Dal pensiero debole ai nuovi nazionalismi
Lunedì 22, ore 17
Relatori:
Massimo Cacciari
Marcello Veneziani
Massimo Cacciari, sindaco di Venezia, docente di Estetica presso la facoltà di Architettura della Università di Venezia
Cacciari: Credo che l’interesse di questo dibattito si fondi essenzialmente sulle esperienze che stiamo facendo come popoli e come culture europee negli ultimi anni, da quando è crollata quella speranza un po’ ingenua che si esprimeva nella credenza che la fine del contrasto dei due imperi potesse aprire prospettive di pace e di comprensione, di dialogo tra i popoli europei e non.
Visto che per un aspetto il dibattito di oggi è anche politico, occorre partire da un sano realismo. Tale realismo ci dice che è finita l’epoca degli Stati nazionali, e che questa fine è tutt’altro che indolore e pacifica, perché proprio il processo di dissoluzione delle vecchie entità statali comporterà per un certo periodo il proliferare di contese tra Stati nazionali. Proprio il processo che produce la disgregazione dei grandi apparati statali, dà vita apparentemente ai conflitti tra tanti piccoli staterelli. Tali conflitti si collocano tutti nel processo secolare di dissoluzione delle grandi entità statali centralistiche e di quella creazione tipica dello spirito europeo che è lo Stato nazionale di diritto. Questo processo inizia ai primi del secolo, con i grandi fenomeni di internazionalizzazione dell’economia e delle finanze, della ricerca tecnologica e scientifica. Tali fenomeni comportavano già fin dal loro primo apparire una crescente dissoluzione del potere del vecchio Stato. Ritengo che oggi una proposta federalistica seria a livello nazionale ed internazionale sia l’unica risposta positiva e non nostalgica o reazionaria al fenomeno epocale di dissoluzione della costruzione statale.
I sintomi di crisi della forma democratica non sono assolutamente riducibili alla crisi della partitocrazia. La crisi dei partiti, come forme organizzative che abbiamo conosciuto sia in Italia che altrove, è solo un aspetto, e nemmeno il più rilevante, di una crisi più generale della democrazia.
La democrazia nasce sulla base di alcune promesse, e la possibilità di mantenere queste promesse si fa oggettivamente sempre più problematica: anche in questo caso bisogna essere realisti e "guardare la medusa in faccia", anche a costo di rimanere incantati. Possiamo riformare totalmente la forma partito, possiamo al limite eliminarla, senza con ciò eliminare la forma democratica: non è sui partiti, tanto meno su quelli che noi abbiamo conosciuto, che si regge la democrazia in Occidente, ma su altri valori, su altre promesse che sono obbiettivamente difficili da mantenere. Ad esempio, è obbiettivamente difficile mantenere il principio individualistico su cui si regge la democrazia; la democrazia infatti è quel movimento secolare che procede all’interno dello stesso sviluppo dello Stato moderno europeo, che però porta alla disgregazione di tutti i cerchi sociali, di tutte le affinità di corporazione, e da questa disgregazione emerge l’individuo proprietario, creazione tipica dello spirito europeo occidentale. Ora, è proprio la possibilità di far valere questo principio individualistico ad essere radicalmente in crisi. Oggi infatti per avere potere è necessario aggregarsi a corporazioni, a gruppi, che non sono più gli Stati e le corporazioni di tipo tradizionale, ma che si reggono soltanto sulla loro potenza economico-finanziaria. Il principio del loro funzionamento comporta l’alienazione, al loro interno, di determinati valori tradizionali, di certi valori di cultura. La democrazia si afferma promettendo che è l’individuo che conta, che l’individuo sarà competente per decidere, che gli saranno dati gli strumenti adeguati per poter decidere. Ma, al contrario, l’individuo conta sempre meno ed è sempre più incompetente. Sulle grandi questioni, quelle decisive, che riguardano la vita di tutti noi, è radicalmente incompetente, oppure gli viene richiesta una competenza in modo assolutamente farsesco, come quando in Italia ogni singolo individuo è stato chiamato a decidere su una materia, l’energia nucleare, per la quale era radicalmente incompetente. Come vedete, la democrazia minaccia di entrare in crisi su questioni fondamentali, ma nessuno sembra curarsene con sufficiente attenzione; si tratta di una crisi epocale di fine millennio.
