammessi nel cerchio. Ma ci si può difendere scegliendo un modo di informare che prescinde da tutto questo e mette al primo posto quello che si pensa e i valori che si vogliono sottolineare. Naturalmente, inevitabilmente in un panorama come il nostro, questa diventa una cultura di parte, una cultura faziosa, ma in realtà diventa un modo di fare educazione e un modo di portare avanti non solo le informazioni basate sulla notizia, ma anche le cose che uno sente, crede e vuole affermare mettendole in prima fila, dando un volto, sapore e odore a quello che si vuole far conoscere. Questo tipo di informazione oggi è una informazione di parte, partigiana, faziosa e non può essere altrimenti; non si può altrimenti convivere con questo regime dell’informazione se non assumendo una delle parti in causa. Per quanto mi riguarda sono convinto che ciò sia necessario e indispensabile. Oggi non si sono ristrette le quantità di informazioni, si sono ristretti gli spazi di penetrazione in questo modello abbastanza chiuso. Si può fare buona informazione se si ha qualcosa da dire, se si ha una esperienza da comunicare. Credo che questo valga per i mezzi, per i giornali e per le televisioni, ma credo che questo valga per i singoli giornalisti. Dalla mia esperienza posso dire che questo vale anche per i direttori di giornali.
Walter Veltroni, direttore de L’Unità.
Veltroni: Bernstein indica un rischio reale nella situazione italiana. Tuttavia vorrei sottolineare che a mio parere i giornali italiani non sono assimilabili al panorama dei giornali che caratterizza il mercato europeo: i giornali italiani sono molto più ricchi, più colti, più attenti alle cose che accadono nella sfera della politica dell’economia e della società, più cosmopoliti di quanto non lo siano altri giornali.
Per quanto riguarda i giornali vedo tre difetti: uno è quello della semplificazione e la semplificazione è anche costantemente schematizzazione: bisogna sempre ridurre in Guelfi e Ghibellini, in bianco e nero, in modo tale che la complessità delle cose, degli argomenti, venga il più possibile frantumata e ridotta al suo osso attraverso un processo che è di riduzione. Secondo difetto è la tentazione di raccontare le cose che accadono attraverso un’unica chiave che è il commento: noi abbondiamo di commenti, tutti i nostri giornali sono stracolmi di opinioni, di valutazioni! Quello che manca nei giornali italiani è raccontare le storie, le storie delle persone, le storie che in qualche modo possono nel loro stesso svolgersi meglio testimoniare, rappresentare un problema di carattere generale. Ad esempio a noi dell’Unità è capitato di raccontare la storia di un bambino di 13 anni profugo da Sarajevo e ci è sembrato che quella storia per la sua forza e anche per i contenuti che dentro di essa erano racchiusi potesse raccontare il drammma, non sufficientemente ascoltato e capito di quello che sta accadendo in Jugoslavia molto più di quanto non avessero fatto tanti saggi e tanti opinioni.
Terzo difetto: l’informazione è una macchina micidiale, uccide ma non restituisce la vita; l’informazione può avere la forza di costruire un mostro in 24 ore, ma non ha la forza né, tante volte, la volontà di stabilire una dignità perduta. Sento molto il dovere di rispetto della persona, sento molto la delicatezza e la forza dello strumento che abbiamo in mano, tanto delicato e tanto forte da doverlo usare con parsimonia, con attenzione, da dover tener sempre presente che si sta parlando di persone in carne ed ossa, persone delle quali una parola su un giornale può in qualche modo decidere il senso e il destino di una esistenza.
Un’ultimo problema che in Italia ha una rilevanza del tutto superiore rispetto agli U.S.A. è la concentrazione dell’informazione: la stragrande maggioranza dei mezzi di comunicazione di questo Paese sono in mano a grandi concentrazioni economiche finanziarie, coloro che possiedono grande parte della ricchezza nazionale. Questo determina il fatto che in Italia sostanzialmente solo pochi gruppi parlano attraverso gli organi di informazione in particolare attraverso la TV. Tale processo è visibile anche per ciò che riguarda l’informazione su carta stampata. Negli USA esiste un sistema di leggi che regolano il sistema di informazione, fondate su principi come il rispetto della libertà di informazione. In un Paese moderno la libertà di informazione c’è non se io posso attaccare un cartello con su scritto che il governo è cattivo, ma se c’è una reale pluralità dei soggetti di informazione. E l’unica forma attraverso la quale si può garantire la pluralità dell’informazione è che ci siano tanti soggetti, tanti punti di vista, tanti linguaggi, tanti editori piccoli medi e grandi, tante voci diverse nelle quali il cittadino legge e sa scegliere per farsi la sua opinione.
