È possibile uno sviluppo senza lavoro?
Il contributo delle imprese all'occupazione
Tavola rotonda promossa da Compagnia delle Opere
e da Unioncamere
Venerdì 25, ore 18.30
Relatori:
Moderatore:
Giorgio Vittadini
Vittadini:
"È possibile uno sviluppo senza lavoro?" Questa domanda provocatoria nasce da un'affermazione fatta spesso da diversi esponenti politici ed economici: bisogna rassegnarsi ad uno sviluppo che può essere senza aumento di occupazione. Ma a gente che ha, dal punto di vista sociale, come interesse principale il lavoro, non può interessare uno sviluppo in cui il lavoro non sia coinvolto.Lucchini: Fare impresa oggi, alle soglie del 2000, in mercati sempre più aperti, dinamici, competitivi, è diventato un mestiere difficile che richiede conoscenze e capacità sofisticate. Evidentemente però l'interrogativo proposto sottintende un approccio più ampio, in cui l'imprenditore è soltanto uno dei soggetti chiamati a dare un contributo di idee e di iniziativa. Credo che il contributo dell'impresa sarà tanto più efficace quanto più anche istituzioni e sindacati esprimeranno capacità e volontà di innovazione. Dico ciò in considerazione del fatto che in Italia il rapporto fra sviluppo ed occupazione, oltre a subire la tendenza consolidata delle moderne società industriali, registra patologie sconosciute alle economie avanzate. Un esempio è la rigidità del nostro mercato del lavoro, una delle cause principali dell'anomalia nazionale.
Dobbiamo inoltre affrontare una sfida più complessiva: ripensare il modello di sviluppo della società italiana, che fino ad oggi non ha consentito una crescita omogenea delle diverse aree del paese. L'Italia è un paese che ha fondato la sua crescita su una serie di equilibri precari, e che continua a vivere di intime contraddizioni. Un debito pubblico, che non conosce eguali in Europa, a parte il Belgio. Una propensione al risparmio tra le più elevate nel mondo. Tassi di inflazione strutturali più alte, rispetto ai principali partner europei e una pressione fiscale che si avvicina al 50% della ricchezza prodotta. Tassi di interessi elevati e una velocità di formazione del capitale fisso di tre volte inferiore alla media degli altri paesi industrializzati. Analoghe contraddizioni riscontra il mercato del lavoro. Un tasso di occupazione significativamente inferiore alle medie dei paesi industrializzati e una quota di lavoro autonomo decisamente superiore. Una componente di lavoro sommerso, valutabile circa a due milioni e mezzo di unità, a cui andrebbe aggiunta la galassia di coloro che svolgono un doppio lavoro, quasi sempre irregolare, quantificabile in circa 7 milioni di unità. Un segmento di lavoro tipico a orario pieno, a tempo indeterminato, assolutamente in linea con quelle degli altri paesi della comunità, e contratto a tempo parziale poco utilizzati, dieci punti in percentuale in meno rispetto ai paesi del Nord Europa. Un sistema caotico di ammortizzazioni sociali generato dalla sovrapposizione di specifiche rivendicazioni e che protegge coloro che sono dentro il sistema produttivo a scapito di coloro che non ne fanno ancora parte. Infine un tasso di scolarizzazione molto basso con un numero di laureati insufficiente che riduce la competitività dell'Italia rispetto a quello delle nazioni più evolute. Siamo in un paese in cui lavorano ufficialmente soltanto 20 milioni di persone, che mantengono i restanti 35 milioni della popolazione. Il rapporto tra occupati e disoccupati è meno squilibrato se si aggiungono naturalmente coloro che operano nell'economia sommersa. Siamo un paese in cui sette milioni di lavoratori svolgono una doppia attività senza pagare per questi redditi aggiuntivi né tasse, né contributi.
