Giovedì 30 agosto, ore 19
PROCESSO ALL’OCCIDENTE
PRESENTAZIONE DEL LIBRO
Partecipa:
Marcello Veneziani
Modera:
Pigi Colognesi
P. Colognesi:
L’incontro di stasera è dedicato alla presentazione del volume Processo all’Occidente di Marcello Veneziani, che è qui con noi. Io vorrei semplicemente ricordare alcune tesi che mi hanno colpito leggendo il volume e che riprendono le intuizioni presenti nella prefazione scritta da Augusto del Noce poco prima di morire. Queste riflessioni sono per noi quasi un testamento o meglio, un’ipotesi di lavoro da continuare. Perché l’Occidente va processato? Con il crollo dei regimi dell’Est, da più parti si sostiene che il modello occidentale così come si è venuto configurando negli ultimi decenni, ha raggiunto una validità assoluta e può essere ritenuto il migliore. Invece sia Del Noce che Veneziani sostengono che questo modello va processato perché la storia non può dirsi finita in quanto è fatta dalla scelta libera dell’uomo che, come tale, può essere sempre rinnovatrice di quello che ha costruito e correttrice di quello che ha sbagliato. Veneziani individua anche dei segni, delle linee di tendenza di movimenti che si contrappongono al trionfo indiscriminato e assoluto del modello cosiddetto occidentalista: l’ecologismo, la rinascita religiosa, il socialismo come forza che non si adegua al trionfo del capitalismo. Io credo che la cosa più interessante sarà discutere su come si possa veramente continuare a fare la storia perché il processo alla modernità è una questione che sta particolarmente a cuore a chi vive l’esperienza cristiana; uno dei capisaldi della modernità è, infatti, la convinzione che il cristianesimo non ha più nulla da dire alla storia. Lascio la parola a Veneziani.
M. Veneziani:
Dirò subito che questo libro nasce all’insegna di un clamoroso anacronismo, perché nel momento in cui è uscito si è verificato quel che tutti sappiamo: il crollo d’alcuni regimi dell’est, e il trionfo dell’Occidente visto come unico orizzonte, come unico modello nel quale situarsi, e al quale guardare come riferimento definitivo. Processare l’Occidente proprio nel momento in cui se ne celebra il trionfo, nel momento in cui scompare l’alternativa storica al suo modello capitalistico e culturale, è un atto d’anacronismo, significa non comprendere i movimenti della storia. In realtà, osservando un po’ più attentamente la realtà contemporanea, si possono trovare chiavi di lettura molto interessanti. Nei mesi in cui è uscito questo libro si è parlato in quasi tutto il mondo di un piccolo saggio, forse modesto come valore, ma d’importanza mondiale perché è venuto dagli Stati Uniti ed è stato concepito in una congiuntura storica veramente importante. Il saggio, scritto da uno studioso d’origine giapponese, Francis Fukuyama, un funzionario del Dipartimento di Stato americano, parlava della fine della storia. Ad una lettura superficiale, affermare che la storia è finita sembra una conferma del fatto che al di là dell’Occidente non si può andare, che la storia ormai è risolta, pacificata, perché ha trovato il suo modello insuperabile. Al di là della sua veridicità, la tesi di Fukuyama presentava un’insidia molto pericolosa proprio per quell’Occidente che intendeva celebrare: se la storia finisce, per l’Occidente è un pericoloso segnale di suicidio. Esso, infatti, si è sempre riconosciuto nell’orizzonte culturale del progressismo, dello storicismo assoluto, della frenesia faustiana, cioè del tentativo di un’espansione illimitata. Ma questo tipo di crescita si può concepire soltanto nell'ambito della storia, quindi della conflittualità, della competitività, dell’agonismo, dell’antagonismo. Nel momento in cui si parla di fine della storia, s’immette un pericoloso corto circuito perché non è possibile concepire un Occidente frenetico che viva secoli di noia. Nello scenario contemporaneo troviamo avvenimenti assai importanti che finiscono per incrinare questa lettura. Pensiamo ad esempio alla caduta del muro di Berlino. La prima lettura che n’è stata data è stata quella di un Occidente senza confini, senza frontiere che prorompe anche nei paesi dell’Est. Col passare dei mesi però a questa lettura se ne è sovrapposta un altra che mette in primo piano la Germania che si riunifica secondo un processo che non può essere circoscritto nell’idea di Occidente sconfinato, ma al contrario in quella di una nazione che cresce, di un processo nazionale che comincia ad incrinare l’idea di un modello