Dalle suggestioni di Bernstein ricavo questo: la consapevolezza di alcune tendenze pericolose che ci sono, di alcune tendenze alla imbecillizzazione in particolare nella TV, che si verificano e che si misurano. Io non riesco a rassegnarmi al fatto che per anni in questo Paese, abbiamo pensato a indovinare quanti fagioli ci fossero in un barattolo che teneva sul tavolo la Carrà e che chi indovinava vinceva milioni. Questa idea che più c’è ascolto e più il programma è bello è un’idea che va contestata in radice. Io credo che, per esempio, sarà un bel giorno quando per rilevare la televisione si istituirà l’indice di gradimento. Anche evitare che l’informazione venga triturata all’interno di un mondo e di una modernità che finisce per essere, come dice Calvino, cimitero di macchine arrugginite.
Paolo Mieli, direttore de La Stampa.
Mieli: La storia del giornalismo italiano è la storia di un giornalismo partigiano a Nord, nel Piemonte, in Lombardia, ma anche in Campania, a Roma, un giornalismo di forte tendenza, di piccoli giornali molto determinati a sostenere la loro causa. Giornalismo partigiano teso a diventare giornalismo di regime durante la prima guerra mondiale perché la patria chiamava, e toccava avere dei comportamenti autocensori e poi ovviamente durante il regime fascista e anche nel lungo regime non solo democristiano seguito al regime fascista: una stampa abbastanza monocorde, ovviamente con eccezioni, salvo riprendere verso la fine degli anni ‘60 e durante gli anni ‘70, una propria identità più battagliera.
Mentre ritornava a essere giornalismo partigiano trovando in ciò la sua modernizzazione e la sua evoluzione, incrociò il lavoro fatto da Bernstein, incrociò il mito del caso Watergate. In Italia fu poco conosciuto nei suoi dettagli giornalistici di ricerca, di fatica della ricerca e venne interpretato come un giornalismo prevalentemente giudiziario fatto a soffiate di giudici amici e di carabinieri, poliziotti o amici nell’amministrazione volti a demolire chi era antipatico. In quegli anni lavoravo ad un settimanale molto esposto a questo tipo di giornalismo, L’Espresso. Si cercava di fare una sorta di Watergate quotidiano in cui si faceva un lavoro che era in realtà molto comodo e gratificante. Si andava dal giudice o carabiniere amico, si faceva una carta che si verificava fino a un certo punto, si dava addosso in un modo selvaggio a qualcuno e si era coperti, perché la carta esisteva; quando il magistrato chiamava a deporre si mostrava la carta e ci si nascondeva dietro il segreto professionale. Purtroppo la nostra generazione professionale è cresciuta anche così. Poi si sono creati in Italia anche esperimenti di successo di un giornalismo che mischiava questo modo di essere tendenzioso e partigiano con una serie di amenità, cose che inclinavano verso la cultura idiota, nel senso letterale del termine; tale misto ha poi formato invece quella cultura idiota nel senso metaforico del termine, e cioè un misto di giornalismo partigiano, non onesto, una sorta di partigianeria di stupidaggini.
Io mi sforzo di realizzare un giornalismo che esalta il conflitto e che ha il conflitto come tema principale presentato nel modo più chiaro possibile al proprio pubblico, scavando non in modo unidirezionale e scavando alle radici dei conflitti cercando di spiegarli e presentarli in modo che la gente possa orientarsi, capire e poi scegliere dopo aver capito. Il mio ideale di giornale è un giornale che abbia una fisionomia precisa, che si sappia quello che vuol dire! Ad esempio, sulla guerra del Golfo abbiamo preso una posizione netta e impopolare; Il Sabato, allora, fece un censimento degli articoli pubblicati a favore e contro la guerra: risultò che La Stampa era il giornale che aveva pubblicato il maggior numero di articoli a favore ma anche il maggior numero di articoli contro. Non vogliamo dissimulare e fare un giornale che finga di essere buono per tutti che si presenti in modo imbroglione ai lettori. Vogliamo presentarci come un giornale che dice quello che pensa in maniera pacata, comprensibile intelligente argomentata e poi dare anche forti argomentazioni espresse in totale libertà. La prima pagina è la pagina che dà l’identità e il modo di essere del giornale. Se ho qualcosa da dire, su qualsiasi argomento, la dico, la sostengo, non mi voglio nascondere dietro l’obbiettività; essa la si fa vivere dando l’opportunità, a chi non è d’accordo con quello che ha letto in prima pagina, di leggere altro. Apprezzo un giornalismo d’inchiesta di lavoro di scavo, capace di tirar fuori aspetti inediti della società; diffido del giornalismo di anatema, del giornalismo di scomunica, del giornalismo violento, del giornalismo che si scatena, cerca di distruggere l’avversario. Secondo me, nei giornali italiani, negli ultimi anni si sono fatti notevoli passi in questa direzione.