Questa situazione si spiega con la notevole rigidità e onerosità del nostro mercato del lavoro, che da una parte non favorisce l'emersione della deprecabile attività sommersa e dall'altra non agevola una partecipazione flessibile al sistema produttivo. Un'ora di lavoro straordinario costa di fatto alle imprese meno di un'ora di lavoro standard. E quest'ultima costa ancora meno di un'ora di lavoro proveniente da contratti atipici. C'è da stupirsi allora se un imprenditore, quando si registra un picco di domanda, preferisce l'uso dello straordinario? E ciò quasi sempre avviene in accordo con il sindacato.
L'incapacità del sistema di allargare proporzionalmente al tasso di sviluppo l'occupazione, genera inoltre una molteplicità di riflessi negativi sulle condizioni della nostra economia, non soltanto perché il lavoro sommerso favorisce l'evasione fiscale e contributiva ed una spesa ingiustificata di sostegno al reddito individuale, ma anche perché induce ad inseguire l'obiettivo del risanamento attraverso un inasprimento della pressione fiscale e i tagli della spesa pubblica destinati agli investimenti produttivi. Se vogliamo cogliere tutte le opportunità che derivano dalla favorevole congiuntura dell'economia internazionale, dal vantaggio competitivo che abbiamo accumulato negli ultimi tre anni per la svalutazione della lira, dobbiamo operare in discontinuità con le politiche sulle quali abbiamo fondato il nostro precario equilibrio economico e sociale. Dobbiamo scardinare il circuito perverso che ha legato disavanzo, debito, inflazione, evasione fiscale. Esso ci ha impedito di consolidare in termini di risanamento della finanza pubblica le buone prestazioni del sistema economico, di allargare strutturalmente la base produttiva del paese. A tal fine occorre introdurre elementi di liberalizzazione del sistema che, pur garantendo un livello di sicurezza sociale adeguato ad una democrazia evoluta, consentano a domanda ed offerta di lavoro di incontrarsi virtuosamente sul mercato. Ciò può avvenire attraverso una minore rigidità delle politiche contributive che incentivino l'emersione delle attività sommerse e l'utilizzo da parte delle imprese delle forme di lavoro atipico. Occorrono poi strumenti che sostengono i percorsi formativi nell'ambito del processo produttivo. Formazione lavoro, stage nelle imprese. E su questo terreno si rende opportuno un maggior impegno da parte delle imprese.
Ma una radicale riforma del mercato del lavoro passa attraverso l'introduzione di due misure fondamentali. La prima consiste nel superamento dell'attuale selva di ammortizzazioni sociali, con la previsione di un'unica indennità di disoccupazione, finanziata dalle imprese e dai lavoratori. Non è efficiente né equo difendere dallo stesso rischio della disoccupazione lavoratori appartenenti a settori diversi e in misura diversa. Sono consapevole dei benefici che il sistema delle imprese ha tratto e continua a trarre dalla folta schiera di ammortizzatori sociali esistenti e di cui anche i gruppi che io rappresento hanno goduto; ma non posso pensare ad un sistema moderno economico che preveda casse-integrazioni interminabili, o prepensionamenti che sottraggono competenze ed energie ancora preziose al sistema produttivo. Con l'attuale selva di ammortizzazioni sociali non c'è mobilità, non c'è osmosi da un settore all'altro. Chi è più difeso non rinuncerà mai ai suoi vantaggi, transitando in aree meno difese.
La seconda misura consiste nella flessibilità delle politiche retributive. Gli accordi del luglio 93 sul costo del lavoro, valorizzando la contrattazione a livello aziendale, consentono di collegare le retribuzioni alla effettiva produttività delle aziende. Questa tendenza deve essere consolidata, per assumere un peso decisivo sia nel recupero dell'inflazione sia nella distribuzione differenziata dei guadagni di produttività. Senza riesumare anacronistiche e rigide gabbie salariali, coglieremo anche l'obiettivo di poter negoziare a livello aziendale aumenti retributivi più elevati nei settori e nelle aree geografiche a maggiore produttività, con conseguenti benefici effetti sulle aree più deboli del paese.
