Compagnia delle opere
Sabato 29, ore 11
Relatori:
Arturo Alberti
Ronald Marino
Regina Da Silva Nunes
Maria Barbagallo
Raul Anselmo Randon
Gianluigi Da Rold
Moderatore:
Giorgio Vittadini
Vittadini: Siamo qui per l’annuale Assemblea della Compagnia delle Opere, che quest’anno ha come tema le opere in America, opere fatte da nostri amici, e opere fatte da amici incontrati di esperienze diverse. Visto che il tema di questo Meeting è proprio l’incontro col bisogno dell’uomo, la risposta a questo bisogno, per i più poveri, per quelli a cui nessuno pensa, abbiamo pensato di presentare alcune esperienze che ci sembrano particolarmente significative, come esempio di un modo di operare della persona comune rispetto alla realtà.
Arturo Alberti, presidente dell’AVSI.
Alberti: Il lavoro dell’AVSI è iniziato molto timidamente vent’anni fa e adesso ha assunto dimensioni abbastanza grandi. In questi ultimi anni soprattutto in America Latina l’impegno dell’Avsi è andato via via indirizzandosi verso due settori prioritari: la formazione professionale agganciata a concrete possibilità di lavoro (in America Latina in particolare in Brasile, il 50% della popolazione ha meno di 20 anni. I giovani si affacciano sul mercato del lavoro con scarsa possibilità di trovare una risposta al loro bisogno. Chiunque intenda impegnarsi nel settore della cooperazione in America Latina deve innanzitutto cercare di dare uno sbocco positivo a questo desiderio di lavoro. Se i giovani lavorano producono reddito e mettono in moto processi di sviluppo e di crescita per tutto il contesto sociale in cui sono inseriti) e la difesa dell’ambiente, un ambiente al cui centro è posto l’uomo così come Dio lo ha pensato. La salvaguardia dell’ambiente va commisurata con la necessità di migliorare le condizioni di vita degli uomini. Ciò è ben diverso da una idolatria della natura e da un nuovo panteismo che non tiene conto della centralità dell’uomo.
Alcuni punti metodologici sono alla base del nostro lavoro. Ci interessa l’uomo nella sua globalità, nel suo essere determinato da bisogni materiali e spirituali, nella sua sete di infinito, nella sua ricerca di un significato dell’esistenza. Ci muoviamo per questa passione verso questo uomo non tanto e non solo per risolvere i problemi del terzo mondo, che sono certamente più grandi di ogni nostro tentativo di risposta. Ci siamo accorti che solo una compagnia cerca di dare risposte al bisogno che siano organiche, adeguate, efficaci, efficienti. Non ci si limita ad una presenza consolatoria ma a partire da una autentica esperienza di condivisione si cerca di trovare il modo giusto per aiutare la gente incontrata.
In questi anni, l’immanenza in una compagnia reale come la compagnia delle Opere è stata di fondamentale importanza anche per noi qui in Italia che dobbiamo sostenere e garantire questa presenza. Essa non è stata per noi un fatto tecnico di semplice sostegno operativo, ma luogo di cambiamento culturale, di confronto, di sequela, di approfondimento. Lo stare a questa compagnia ha comportato infine una più grande capacità di lettura delle situazioni e una maggiore intelligenza nel cercare ragioni adeguate. Da ultimo mi preme sottolineare che questa compagnia all’opera per dare una risposta al bisogno dell’uomo nella sua globalità fa nascere un soggetto nuovo che diviene protagonista dello sviluppo proprio e della propria nazione. Le speranze di sviluppo sono legate alla nascita di questo soggetto che sfida la realtà. Ad esempio oggi la scuola di Manaus funziona: perché tutte le scuole simili in Amazzonia sono state chiuse? Perché pochi anni fa anche questa scuola stava per chiudere e ora invece funziona bene? La novità che spiega tutto è proprio la nascita di questo soggetto che ha a cuore la scuola e il destino degli alunni che la frequentano, una compagnia di brasiliani e di italiani che nel nome di Cristo stanno giocando in questa opera ciò che sono e ciò che hanno e stanno ottenendo risultati concreti e utili per la gente del luogo. In conclusione si può dire che fare il cristianesimo è veramente cooperare allo sviluppo.