Alessandro Banfi, direttore de Il Sabato.
Banfi: Oggi, probabilmente i quotidiani italiani sono straordinariamente migliori dei quotidiani del resto del mondo, e probabilmente la stampa italiana è ancora di qualità. Ogni giorno arrivano 150 periodici diversi in ogni edicola, però con i ciucci, i chewingum, e tutto questo porta un decadimento reale. Perché? Perché oggi l’America è il centro di un nuovo ordine mondiale, di un mondo senza più l’altra metà, senza più il Comunismo. In questo mondo i punti di vista sono sempre minori, si restringono; c’è il fenomeno delle concentrazioni, il fenomeno dell’omologazione, c’è il fenomeno dell’instupidimento dell’informazione. La stampa è il termometro del grado di libertà e di democrazia in cui i Paesi vivono. Nel mondo c’è la tendenza a portare il livello del ragionamento della gente sempre più in basso. Certamente sono fenomeni utili al sistema di mercato quelli che spingono alla concentrazione e all’instupidimento, che spingono a dire tutti la stessa cosa, all’omologazione.
Però l’articolo di Carl è una speranza, perché è il segno che c’è la voglia di qualcosa di diverso, proprio là dove questo fenomeno è più forte. C’è voglia di qualcosa di diverso, c’è voglia di una nuova frontiera, c’è voglia di aumentare i punti di vista, c’è voglia di tornare a pensare un po’ di più, c’è voglia di uscire dall’instupidimento. Ecco, la cosa straordinaria è che i pubblicitari di Milano che probabilmente non hanno fatto un ragionamento molto teorico su questo, sorprendentemente chiedono a noi, operatori dell’informazione, di dire qualche cosa di più alla gente.
Io sono ottimista partendo dall’idea che siamo in una situazione di passaggio. Si è aperta una grande vertenza nel mondo oggi; dove dobbiamo andare dopo la fine del Comunismo, dopo la fine di una cosa che ha ingessato tutti? Dobbiamo ingessarci tutti in un unico modo di vedere le cose o dobbiamo aumentare i punti di vista? Il saggio di Carl su New Republic ed anche il dibattito che ne è seguito in Italia, esprimono la voglia di rompere una cappa che sta diventando sempre più soffocante.
Il Sabato è quasi solamente un punto di vista, però è un punto di vista importante ed ha il suo peso perché in questo paese c’è ancora la possibilità di ragionare, di discutere, di dibattere e di fare polemica. Noi in Italia, anche nell’informazione, sosteniamo una posizione molto chiara. Di fronte a questa vertenza ci appelliamo al meglio che c’è nelle tradizioni di questo paese perché reagisca alla normalizzazione, al processo di omologazione, alla cultura dei ciucci, all’instupidimento collettivo. La nostra polemica fortissima è con i poteri forti che vogliono ristrutturare questo paese, e l’informazione, in modo sempre più verticistico. La polemica con la P2, ad esempio, è la polemica col golpismo, cioè con un modo, molto chiaro, molto sfacciato, di commissariare l’Italia in un nuovo assetto, buttando a mare il meglio che può ancora avere una grossa carta da giocare. La vertenza è globale, ma la vertenza sul’informazione è aumentare i punti di vista, e per aumentare i diversi punti di vista bisogna che anche da diverse parti, le persone che hanno a cuore questo principio di libertà e di democrazia, coloro che hanno a cuore l’interesse generale, devono almeno in una frase trovare un punto di accordo, e affrontare responsabilmente la situazione. L’altra strada è chiarissima, l’altra strada è la ristrutturazione selvaggia, è la privatizzazione selvaggia, è il golpismo, è un fatto che in qualche modo violenta la nostra storia, la nostra tradizione. Noi portiamo avanti questo discorso con grande forza, e pensiamo che la partita che si è aperta nel dibattito italiano, sia politico che culturale, non sia ancora chiusa.
Bernstein: Nel passato, tradizionalmente, si ottenevano informazioni che provenivano dai giornali, dalla radio, dalla televisione, dai libri, dal cinema. C’erano degli standards che andavano dai punti più alti, rappresentati dall’informazione come veniva data sul New York Times o sul Washington Post, scendendo fino ad una forma di giornalismo più popolare, di minor valore, quella che si trovava su Life o sul Time, o anche in alcuni casi, nei telegiornali.