Correlando produttività e salari, aumenta infatti l'occupazione. A far ciò occorre un atteggiamento più aperto e coraggioso del sindacato, che non può continuare a predicare la società aperta e a razzolare nel mercato protetto. Come hanno dimostrato i referendum del giugno scorso, le scelte che tendono a mantenere rendite di posizione fondate sul ruolo più che sulla difesa degli interessi reali, finiscono per essere perdenti. E questa sconfitta non riguarda il solo sindacato, essa può compromettere l'intero sistema di relazione industriale. Gli imprenditori hanno bisogno di avere un interlocutore legittimato e credibile; la legittimazione deve essere conquistata sul campo.
L'Italia del dopoguerra provata da cinque anni di guerra, reduce da 20 anni di dirigismo anarchico, in preda a contrapposizioni ideologiche devastanti, si dimostrò all'altezza della sfida. Scelse di diventare un paese industriale ad economia di mercato. Ed a questo obbiettivo, pur fra molte contraddizioni, dedicò le sue energie e le sue risorse. Oggi siamo fra le prime democrazie industriali del mondo, e ciò significa che la scelta di allora, se pur onerosa e contrastante, si è rivelata alla fine una scelta felice. Ciò non toglie che il paese continui ad avere enormi problemi e che alcuni nodi, nonostante la straordinaria profusione di risorse, non siano stati ancora sciolti, anzi, siano ancora distanti dall'esserlo. Per più di 40 anni, lo Stato ha tentato di imporre una industrializzazione diffusa del Sud, e lo ha fatto nel modo peggiore: erogando risorse senza creare le condizioni minime necessarie ad un moderno sviluppo industriale. Scarse le infrastrutture, carente la presenza di sistemi educativi e professionali, insufficienti i servizi, inadeguata la burocrazia, costoso il credito, incerta la tutela dell'ordine pubblico... Il risultato di tanta dissennatezza, si misura oggi nel disastro della finanza pubblica e nella tendenziale accentuazione delle differenze economiche e sociali fra Sud e Nord. Si è rilevato del tutto insufficiente il paradigma dell'inseguimento delle aree depresse nei confronti di quelle a maggiore industrializzazione nell'ambito di un unico e indifferenziato modello di sviluppo.
Ho l'impressione che soltanto riappropriandosi della sua cultura e del suo patrimonio, il Sud possa riacquistare orgoglio e spirito di intrapresa, innescando un circuito virtuoso di crescita economica e sociale. Un obiettivo a cui deve concorrere l'intero paese, perché esso rappresenta un fattore strategico di competitività per il sistema economico nel suo complesso.
Cofferati: "È possibile uno sviluppo senza lavoro?" Purtroppo sì. Ci si deve rassegnare a questa condizione? Spero proprio di no. La condizione nella quale stiamo operando, è una condizione nota. Dopo un periodo lungo di recessione, una parte della nostra economia e una parte del sistema produttivo hanno ripreso a funzionare e si sono determinate le condizioni perché in molte realtà, aziende o settori, sia ripreso il processo di accumulazione e siano sorti segnali evidentissimi di ripresa. Questi segnali importanti però valgono per alcuni, non per altri.