Anche un laico deve riconoscere che l’unica voce che affronti queste questioni, con la carica profetica che necessariamente comporta il tentativo di una risposta, è il papato. Ma tutti dobbiamo ugualmente paragonarci con queste questioni, dobbiamo essere responsabili, perché essere responsabili in politica significa corrispondere al problema, essere all’altezza del problema.
Con la stessa radicalità vorrei affrontare anche la questione della tolleranza. Senza dubbio, ci siamo risvegliati da quel sonno della ragione che ci faceva illudere che, crollati gli imperi, la gente sarebbe corsa ad abbracciarsi: sono corsi ad ammazzarsi, come era fin troppo prevedibile. Neanche noi filosofi siamo in grado di pensare il problema, cioè di pensare come oggi possa essere impostata la questione del dialogo, del rapporto tra culture che si riconoscono differenti. Non si tratta di culture convinte che si possa giungere ad un denominatore comune, perché questa strada è già stata tentata. Le grandi speranze ecumenico-irenistiche degli anni ‘50 giocavano tutte su queste illusioni, e mi pare che si siano dimostrate ampiamente utopistiche, nel senso cattivo del termine. Quindi, non è certo la strada di una semplificazione, di una riduzione a denominatore comune quella da seguire.
Come può dunque essere impostato il dialogo tra culture che difendono la propria differenza? Allarghiamo il nostro orizzonte. Negli ultimi cinquant’anni, la crisi della convivenza si è generalizzata a tutto il Mediterraneo. Ancora 50 anni fa, vi erano centinaia di migliaia di ebrei che vivevano nei Paesi arabi assieme a comunità cristiane importantissime; tutte queste presenze sono state spazzate via. Il Mediterraneo si poteva dire una regione di convivenza, una convivenza non certo paritaria, non certo basata sui principi di eguaglianza, ma che nondimeno restava una convivenza. Le vicende traumatiche del secondo dopoguerra hanno spazzato via ogni parvenza di convivenza, malgrado le speranze e le illusioni, anche in quelle regioni nelle quali la convivenza è durata di più. La Turchia o il Libano sono esempi clamorosi di crollo radicale di ogni forma di convivenza: ancora trenta anni fa, il Libano era una formidabile fucina di incontro tra Islam, Cristianesimo ed Ebraismo. Non possiamo nascondere che la convivenza è crollata dappertutto, e l’ultimo bastione in cui è crollata è anche il primo nel quale era entrata in crisi, cioè i Balcani. I Balcani danno inizio, al principio del secolo, alla crisi di ogni convivenza nell’area mediterranea, crisi che si compie, oggi, di fronte ai nostri occhi. Tutto il secolo è il progredire di questa crisi. Nei Balcani oggi noi vediamo l’emergere più clamoroso, più drammatico di questo principio. Dobbiamo chiederci anzitutto: abbiamo mai pensato alla convivenza in modo appropriato? Secondo uno stilema tipico della nostra cultura, concepiamo la convivenza come una cattiva unità che riduce e semplifica la molteplicità, grazie alla tolleranza. Ma proprio quest’ultimo termine, 'tolleranza', è radicalmente insufficiente, di una insufficienza che assume una radicalità assolutamente impensata nelle pagine dei filosofi, perché la tolleranza è in se stessa intollerante. Infatti, nel momento stesso in cui io dico di tollerare un altro, assumo necessariamente, se sono responsabile di ciò che dico, che lui dice cose false. Se io assumessi che lui dice delle cose vere, avrebbe senso che lo tollerassi? Se io penso che lui sia nel vero, non lo tollererò, lo potrò amare, potrò essere convinto da lui, ma non certo tollerarlo. Ha un senso tollerare soltanto chi ritengo dica cose false ma innocue, non dannose, oppure chi credo sia sulla via della verità, per cui lo posso educare, lo posso far crescere, tollerando che però adesso dica cose false. Ma come posso impostare un dialogo serio con un altro se lo assumo come un furfante o come uno che dice cose false o sbagliate? Vi è una radicale insufficienza teoretica nell’idea di tolleranza, e una politica di convivenza e di dialogo fecondo non potrà certo essere impostata su questo ferrovecchio illuminista-modernista.
