L’Amazzonia: l’altra faccia dello sviluppo
Giovedì 27, ore 11
Relatori:
Gilberto Mestrinho De Medeiros Raposo
Celso Batista De Oliveira
Francesco Salamini
Moderatore:
Giorgio Vittadini
Vittadini: L’incontro di oggi ci propone l’Amazzonia come un punto sintetico della situazione mondiale, un punto in cui il problema della conservazione dell’ambiemte, ma anche il problema dello sviluppo delle persone trova una sua rilevanza particolare.
Oggi noi vogliamo parlare con testimoni diretti, sia del problema dell’ambiente sia del problema dell’Amazzonia stessa.
Gilberto Mestrinho De Medeiros Raposo, Governatore dello Stato di Amazzonia.
De Medeiros: Voglio prima di tutto esprimere la mia gratitudine per l’invito che ho ricevuto il quale mi consente di darvi qualche idea in più della mia regione: l’Amazzonia.
L’Amazzonia si è formata alla fine dell’era terziaria quando il mare è stato espulso da quella zona e così si è formato questo grande bacino. La maggior parte della foresta amazzonica si incontra in Brasile, però la possiamo trovare anche in Bolivia, in Perù, nella Guyana, nella Colombia e in altri Paesi dell’America Latina. Si caratterizza per questo manto verde estesissimo ed anche per una grossa distesa d’acqua.
E’ anche una zona a bassa densità demografica perché l’Amazzonia brasiliana ha 150 milioni di ettari (praticamente è più grande di tutta l’Europa occidentale) dove vivono soltanto 17 milioni di persone. Di questi solo 184.000 sono indios, come origine razziale, non come modo di vita, perché ormai tutti sono integrati nel processo di civilizzazione che c’è stato.
Fino a qualche decennio fa questa regione era abbastanza sconosciuta e si pensava che non potesse essere sfruttata tanto che quando, a metà degli anni ‘60, degli scienziati statunitensi progettarono un grosso lago che avrebbe dovuto affogare la foresta, nessuno sollevò critiche. Ma facendo, tramite satelliti, fotografie sul territorio dell’Amazzonia si è scoperto che è ricchissima di minerali preziosi. Da quel momento è stata fatta una campagna mondiale tesa a sancire l’inviolabilità di questa foresta. Tutti quelli che prima avevano detto che non c’era nessun problema nell’affogare la foresta, hanno cominciato a dire che se togliamo un solo albero dall’Amazzonia, possiamo alterare, modificare il clima del mondo intero. Così è iniziata la grande battaglia economica.
Se analizziamo il flusso del mercato del legno, possiamo constatare che è dominato da consorzi americani, svedesi e canadesi. L’America del Sud, che possiede praticamente la metà di tutte le foreste del mondo, non possiede questo mercato. Si predica che bisogna proteggere l’Amazzonia per non alterare il clima del mondo, ma in realtà non si vuole togliere il mercato a qualcuno di questi Consorzi di cui vi ho parlato. Lo stesso succede con i minerali: tutte le volte che si fanno delle ricerche in Amazzonia e si aprono miniere se ne chiudono nel resto del mondo, per cui è necessario combattere lo sfruttamento di queste miniere in Amazzonia per non causare danni economici a queste Compagnie multinazionali che fanno le stesse cose nel resto del mondo e logicamente non possono permettersi di avere dei concorrenti.
In tutto il mondo c’è una grossa disinformazione sulla nostra regione. Viaggiando per il mondo a volte mi sono trovato al punto in cui sembrava che l’Amazzonia dovesse morire da un momento all’altro. Nonostante i cinquecento anni di occupazione, perché gli Europei sono stati in Amazzonia ancora prima che Cabral scroprisse il Brasile, solamente il 9,5% della foresta originale è stata "danneggiata" (nello Stato dell’Amazzonia dove ci sono 150 milioni di ettari, cinque volte il territorio italiano, soltanto l’1,24%). L’Amazzonia ha grandi ricchezze naturali ed anche un enorme potenziale idrico; ciò che manca a noi sono audacia e tecnologia. Il nostro sforzo è stato quello di cambiare l’immagine che esiste dell’Amazzonia, non soltanto nel mondo intero, ma anche in Brasile. Abbiamo cercato di sviluppare l’idea che questa zona può essere sfruttata in un senso diverso, per ottenere dalla foresta dei benefici che vadano a favore dell’uomo e che poi possano ritornare a favore della foresta stessa. Gli abitanti dell’Amazzonia sono anch’essi degli esseri umani e hanno il diritto al conforto, al benessere di cui godono tutte le altre persone che vivono nel resto del mondo.