La situazione infatti è enormemente differenziata. I risultati positivi sul piano anche del lavoro e dell'occupazione si sono concentrati sostanzialmente, nell'arco degli ultimi mesi, in alcuni settori e in alcune aree geografiche. Sono i settori che si erano innovati maggiormente, e sono le aree geografiche nelle quali questi settori insistono in prevalenza. Sono quelle realtà che potendo contare su spazi consistenti all'esportazione, meglio si sono posizionati e difesi anche nella fase recessiva. E ci troviamo di fronte, e questo è uno degli aspetti paradossali, a segnali rilevanti di ripresa in alcune attività che si accompagnano parallelamente all'arretramento delle condizioni complessive di lavoro e di reddito in altre realtà. Il nostro è un paese tradizionalmente diviso in due, e in questi mesi questa divisione si è accentuata tra i forti e i deboli, tra il Nord e il Sud. Credo che di questo occorra prendere atto, e anche che occorra considerare questa divisione come un grande rischio politico e sociale. Se questa divisione non viene rapidamente recuperata, se il divario non viene colmato, potremmo trovarci di fronte all'accentuarsi di tensioni sociali in alcune aree, principalmente quelle meridionali. Che il problema dell'occupazione e del lavoro, nel Mezzogiorno, sia un problema che sovrasta ogni altro, è innegabile.
La prima questione alla quale quindi bisogna cercare di rispondere, se non si vuole finire prigionieri della deriva che la domanda iniziale indica, è quella di passare da una fase di ripresa ad una vera e propria fase di sviluppo. Lo sviluppo è la crescita consistente ed equilibrata di tutta l'economia, con risultati importanti su tutto il territorio nazionale. Per questo il problema del Mezzogiorno è un problema centrale, e le questioni del lavoro e dell'occupazione relative a quelle zone vanno considerate con grande attenzione.
Come realizzare questo sviluppo, come renderlo armonico? Bisogna usare le risorse che si stanno creando per rispondere ad alcune priorità, ad alcuni bisogni che prevalgono su altri. Il Mezzogiorno non è arretrato per condanna divina, ma perché nel corso di questi anni non è stato messo in condizione di poter utilizzare al meglio tutte le occasioni che si sono presentate ciclicamente. Se nel Mezzogiorno c'è meno lavoro e meno occupazione, è perché una parte consistente dei territori meridionali non ha le condizioni di base per poter favorire gli investimenti e per poterli remunerare. Il governo deve in primo luogo creare le condizioni di ambiente sociale ed economico necessarie a favorire gli investimenti nel Mezzogiorno, lontano dalla logica assistenziale e dagli interventi generalizzati.
Come si può operare? C'è un livello, che potremmo chiamare di ambiente economico, insufficiente e inadeguato. Mancano in primo luogo le infrastrutture. Produrre nel Mezzogiorno per vendere in Europa è scelta impraticabile per molte imprese. Quando si usa il termine infrastruttura, si pensa a strade e ponti, ma occorre invece pensare anche al sistema informatico, alla produzione e alla trasmissione dell'energia. E, ancora, non basta avere infrastrutture, bisogna avere le persone formate. La formazione è una risorsa enorme, che in molti paesi europei è stata utilizzata bene e ha permesso di reggere meglio di quanto non sia capitato in Italia anche la fase recessiva. Bisogna creare una cultura imprenditoriale: in molti territori del Mezzogiorno, la presenza esclusiva della impresa pubblica ha impedito che nel corso di questi decenni crescesse una cultura imprenditoriale. Ci sono stati grandi investimenti, la maggioranza dei quali, per altro, non ha dato i risultati previsti, e poi progressivamente, quando si è indebolito un certo insediamento, si è creato il deserto.
Non si può pensare che l'occupazione si crei soltanto allargando la ricchezza di un paese: bisogna guardare alla composizione di questa richiesta. Il modello di sviluppo degli anni passati, dei decenni passati, non è più riproponibile così com'era: nessuno di noi può pensare che l'occupazione possa crescere esclusivamente o prevalentemente come è stato, per molti anni, nei settori industriali. E un paese nel quale la ricchezza cresce, può dare una risposta a quelli che chiamerei i nuovi bisogni. Ci sono tanti altri modi per dare una risposta positiva all'occupazione, come ad esempio l'assistenza alla persona o le tematiche ambientali che sono contemporaneamente rispetto dell'ambiente e grandi occasioni economiche. E poi bisogna avere e programmare per tempo una politica degli orari. So che quando si parla di orari scatta in molte imprese, soprattutto nelle associazioni una reazione contraria, ma credo che sia indispensabile programmare una politica degli orari, dei tempi, che sia indispensabile programmare una progressiva riduzione degli orari di lavoro. Compatibile con le nuove dimensioni comunitarie e con l'utilizzo della quota di ricchezza che di volta in volta, deve essere destinata a pagare i costi di queste riduzioni. Io credo che queste tre cose debbano essere fatte insieme se si vuole dare una prospettiva che non sia semplicemente la ripresa economica senza lavoro e occupazione.