Passiamo alla parte costruttiva: come deve essere la relazione con l’altro, se deve essere condotta con totale disponibilità da parte mia, nel senso che io non mi presento con un pensiero debole, ma con la certezza di ciò che dico, e assumendo al tempo stesso che anche l’altro sia certo, che anche nell’altro vi sia verità e non una verità da educare o da migliorare, non una verità che devo portare vicino alla mia, ma una verità? Come è possibile il rapporto? L’illuminista (che può essere sia laico che cattolico) mi direbbe che a questo punto scatta il conflitto tra fondamentalismi, e che non ci si può intendere se ognuno è portatore di una verità, perché non c’è spazio per due verità. "Dunque, proseguirebbe l’illuminista, dovete presentarvi deboli, relativizzati: la mia verità è relativa, la sua è relativa, cambierà strada facendo, scambiamocela. Soltanto così ci può essere una prospettiva di pace, perché se io invece mi presento come 'possessore di verità' e assumo anche l’altro come 'portatore di verità', prima o poi vi sarà conflitto, vi sarà guerra, non vi potrà essere pace. Soltanto coloro che sono portatori di un pensiero debole possono essere portatori di pace". Questo modo di ragionare sta diventando un dogma.
Se l’alternativa al pensiero debole fosse di tollerare solo ciò che va bene, allora senza nessuna preoccupazione mi schiererei con il pensiero debole. Se l’alternativa al pensiero debole fosse ritenere che io sono portatore di una verità e che l’altro al più può essere tollerato come quel soggetto che potrà giungere alla verità, allora io sono per il pensiero debole.
C’è un’alternativa? C’è un terzo a questa contrapposizione, una prospettiva da pensare oltre questa contrapposizione di posizioni che sta dominando la scena? Penso di sì, lo accennerò soltanto come conclusione, perché è tutto il tema del mio ultimo libro e non voglio, non posso constringerlo in una battuta, posso solo renderne l’idea. Io penso che ci sia ancora da pensare – appare astrattamente filosofico, ma secondo me rientra direttamente in quel quadro politico e sociale davvero epocale che ho cercato di tratteggiare all’inizio – un atteggiamento di genere diverso. Io posso costituire la mia verità e posso esserne totalmente responsabile proprio in quanto mi riconosco consapevolmente come l’assolutamente distinto, nel volto, nella cultura, da colui che mi sta di fronte. Solo così non si parte dal tentativo di indebolire la differenza, ma al contrario dal desiderio di esaltarla al massimo, nella massima consapevolezza di tale differenza, obbligandoci ad una conoscenza precisa dell’altro, ad una curiositas non vana dell’altro. Se io mi confronto con l’altro, devo tentare in tutti i modi di conoscerlo, di comprenderne la ragione ed esaltare nel dialogo la differenza, non cercare l’accordo ma il disaccordo, proprio sulle proposizioni radicali.