La nostra visione ecologica è cristiana. Cristo è venuto al mondo per salvare l’uomo per cui per noi il centro dell’ecologia è l’uomo. Ed è verso l’uomo che bisogna dirigere tutte le attenzioni. Dio ci ha dato l’intelletto per utilizzare l’ambiente a beneficio di ogni uomo. Tutti noi vogliamo vivere in un ambiente sano. Quando noi apriamo gli occhi, la prima cosa che vediamo è ciò che ci circonda.
Come può l’Amazzonia avere uno sviluppo diverso? Può essere utilizzata in molte maniere. Quello che fa male all’Amazzonia è lo sradicamento degli alberi. Quando si taglia un albero in Amazzonia, bisogna tagliarlo ad 80 cm. dal suolo, perché in questo modo l’albero può crescere. L’Amazzonia è la miglior regione che esista per la crescita degli alberi perché siamo sulla linea dell’Equatore. L’idea dell’Amazzonia come polmone del mondo in quanto libererebbe ossigeno è falsa. Non esiste polmone che possa creare ossigeno. E’ vero invece che la foresta amazzonica, man mano che crescono i suoi alberi, ritira il gas carbonico che esiste nell’atmosfera.
Hanno detto anche che tutti gli incendi che ci sono stati in Amazzonia sono stati i primi a creare il buco nell’ozono, ad essere i responsabili del buco nell’ozono.
Una sola esplosione atomica, causa molti più danni che bruciare sei volte l’Amazzonia intera.
Il buco di ozono, dicono alcuni scienziati, è la conseguenza del ciclo della radiazione solare, che succede ogni 12 anni. L’anno scorso, tutti i Paesi temperati erano allarmati perché sembrava che lo strato dell’ozono si stesse assottigliando, per cui c’era la possibilità di poter contrarre il cancro alla pelle. L’industria della cosmesi francese e statunitense ha cominciato a mettere sul mercato dei prodotti solari ma la NASA ha verificato che questo strato di ozono, invece di diminuire, era aumentato, e non si sa il perché. Queste teorie climatiche sono troppo giovani. Occorre studiare, aspettare, per poter capire queste trasformazioni climatiche che stanno succedendo sulla terra, anche perché la storia della terra è raccontata per fasi climatiche, che non hanno niente a che vedere col surriscaldamento della terra ma piuttosto col suo contrario.
Tutto questo discorso era per farvi capire che noi in Amazzonia non abbiamo nessuna colpa con gli impatti ambientali che succedono nel resto del mondo.
Celso Batista De Oliveira è direttore della Scuola Agricola "Nostra Signora degli Apostoli" di Manaus.
De Oliveira: La Scuola Agricola "Nostra Signora degli Apostoli" ricola è in Amazzonia a circa 40 km da Manaus. Essa raccoglie ragazzi che vengono dall’interno dello Stato dell’Amazzonia e appartengono a popolazioni indigene e non. Arrivano a noi perché vengono contattati tramite dei missionari o tramite persone del potere pubblico. Questi ragazzini mangiano e dormono da noi e tornano presso le loro famiglie soltanto una volta all’anno. Nei cinque anni di studio imparano come si può sfruttare il terreno e una volta tornati presso le loro comunità iniziano a mettere in pratica quello che hanno imparato da noi. Durante questi anni di convivenza viviamo molto bene, anche perché per la maggioranza di loro questa è l’unica opportunità che hanno nella vita di frequentare una scuola e di acquisire una professionalità.