Vorrei fare cenno ad un argomento collegato ai precedenti: la mobilità. In un paese civile la mobilità è un fatto congenito, fisiologico, ma non può essere la mobilità l'elemento sul quale si basa il riequilibrio tra aree che hanno dimensioni, carattere, tendenze e vocazioni diverse. Il lavoro va portato laddove non c'è, e bisogna evitare il trasferimento di massa dei disoccupati verso i quali il lavoro si crea. Peraltro questo è un paese che ha pagato durante gli anni Sessanta i processi migratori: non è il caso di riprodurre quel modello di sviluppo, quel modello di assetto sociale. La mobilità fisiologica è altra cosa dal condannare intere generazioni ad una migrazione obbligata, e dunque violenta, alla ricerca del lavoro. Ed io non credo che il problema del lavoro e dell'occupazione si risolva prevalentemente operando sulle flessibilità. Il nostro paese, tra norme contrattuali e regole legislative, già dispone di una somma di strumenti enormi per la flessibilità del mercato del lavoro. In qualche circostanza ci sarebbe addirittura bisogno di semplificare; questo ragionamento vale per gli ammortizzatori sociali, ed anche per alcuni strumenti che si chiamano, in gergo, contratti atipici.
Se la flessibilità che le imprese ricercano è la condizione per gestire al meglio occasioni di mercato, avranno sempre un sindacato attento e disponibile, se la flessibilità che invece si cerca è la negazione dei diritti di chi lavora, avranno un sindacato ostile. Le imprese infatti pretendono spesso di utilizzare gli strumenti disponibili o addirittura di inventare ex novo degli strumenti senza discuterne con il sindacato. C'è chi, per esempio, pensa alle gabbie salariali o alle deroghe dai contratti di lavoro: questa è una strada per noi impraticabile, antistorica. Credo che invece occorra avere un sistema di contrattazione che permette una crescita regolata ed armonica delle retribuzioni, facendo sì che i contratti nazionali servano a tutelare il potere d'acquisto e che la contrattazione aziendale, faccia queste differenze, che sono date dalla produttività che è diversa per ogni luogo di lavoro. Il salario in azienda deve essere concepito come uno strumento importante per stimolare modelli organizzativi nuovi, per far crescere anche il contributo professionale della gente che lavora.
Tutto ciò che mi sto augurando penso che sia anche praticabile: chiederemo ai nostri interlocutori attuali e futuri che ci siano provvedimenti che abbiamo alla radice una considerazione importante, cioè che il lavoro e l'occupazione continuino ad essere in questo paese un problema ancora da risolvere, per non condannarsi ad una crescita che considera una variabile indipendente quella del lavoro e dell'occupazione.
Confesso, francamente, di essere fiducioso. Questo non vuol dire ignorare le difficoltà ed i problemi che abbiamo di fronte; ci sono questioni peraltro che stanno fuori dall'orbita di competenza e di intervento dell'impresa e del sindacato, che dipendono invece dal governo, e da un governo stabile.
In ultimo, vorrei aggiungere che alle generazioni giovani dobbiamo dare un messaggio di fiducia e di speranza, non utilizzare strumentalmente il problema del lavoro, il bisogno di lavoro: non fare promesse miracolistiche, ma lavorare in concreto su ogni singolo segmento per far sì che i più giovani guardino al loro futuro con speranza.