Sono dunque l’assolutamente distinto, ma a quel punto sono anche indivisibile, inseparabile da colui che mi sta di fronte. Perché? Perché se mi sono caratterizzato come l’assolutamente distinto da lui, non posso vivere un secondo della mia vita senza di lui. Io sono in quanto sono colui che è assolutamente distinto dall’altro, non posso farne a meno un secondo, non posso fare a meno del mio interlocutore (dell’islam, dell’ebraismo, delle altre confessioni cristiane), perché io mi sono caratterizzato distinguendomi da lui, ma non distinguendomi in modo contingente. Sono con i miei interlocutori e non posso sopprimerli, perché sopprimendo loro sopprimerei me stesso. Io vivo in quanto posso quotidianamente distinguermi da loro, e se li eliminassi non potrei più distinguermene.
È possibile pensare una prospettiva di questo genere? Questa non è tolleranza, e non è nemmeno il tentativo di trovare denominatori comuni, è l’opposto. Si tratta di andare alla radice delle differenze, e proprio sprofondando nella radice delle differenze si può riemergere ad una prospettiva in cui il "cum", il "con", emerge. Io ritengo che o si pensa in questa prospettiva – laici e cattolici –, oppure ben difficilmente si potrà pensare a forme di convivenza che non siano il grembo di continui conflitti e di continui massacri. Questa è la prospettiva – apparentemente soltanto filosofica –, che invece secondo me potrebbe essere lo sfondo culturale su cui disegnare anche programmi politici concreti, per un’Europa che non sia, come invece sta avvenendo sempre più, chiusa in se stessa e inospitale anche nei confronti delle sue stesse parti.
Quando poi si esce dall’Europa, anche in senso lato, allora i problemi diventano ancora più drammatici, ovviamente. Quando si affronta un dialogo non più ecumenico in senso stretto, ma interreligioso, è possibile riprenderlo ancora nella chiave semplicistica della tolleranza o, sotto un altro punto di vista, della evangelizzazione? Questa prospettiva ha un senso nei confronti dell’islam, per rimanere nell’ambito nostro, nell’ambito di questo grande teatro di scena di tragedie di conflitti che è sempre stato il Mediterraneo e in cui si deciderà la storia mondiale certamente per il prossimo millennio? Bastano queste prospettive? O, forse, non abbiamo bisogno di un pensiero debole, ma davvero di un nuovo pensiero?
Marcello Veneziani, direttore del periodico "L’Italia Settimanale"
Veneziani: Vorrei partire da una concordanza con Massimo Cacciari, che riguarda quanto da lui detto sul pontificato in quanto polo di riferimento nella politica internazionale di oggi. Anch’io sono convinto che oggi, rispetto alla cecità diffusa dei leader politici delle nazioni e dei blocchi o del blocco, sia proprio il papato a rappresentare un punto di riferimento, forse l’unico punto critico nei riguardi di questo mondo unipolare che si va pian piano stagliando sullo sfondo come unico ineluttabile destino di questa società. Non è un caso che tre anni fa, nel ‘91, quando ci fu l’intervento americano nel Golfo, sia Massimo Cacciari, con le sue argomentazioni, sia io ed altri, identificati a torto o a ragione in quella corrente di pensiero definita "nuova destra", ci schierammo dalla parte del Papa, convinti della necessità di un non intervento americano-occidentale nel Golfo.
Oggi ci troviamo in questa stessa posizione, almeno come punto di partenza, e anche con un’argomentazione aggiuntiva: infatti, quando parliamo di nazionalismi, dobbiamo tener presente che Giovanni Paolo II è stato al tempo stesso un critico del nazionalismo, ma anche un difensore dei diritti delle nazioni e dei popoli. È questo il punto da cui vorrei partire per arrivare all’argomento di cui si parla in questa giornata. Il grande rischio è che il nazionalismo possa coinvolgere in un abbraccio mortale il senso della comunità, della identità nazionale, che al contrario costituiscono, a mio avviso, motivi di radicamento non labili, motivi necessari per una società che voglia conservarsi come comunità e non come agglomerato di gruppi legati soltanto da interessi, da motivi contrattuali o da imposizioni rette appunto dalla coazione, dalla forza.