Nel corso degli ultimi dieci anni si è cominciato a vedere qualche cambiamento. Mi riferisco ad un’intera cultura dell’informazione completamente nuova, una cultura che proveniva da spettacoli televisivi, radiofonici. Non era semplicemente fornire delle informazioni attraverso degli strumenti di tipo più popolare, ma in modo scioccante, sensazionale, in un modo anche strano, a volte, in un modo che alla fin fine potremmo anche chiamare ignorante.
Questo tipo di spettacoli sono diventati strumenti per fornire al pubblico un tipo di informazione assolutamente irresponsabile, che ha ben poco a che fare con la tradizione della stampa, del giornalismo popolare responsabile. La tragedia che abbiamo dinanzi agli occhi in America è costituita dal fatto che questo tipo di trasmissioni e di programmi, una volta ambito soltanto da un gruppo ristretto di giornali che non avevano nessun valore, è diventato ormai purtroppo il modo dominante con cui in America viene fornita l’informazione al pubblico. Se uno si siede davanti al televisore la sera, ci sono cose orribili, drammi che hanno interessato il pubblico nel modo più negativo, programmi lunghissimi che parlano della vita sessuale condotta dagli attori e dalle attrici più famosi. Allora, questo tipo di neo giornalismo, o non-giornalismo ha cominciato ormai a diffondersi in un modo tale da mettere in secondo piano quello che è il giornalismo responsabile, acquisendo cioè un potere molto maggiore. Purtroppo il numero di persone che si interessano a questa spazzatura sta aumentando sempre più, e questo sta portando delle modifiche enormi a tutto il discorso sociale-intellettuale dell’America. Questo tipo di informazione ha cominciato a dominare anche il dibattito politico in vista delle elezioni del nuovo presidente dell’America. Molti spettacoli non sono stati nient’altro che un’occasione per una serie di discussioni assurde, ridicole, senza nessuna importanza. Tutto questo è sensazionalismo e in questo modo si finisce per escludere sempre più ogni dibattito serio sui problemi più profondi che il paese vive.
Quale deve essere il nostro ruolo? Noi dobbiamo fornire informazioni che devono essere il modo di riprodurre la realtà nella forma più vera possibile. Come giornalista ho paura che, soprattutto in America, ci si stia allontanando sempre più dalla verità più perfetta possibile tra quelle ottenibili. E questo avviene in seguito ad una eccessiva semplificazione del risultato per il fatto che non si riportano sulla stampa o alla televisione gli eventi, con tutta la complessità che li contraddistingue, come contraddistingue ogni avvenimento di cui l’uomo è protagonista, proprio perché si vuole fare sensazione col risultato di non lavorare abbastanza duramente per conoscere i fatti per quello che sono. Chiunque si occupi di informazione deve tener presente che deve capire la realtà nella sua radice, e questo ovviamente richiede un lavoro lungo e difficile. Forse al cuore della versione più corretta della realtà c’è proprio questo. In America purtroppo alcuni di coloro che si occupano di informazioni sembrano essere molto più interessati ad apparire in televisione e sui giornali il più spesso possibile, che ad occuparsi del loro lavoro nel senso più profondo del termine. E dimenticano di cercare di riflettere tutta la complessità della realtà.
Vorrei fare un esempio. Il giornalismo si occupa di quello che noi vogliamo chiamare notizia. Nelle ultime due settimane in tutto il mondo abbiamo visto un numero infinito di video e di giornali che hanno parlato fino alla nausea del problema di Woody Allen e di Mia Farrow. Questa è una notizia che riguarda una delle figure più popolari della nostra cultura popolare, e lo stesso vale per tutte le storie in cui si racconta del Principe Carlo e della Principessa Diana, o di analoghe figure di una certa rilevanza. Molti giornali e reti televisive, però, hanno focalizzato la maggior parte della loro attenzione su questi personaggi: questa è la cultura idiota, un trionfo delle sciocchezze rispetto a ciò che veramente è importante! Quando parlo di cultura idiota, mi riferisco proprio a questo. Se questa cultura finisce per assumere una posizione dominante, invece che rimanere in secondo piano, all’interno di un Paese, all’interno di una società, questo è un pericolo immenso, per il tessuto sociale. Mentre un Paese, soprattutto un Paese democratico ha bisogno di avere una stampa e delle informazioni che vengono fornite in maniera veramente responsabile e corretta.
Savorana: E’ stata sottolineata la necessità dell’urgenza di guardare in faccia la realtà. Credo che tornare a guardare la realtà senza il filtro degli steccati o delle teorie preconfezionate sia un grande contributo che l’informazione nel nostro Paese può dare ad una maggiore libertà e democrazia per tutti.