unico e che comincia a creare anche difficoltà di convivenza tra le superpotenze. Si è creata così nel tessuto dell’Occidente una pericolosa distonia. Si potrebbe inoltre individuare una seconda distonia che è rappresentata dal Giappone. Questo paese è in tale espansione economica da superare gli Stati Uniti, e, pur presentando alcuni aspetti che sono indubbiamente simili all’ideologia occidentale (produttivismo, ruolo trainante dell’economia) rappresenta qualcosa di impenetrabile per la nostra cultura così come è stata intesa da secoli di progressismo, di laicismo, di illuminismo. In quest’Occidente "pacificato", "redento" c’è poi una terza distonia che stiamo vedendo clamorosamente emergere dal sud del pianeta: da una parte una nazione araba che tenta di darsi una sovranità e dall’altra parte il grande processo espansivo delle masse che vengono dal terzo mondo verso il nord del pianeta. Tutto questo, ad una lettura superficiale, può venir inteso semplicemente come un desiderio di omologazione all’Occidente manifestato da questi popoli. Però se si tenta una lettura molto più profonda e diversificata ci si accorge che questo mondo reclama una sua autonomia, una sua dignità culturale e religiosa. L’islamismo che reclama i suoi diritti, le nazioni del sud che cercano di autodeterminarsi sono fenomeni antagonistici al processo di unificazione occidentale. Un’altra crepa in questo processo è rappresentata dalla crisi nel Golfo Persico a cui assistiamo in questi giorni. Al di là della reclamizzata missione dei popoli civili per far rispettare i diritti dell’uomo e le sovranità internazionali, emerge il tentativo degli Stati Uniti di recuperare una credibilità ed una leadership piuttosto in crisi in un Occidente sempre più scompaginato e in uno scenario internazionale in cui il Giappone insidia la sovranità economica degli Stati Uniti e l’Europa non può più essere intesa come un’appendice euroatlantica perché comincia ad acquisire una sua fisionomia di sovranità e autonomia regionale. Di fronte a questa sovranità minacciata, di fronte alla perdita del nemico principale che era rappresentato dall’Unione Sovietica, (l’impero del male a cui gli Stati Uniti si potevano contrapporre come impero del bene) ecco che questa guerra annunciata, questo conflitto nel Golfo suona per gli U.S.A. come una sorta d’occasione per far rinascere la propria leadership su basi militari. Questo fenomeno sembra quasi confermare il processo di occidentalizzazione, cioè il tentativo di imporre ovunque il modello consumista, edonista, che non conosce altri orizzonti, oltre quelli che sono concepibili in una visione utilitaristica della vita. Si tenta di trasformare la conflittualità tra ovest ed est, in una nuova conflittualità tra nord e sud del pianeta. Ci sono sempre dei pazzi veri o presunti, autentici o montati dai mass-media, ma comunque tali da offrire l'occasione per esercitare nuovamente un dominio, ridisegnare ancora i confini geografici secondo quell’anatomia internazionale che conosciamo, per ridare insomma agli assetti culturali, politici e geografici sanciti a Yalta una nuova vitalità, una nuova espressione di forza. Così tenta di realizzarsi il progetto occidentale ma quanto più tenta le vie della persuasione forte, anche militare, tanto più si avverte in pericolo, minacciato. Ciascuno di voi può legittimamente chiedere: "Ma gli Stati Uniti non parlano in nome dei diritti dell’uomo e quindi della libertà, della massima espressione dell'uomo su questa terra. Perché dunque ritenere che questo progetto possa essere pericolosamente totalitario?" Innanzitutto occorrerebbe forse ridefinire il concetto di totalitarismo (e su questo potrebbero soccorrerci pagine illuminanti di Augusto del Noce); in secondo luogo dovremmo domandarci in che cosa consiste il nucleo di questo totalitarismo prossimo venturo. Il totalitarismo che si profila nei nostri anni può essere compendiato in una frase terribile che ha però un aspetto innocuo: "La realtà è tutta qui e non c’è altro". Se applicata alle aspirazioni religiose dell’uomo, una frase come questa implica la preclusione di ogni altro orizzonte che vada al di là della vita terrena e di un’esistenza temporale. In tempi come questi in cui si parla di identità regionali, di diversità, di differenze un’affermazione come questa significa che non è possibile un altro modello, tutto è qui, nel modello occidentale. Chi immagina una diversità è un integralista, è un fondamentalista, un fanatico, un