Partendo da questa base, ho l’impressione che l’identità nazionale oggi debba combattere contro due nemici: uno che con una certa comodità di linguaggio possiamo definire il mondialismo e l’altro che chiamiamo il nazionalismo. Il primo può essere sicuramente l’avversario principale della identità nazionale, ma il secondo è il suo falso amico, è la sua scimmia, rappresenta cioè la caricatura della identità nazionale.
Il grande limite del nazionalismo sta nel fatto che adultera la sana concezione di appartenenza ad una comunità nazionale. Il nazionalismo è l’interpretazione della identità nazionale attraverso la volontà di potenza, dunque fondata sulla intolleranza. La volontà di potenza ripropone una identità nazionale fondata sull’esclusivismo, cioè la "mia nazione", il primato della mia nazione sulle altre: una forma di darwinismo applicato agli stati, alle nazioni, alle entità collettive. Una forma di esclusivismo e di egoismo nazionale. In questo senso, quindi, l’identità nazionale trova nel nazionalismo il nemico, il suo falso amico, la sua caricatura, la sua scimmia, come dicevamo appunto prima. Da questa idea del nazionalismo vengono fuori poi quegli errori, che mutano spesso in orrori, rappresentati da quella escalation che va dalla xenofobia alla intolleranza verso l’altro, al rifiuto o alla soppressione dell’altro. È una progressione che nasce proprio dall’idea che la mia nazione, la mia identità debba prevaricare sulle altrui identità. Ecco, il nazionalismo si sposa necessariamente in questa sua fase con un tipo di pensiero e di articolazione politica di tipo centralista, cioè l’idea che la mia patria debba prevalere sulle altre; è un’idea che concepisce la patria come una sorta di ombelico del mondo, in cui la mia patria deve necessariamente avere ragione e primato rispetto a quella degli altri. Da qui deriva la tendenza centralistica del nazionalismo e la forte tendenza ad una statologia. L’idea della nazione si sposa con il primato della idolatria dello stato. Quando la nazione viene elevata a valore assoluto, il rischio è proprio quello della idolatria, di creare cioè una forma di religione civile sostitutiva di quella trascendente. Il pericolo del nazionalismo è quindi il pericolo che il senso della comunità nazionale venga adulterato attraverso la volontà di potenza.
L’altro nemico dell’identità nazionale, che nei nostri anni cresce in modo fatale e irrimediabile, è il senso del mondialismo, cioè di una società in cui non vengono più consentite possibilità di radicamento nella propria cultura, nella propria appartenenza, nelle proprie comunità, siano esse naturali o elettive. L’individuo viene considerato nella sua totale intercambiabilità, nella sua totale fungibilità, come si dice nel linguaggio corrente, cioè nella sua possibilità di essere spostato da una parte all’altra con indifferenza, perché non ha legami, non ha appartenenze, non ha radicamento. Il mondialismo è un pensiero che apparentemente può alludere a una visione ecumenica di tipo cattolico, in realtà culturalmente nasce da un cosmopolitismo di tipo illuministico, ma questa visione filosofica si è poi via via deragliata nei territori dell’economia e della tecnica, che sono proprio i territori in cui più si esercita questo dominio di tipo mondialista. L’economia è eletta a destino ultimo della società contemporanea e quindi avviene la perdita di ogni senso di identità e di radicamento. Quel radicamento che era ritenuto fondamentale anche da Simone Weil, che appartiene ad un filone di pensiero che non si riconosce certo nel nazionalismo, ma al contrario in una critica ardente ad esso. Lo sradicamento diventa il destino e la destinazione ultima dell’uomo contemporaneo, e quindi in questo senso il mondialismo si propone come l’antitesi più radicale, più forte all’idea di comunità, anche di comunità nazionale. In questo contesto, ovviamente, l’identità nazionale, identificata nel nazionalismo, finisce con l’assumere un valore esclusivamente negativo, un valore di negazione dell’altro. Forse il compito più urgente dei nostri anni è proprio quello di disegnare un senso della comunità e dell’appartenenza ad una identità, anche nazionale, attraverso un sistema che rifiuti categoricamente quel senso di volontà di potenza esercitata dal nazionalismo, e che riconosca al contrario la necessaria, ineludibile visione policentrica di un sano comunitarismo legato appunto ad un radicamento nella propria patria e nella propria cultura.