La nostra scuola è aperta soltanto da 4 anni per cui non abbiamo ancora finito di fare il corso, però durante questi 4 anni questa convivenza giornaliera si è rivelata molto importante. Per noi è realmente una scuola di comunità.
Tutti noi facciamo un grosso sacrificio per fare questo lavoro, però tutti noi lavoriamo con il cuore perché per noi è molto importante per dare l’opportunita a questi ragazzini di avere una scuola, una formazione che forse sarà la cosa più importante della loro vita.
Francesco Salamini è nato nel 1939 a Castelnuovo (MI). Si è laureato in Agraria presso l’Università di Piacenza. Attualmente è coordinatore nazionale del progetto "Sviluppo di tecnologie avanzate applicate alle piante" (Ministero dell’Agricoltura e foreste), consulente F.A.O per la coltivazione del mais in Corea, Polonia, Albania, e membro della Commissione CEE per le Biotecnologie.
Salamini: Quello che io intendo presentarvi è per quanto possibile un quadro generale dentro il quale, se volete, potete anche inquadrare esperienze simili a quelle dell’Amazzonia.
Prima di tutto un’osservazione. Se voi parlate con un ambientalista senz’altro vi dirà che qualche cosa di non fisiologico sta succedendo al pianeta, essenzialmente riassumubile nella constatazione che stiamo riducendo gli habitat naturali, che perdiamo variabilità genetica e tante specie selvatiche. Se poi parlate con un agronomo, uno che si interessa di produzione di cibo questo vi può dire che il cibo può essere prodotto sul pianeta in quantità tale che può servire anche per 11 miliardi di persone. Entrambi potranno anche proporvi soluzioni. Perché allora non dovremmo lasciarci un po’ trasportare dal sogno ecologico di un bell’ambiente in cui vi sia pace con piante ed animali selvatici?
Il problema nasce essenzialmente dagli uomini stessi. Entro il 2025, dai 5 miliardi che siamo ora, saremo circa 8,5 miliardi e in un qualche decennio arriveremo agli 11 miliardi e quindi si dovrà produrre di più. Due sono le possibili soluzioni: la deforestazione e l’intensificazione agricola. Entrambe, però, comportano dei problemi, la prima perché le foreste di solito presentano suoli agronomicamente molto difficili da essere coltivati; la seconda ha anch’essa le sue negatività che si riflettono in alcuni fenomeni ai quali purtroppo stiamo diventando usi, per esempi l’eutrofizzazione delle acque o lo sviluppo delle alghe.
Essenzialmente ci troviamo di fronte a tre ordini di problemi. Il primo riguarda i paesi sviluppati, è l’esigenza di limitare i lati negativi della intensificazione agricola. Negli ultimi 35 anni è aumentato di 32 volte in agricoltura l’uso degli antiparassitari, cioè di molecole chimiche per combattere insetti e malattie, è aumentato di 9 volte l’uso dei fertilizzanti, di 2 volte l’uso di acqua per irrigazione. In queste condizioni, si osservano dei contreffetti, per esempio se consideriamo l’uso dei concimi, troviamo tra l’altro un accumulo di queste molecole nel terreno, nelle acque di falda e nelle acque di superficie (e di conseguenza lo sviluppo delle alghe), un accumulo dei nitrati nelle acque che dobbiamo bere. Nell’aria un accumulo di ossido di azoto e di ammoniaca è responsabile delle piogge acide. Quali tipi di interventi potrebbero essere adottati per gli effetti negativi dell’intensificazione delle culture? Essenzialmente due. Prima di tutto un’attenzione a lasciare tutti gli elementi naturali residui ancora presenti nel paesaggio agrario. Il secondo tipo di intervento è più complesso. Nei secoli coloro che si sono interessati di agricoltura hanno cercato essenzialmente di adattare l’ambiente all’esigenza della pianta agraria: dove c’era un terreno collinare l’hanno spianato per poi poterlo irrigare, dove non c’era acqua hanno portato acqua, dove c’era troppo freddo hanno fatto una serra. Questa attenzione all’esigenza della pianta (che ha portato anche per esempio nel dopoguerra ad introdurre le sostanze per proteggere le piante dagli insetti e dalle malattie) si dimentica dell’attenzione dell’ambiente. Bisognerebbe riuscire a rovesciare i termini della questione: modificare la pianta lasciando inalterato l’ambiente. E’ scientificamente possibile far diventare le piante resistenti agli insetti e alle malattie. Questo porterebbe a minor pressione, per esempio, di sostanze chimiche, ad un uso più oculato della biologia invece della chimica nei campi.