uomo del passato, abita nel regno dei morti, comunque non appartiene alla realtà. Da qui il pericoloso tipo di totalitarismo che si affaccia: un totalitarismo su basi non coercitive ma di persuasione, costruito su una falsa coscienza, sull'idea di rappresentare la libertà, la realizzazione dell’uomo. Ma qual è il progetto nobile che ha fondato l’occidente, qual è la cultura che gli ha dato alimento? Il progetto di modernità che poi si trova espresso alla massima potenza nell’attuale ideologia occidentale, può essere identificato in una famosa frase di due secoli fa: "Agisci in modo di considerare l’umanità come fine e non come mezzo". La superiorità dell’occidente dall’illuminismo in poi è tutta in questa frase: liberiamo l’uomo dalle catene della schiavitù (che poi era schiavitù di tipo religioso, di tipo politico, di tipo razionale), liberiamo l’uomo e consideriamolo come fine e non come mezzo. Ma consideriamo questa frase, che è il nobile atto di origine della ideologia occidentale, la sua legittimazione ideale alla luce dei suoi esiti: oggi è in atto il più grande processo di strumentalizzazione dell’uomo. L’uomo è visto come mezzo, mezzo per il profitto, mezzo per la merce, mezzo per raggiungere degli scopi, mezzo per il potere, c'è una totale mercificazione dell’uomo. Evidentemente quel progetto annunciato, che era la legittimazione ideale della ideologia occidentale, della cultura occidentale, del modello occidentale, viene clamorosamente smentito da questa società che vede l’uomo sempre più come oggetto, come strumento. In fondo, se ripensiamo alle origini di questa cultura, ci accorgiamo che essa è nata all’insegna di una dichiarazione di morte plurima. La prima fu la dichiarazione di morte della religione: per dare all’uomo la libertà e per considerare l’uomo come fine, bisognava passare dal regno della religione al regno della ragione. C’era poi una seconda dichiarazione di morte che era proprio quella determinata dall’appartenenza territoriale: l’uomo, se vuole essere libero, deve abitare a cosmopolis, deve abitare nella città mondiale, non deve essere vincolato a una sua patria, a una sua identità, deve essere concepito al di fuori di questi orizzonti. C’era poi una dichiarazione di morte della natura: la natura è un legame, una schiavitù; ciò che affranca l’uomo è invece la tecnica, perciò liberiamoci dell’impatto della natura sull’uomo. Da ultimo la dichiarazione di morte della comunità: l’uomo per essere vivo, per essere vero, autentico, libero, deve essere individuo, deve essere solo se stesso, non deve rispondere ad altri. Ecco quindi la frattura con le culture di tipo comunitario, con gli ambiti e le società comunitarie. Questa serie di fratture che si è protratta per due secoli ha portato a una reificazione dell’uomo, hanno privato l’uomo di prospettive, di orizzonti ulteriori rispetto a quelli della propria vita materiale. L’uomo è stato impoverito, e non arricchito da quella liberazione. Oggi, non a caso, risorgono in questo Occidente unificato, proprio quelle tendenze che erano state sacrificate. Risorge il bisogno religioso, e nasce da una domanda autentica anche se spesso incontra risposte prefabbricate, artificiali, inautentiche e assume fenomeni di grande discutibilità, di spiritualismo, di irrazionalismo. Assistiamo alla rivincita delle etnie, delle appartenenze nazionali, anche se spesso si verificano episodi di fanatismo, che sono il prodotto e la reazione a una cultura che aveva sacrificato l'idea di appartenenze comunitarie. Anche la stessa cultura ambientalista in fondo risponde, forse in modo inadeguato, a volte artificioso o addirittura pericoloso, al desiderio autentico di un rapporto reale dell’uomo con il mondo, rapporto che è stato invece del tutto falsificato dall’idea che il mondo fosse soltanto un oggetto, uno strumento da manipolare al servizio del profitto e che la natura avesse valore solo se diventava prodotto (come diceva non solo la cultura illuminista, ma anche Marx).Questo processo reattivo contro l’Occidente oggi si scatena non solo nei paesi sottosviluppati, (così vengono definiti ovviamente i paesi che non sono uniformati al modello occidentale), ma anche negli stessi paesi dell’Occidente. Evidentemente il progetto occidentale mostra le sue crepe che hanno origine nelle sue radici culturali, nel tentativo di creare un uomo ridotto ad una dimensione, un uomo circoscritto in quell’orizzonte totalitario che prima indicavo. Segue il dibattito