Soltanto il policentrismo può garantire una cultura legata in senso nazionale. Un policentrismo in cui la mia patria ha diritto e legittimità di esistere, perché la tua patria ha il medesimo diritto e la medesima legittimità. Soltanto un sistema di correlazioni tra patrie, soltanto – paradossalmente – una "internazionale delle patrie" può in effetti garantire la possibilità che la mia patria abbia valore e significato.
Come si può garantire tutto ciò? Non credo attraverso quel sistema mondiale fondato sull’unipolarismo, verso cui di fatto stiamo andando. Forse l’ipotesi più convincente può essere quella che già diversi decenni fa delineò Karl Schmidt, cioè l’idea di grandi spazi, delle aggregazioni di grandi aree di una certa omogeneità culturale, geopolitica e storica. Attraverso grandi aree è possibile creare dei contenitori, dei serbatoi in cui queste identità, queste patrie, si costituiscano in un sistema di cerchi concentrici, dalla piccola patria alla patria nazione, fino alla grande "patria area".
L’identità nazionale risponde a tre requisiti che, a mio avviso, sono essenziali anche per concepire un sano rapporto comunitario con gli altri. Innanzitutto, questa voglia e questo bisogno di radicamento: la necessità di darci delle origini. Noi abbiamo bisogno di avere il riferimento di una casa, ogni io ha una patria originaria verso cui si richiama e questa patria può ovviamente essere labile, può essere concepita non come territorio, ma come cultura, come appartenenza religiosa, come comunità religiosa, ma in ogni caso deve sempre esserci il riconoscimento, la necessaria valenza del significato di una patria. Il radicamento è il bisogno di darci un’identità, un’origine ed anche un passato, perché il passato ci permette di riconoscere chi siamo.
In secondo luogo, l’identità nazionale è il modo per inserirsi concretamente in una visione in cui l’identità collettiva assuma il suo significato, cioè il noi, la necessità del noi, la necessità di concepire il proprio io in una dialettica viva, sinergica, anche conflittuale quando è il caso, ma comunque in una dialettica in cui l’altro è presente, e l’altro è presente soltanto attraverso una visione della identità collettiva. Non è possibile cioè concepire la realtà, concepire la vita politica attraverso un sistema atomistico, un sistema di monadi incomunicanti, ma è necessario concepirla attraverso queste relazioni vitali tra gruppi, tra realtà, tra presenze che sono diverse.
Infine, bisogna riconoscere che per sentirsi vicino all’altro, è indispensabile capire che ha il mio stesso destino, che vive travagli che sono i miei, che oltre ad avere comuni retaggi, paesaggi, memorie che ci appartengono, abbiamo anche una comune destinazione. In questo senso c’è la necessità di pensare a una identità nazionale, a un radicamento, a una identità collettiva, e infine ad una comune destinazione.
Questo senso della identità nazionale è un senso che non si può certo ricondurre alla intolleranza di cui sono indubbiamente forieri i nazionalismi, perché l’intolleranza – non assumo il termine nel significato rovesciato che vi attribuiva Massimo Cacciari – è la chiusura verso l’altro, l’impossibilità di dialogare e di concepire l’altro con una sua dignità. L’intolleranza cresce nelle società decomposte, nelle società disgregate, nelle società in cui le comunità non hanno la forza e la possibilità di rappresentare il tessuto comunitario, il vivere e il sentire comune, il noi di una società. Là dove il noi non esiste, là crescono le guerre tra bande, il conflitto tra gruppi o etnie diverse, tra razze e storie diverse. L’intolleranza non nasce quindi nelle identità nazionali in forma, ma nasce al contrario in contesti sociali sfilacciati, degradati, disgregati. Non è un caso che il maggior tasso di intolleranza si debba riscontrare negli epicentri della modernità più disgregata, nelle metropolitane di New York per intenderci, perché là dove non esiste un tessuto comunitario, crescono e fioriscono le tribù "l’una contro l’altra armate". In questo senso è importante definire il significato che può avere l’identità nazionale, come argine possibile alle intolleranze verso l’altro.