Il secondo ordine di problemi è quello che riguarda lo stato e la dinamica delle foreste. Mentre è vero che ci sono larghe parti del Brasile coperte ancora dalla foresta primaria e larghe zone dell’Amazzonia sono ancora intoccate, dobbiamo dire pensando all’equilibrio globale del pianeta, che lo stesso pianeta ospita oggi solo il 24% della foresta primaria che ospitava quando le comunità umane non raggiungevano i 3-4 milioni in numero. Non solo: questo 24% è distribuito in modo tale per cui negli Stati Uniti inclusa l’Alaska esiste solo il 5% di foresta primaria, tutto il resto della foresta è costituito da foreste coltivate. In Europa addirittura non c’è più foresta primaria. E’ evidente che questa condizione tocca gli equilibri ambientali delle specie selvatiche, porta di solito all’invasione di malattie e di insetti, è una delle cause dell’erosione, cioè genera tutte una serie di effetti negativi che devono essere se possibile tenuti in considerazione.
Quali interventi? L’intervento principe si può riassumere in un concetto solo: una gestione forestale sostenibile. Si dovrebbero operare delle azioni di sviluppo che siano compatibili col fatto che il pianeta possa venir lasciato non inalterato, ma con le stesse possibilità di scelta e di sviluppo alle generazioni future. Un aspetto secondario di questa gestione forestale sostenibile è la conservazione della vita delle riserve in situ in modo tale che l’espressione più elevata o l’espressione massima della vegetazione e della fauna in un certo ambiente possa anche nel futuro ritrovarsi.
Il terzo gruppo di problemi riguarda proprio lo sviluppo dei paesi emergenti. I paesi emergenti si trovano in una situazione sfortunata, prima di tutto perché hanno cattivi esempi da noi che esportiamo dei modelli di sviluppo consumistico irreali a lungo termine, secondariamente perché arrivando dopo devono tenere conto di situazioni che già de facto esistono. Per esempio se l’Europa ha distrutto tutte le sue foreste primarie è indubbio che c’è una richiesta di conservazione delle foreste primarie, richiesta di conservazione che non può essere fatta sui territori europei che quindi si deve rivolgere come pressione, interferenza esterna su nazioni che la foresta primaria ancora possiedono.
I problemi che si ritrovano in questi paesi emergenti sono di due tipi: la produzione del cibo, i problemi dell’approvvigionamento e dell’uso dell’energia. Per quanto riguarda la produzione del cibo è vero che molto spesso noi abbiamo proposto a questi paesi emergenti dei modelli complessi e costosi basati su piante nostre. E’ altrettanto vero che questi paesi sono incamminati su un modello di sviluppo molto simile al nostro e cioè che la velocità di inurbamento è altissima e quindi anche questi paesi non potranno fare a meno di agricolture industriali. Agricoltura industriale significa agricoltura intensiva con tutti gli annessi e i connessi e cioè ricadiamo nei problemi che abbiamo già analizzato. Quali tipi di interventi? Certamente questi paesi potrebbero rivolgersi all’agricoltura non solo come produzione di cibo ma anche come materie prime eliminando quindi parte delle problematiche industriali che noi abbiamo nell’evoluzione dei nostri sistemi economici, dovrebbero tenere presente la lezione dei paesi sviluppati e rivolgersi a cibi più naturali e ad un trattamento quindi del cibo più naturale.