È anche importante tenere presente un altro aspetto: oggi l’identità nazionale assume nella nostra società il senso della comunità nazionale, il valore del primato della politica e degli interessi generali e popolari su interessi oligopolistici, che spesso sono transnazionali.
Vorrei quindi esprimere la preoccupazione verso uno scenario politico che possa concepire, accanto alla liquidazione del centralismo statale, che può essere sicuramente un fatto benefico, la liquidazione anche delle identità nazionali, del riferimento nazionale come riferimento possibile. Se deperiscono le identità nazionali, aumenta la possibilità che crescano queste forme di controllo transnazionale che obbediscono a interessi oligopolistici, che sono interessi sicuramente conflittuali con la politica, con gli interessi generali, con la sovranità dei cittadini, con gli interessi popolari. Io credo quindi che l’identità nazionale e la presenza di uno stato nazione, se pur articolato in guisa federale, possa in qualche modo costituire un argine a queste forme di prevaricazione.
Credo che sia importante garantire – e battersi per questo – l’identità nazionale come un punto fermo nella storia di un popolo e di un paese anche per dare a un popolo la possibilità di creare degli argini contro queste forme di alienazione che sottendono un nichilismo e che hanno come loro principale agente il dominio, il primato dell’economia, che si esercita dappertutto, che maciulla le diversità, che uccide ogni possibile incontro con l’altro, perché l’altro è visto soltanto come merce di scambio, come oggetto, come strumento, strumento per il profitto, strumento di possesso, strumento insomma comunque da usare soltanto in una politica di scambio in cui si perde ogni significato e ogni umanità nel rapporto interpersonale.
L’identità nazionale può essere dunque colta soltanto attraverso un salto di qualità: non deve più essere vista attraverso le lenti del nazionalismo, attraverso le lenti di questo primato della nazione e della sua volontà di potenza, ma attraverso un sistema di pluralismo delle patrie, perché è l’unica forma di pluralismo che possa garantire il rispetto e la libertà delle patrie altrui. In questo senso, sarebbe facile richiamarsi a una cultura della identità immobile, sarebbe facile, ad esempio, contrapporre al fenomeno del mondialismo il pensiero tradizionalista che oppone all’articolazione sradicante del mondialismo la famosa triade Dio-Patria-Famiglia. Dio patria e famiglia sono dei principi che furono, e probabilmente saranno, le basi del giusto vivere, però non si possono imporre per decreto, per imposizione, non si può fingere che sussistano così come sono. È necessario riconoscere che viviamo proprio l’epoca della loro latitanza, della loro assenza, del loro oscuramento nella nostra società contemporanea, e quindi in questo senso bisogna attraversare le devastazioni della modernità, attraversare le devastazioni del nichilismo della nostra società, e bisogna, per farlo, riuscire a compiere un salto di qualità in un pensiero che riconosca l’altro in tutta la sua profondità, che rispetti l’altro fino in fondo.
Questo è il senso di un tradizionalismo critico, se vogliamo, o di un pensiero di tipo rivoluzionario-conservatore che comprenda le devastazioni della modernità e capisca che esse riguardano anche il senso dell’identità nazionale, riguardano anche i valori più radicati e radicali a cui fa riferimento questo tipo di cultura. È quindi necessario adottare questa diversa visione del mondo per potere, in effetti, raggiungere una diversa articolazione culturale.