Uno scienzato americano nel 1973 concludeva la sua storia sui cibi dell’uomo con le seguenti domande: quale sarà la situazione della specie umana nel 2000? saranno l’inquinamento, la povertà e la fame ancora con noi? Avremo risolto il maggiore dei problemi, cioè avranno tutti i popoli del mondo standard di vita oggi possibili solo in alcune nazioni o sarà la situazione simile a quella di oggi ma con un numero doppio di abitanti sulla terra la metà circa mal nutruti o sottonutriti e almeno alcuni di essi morenti per fame? Apparentemente la più sfavorevole delle ipotesi emerge oggi come realtà. Due dati tra i tanti denunciano l’evoluzione negativa di rapporti tra ambiente e agricoltura. Almeno 14 milioni di tonnellate di grano vengono perse a causa del degrado ambientale. In Europa circa un terzo delle foreste coltivate è seriamente danneggiato da inquinamento dell’aria e piogge acide. Il paradosso più evidente è tuttavia che mentre la produzione globale di derrate non aumenta più a ritmi sostenuti, i cereali e altri beni agricoli rimangono invenduti e creano situazione di ammasso di scorte. L’esplosione del loro acquisto di parte del mondo sottosviluppato spiega il paradosso. Se alcuni paesi in via di sviluppo hanno raggiunto l’autosufficienza, altri non solo non producono di più ma consumano di meno.
Alle soglie del 2000 il problema dello sviluppo di larghe aree del mondo come necessità anche nostra, per bilanciare i rapporti tra produzione di cibo ed ambiente rimane centrale, ma quale sviluppo e con quale agricoltura? E’ indubbio che la tipologia di sviluppo industriale che ha caratterizzato i paesi oggi evoluti non può essere riproposta tale quale nel futuro sia negli stessi paesi, sia nei paesi solo ora emergenti. Ed è proprio l’esigenza di larga parte dei paesi del sud del pianeta ad integrare le azioni di sviluppo industriale con proposte di agricolture intensive, ma eco-compatibili che spinge anche noi a ricercare soluzioni praticabili. La riconsiderazione dell’agricoltura come fonte rinnovabile non solo di cibo ma anche di prodotti per l’industria può contribuire ad alcune soluzioni. Già da ora le biomasse vegetali coprono il 35% dei bisogni complessivi di energia nei paesi in via di sviluppo e sono la fonte primaria di energia per metà della popolazione mondiale. Le biomasse vegetali sono inoltre a basso tenore di zolfo e di ceneri, e se sono confrontati a carboni bituminosi non contribuiscono alla CO2 nell’atmosfera, la loro gassificazione con l’uso di turbine a gas le rende convenienti per produrre elettricità.
Il ricorso a nuovi usi delle piante o la razionalizzazione delle coltivazioni finalizzandole a modelli di sviluppo eco-compatibili possono in prospettiva recuperare provate concezioni di agricoltura basate su rotazioni, cicli di elementi della fertilità, recupero dei rifiuti e ragionato uso dell’acqua. Sembrerebbe una riscoperta dell’agricoltura degli anni che hanno preceduto l’ultima guerra mondiale. La difficoltà di riadattamento di tali pratiche ai tempi presenti dipende dal livello di produttività richiesto, per lo meno tre volte più elevato in termini di resa, e dall’esigenza di imporle quali pratiche intensive in aree tropicali o sub-tropicali dove le perdite di terreno per erosione e gli inquinamenti per antiparassiri e concimi, rappresentano pericoli molto più seri che negli ambienti temperati.
E’ necessario investire ancora molto in ricerca, convinti di intravedere nella biologia un possibile succedaneo alla chimica per risolvere i problemi del mantenimento e potenziamento della produttività del terreno e comunque deve essere chiaro che l’intervento scientifico tecnologico offre solo opzioni, integrazione tra produzione di cibo, livello di sviluppo e dinamica delle popolazioni. Dipende invece essenzialmente da azioni politiche il difficle accesso dei paesi poveri all’energia e la priorità da assegnare alla difesa dell’ambiente.