Ronald Marino, direttore dell’Uffico Cattolico per l’Immigrazione della Diocesi di Brooklyn.
Marino: Sono direttore dell’Ufficio Cattolico per l’Immigrazione della Diocesi di Brooklyn. Il lavoro del mio ufficio che è stato fondato nel 1971 e che è il più grande ufficio cattolico negli Stati Uniti di questo genere è coordinare il lavoro legale, sociale, educativo e pastorale per aiutare le migliaia di persone che vengono da noi a chiedere assistenza. Brooklyn pur essendo la più piccola Diocesi degli Stati Uniti, dal punto di vista territoriale, è la più grande dal punto di vista della popolazione. Il 90% della popolazione della mia Diocesi è nata all’estero. Abbiamo emigranti provenienti da più di 125 diversi paesi i quali parlano 44 diverse lingue; l’80% di loro è cattolico. Potete quindi immaginare quale sfida sia per la Chiesa di Brooklyn assicurare la cura pastorale per tutte queste persone. Ma torniamo a me. Sono stato ordinato sacerdote 19 anni fa e negli ultimi 11 anni mi sono impegnato in questo particolare servizio ecclesiale per gli immigranti. Quando mi fu chiesto per la prima volta di lavorare nell’ufficio diocesano per l’immigrazione non volevo farlo. Ero già stato prete in una parrocchia per sette anni che essendo i primi sette anni del mio sacerdozio, erano stati per me molto felici; non volevo sedere dietro ad una scrivania della curia diocesana a firmare carte, non desideravo fare carriera al di fuori del sacerdozio donatomi da Dio. Ebbi il coraggio di dire tutto ciò al vescovo. Al momento non compresi che dicendogli questo avrei insultato non solo l’intero suo staff di curia ma anche lui stesso che era stato cancelliere della diocesi per molti anni prima di diventare vescovo (quel vescovo ora è un cardinale americano). In ogni caso mi fu chiesto di accettare in nome dell’obbedienza e naturalmente io obbedii. La cosa interessante comunque è che fino al momento in cui accettai di lavorare con gli immigranti e i profughi non avevo mai capito quanto il mio mondo fosse piccolo. In tutta la mia vita fino a quel punto non avevo mai conosciuto gente proveniente dal Pakistan o dall’India o dal Belize o dalla Giamaica o da Trinidad o dal Togo. Avevo continuato tranquillamente a pensare che la Chiesa cattolica che conoscevo era tanto piccola quanto la mia testa e la mia esperienza l’avevano delimitata. Tuttavia, più facevo il lavoro assegnatomi, più capivo quanto il lavoro della Chiesa con gli immigranti e i profughi si estendesse in ogni parte del mondo. E così cominciai a percepire differentemente il significato del mio essere un sacerdote e anche semplicemente del mio essere cattolico.
Dopo tutti questi anni sono qui per dirvi con orgoglio che la Chiesa cattolica negli Stati Uniti è il più grande ente assistenziale del mondo per l’inserimento sociale dei profughi. Sono qui per dirvi che l’ufficio che io dirigo è in questo momento il più grande fornitore di servizi per immigranti tra tutte le diocesi del mio paese. Sono qui per dirvi che la mia visione della Chiesa cattolica è enormemente cresciuta rispetto alla prospettiva limitata che io avevo prima di obbedire alla richiesta del vescovo e prima di accettare il progetto di Cristo stesso su di me. Non sto semplicemente dicendo che nel fare questo particolare servizio abbia incontrato molte più persone di quanto non avrei potuto nella mia vecchia parrocchia, ciò che in effetti sto dicendo è che nel fare questo particolare servizio ho incontrato la Chiesa e ho incontrato Cristo in un modo che non sapevo nemmeno esistesse. Mi spiego: nell’anima degli immigranti e dei profughi che ho incontrato vedo un’espressione di fede che rivela la loro totale dipendenza da Dio stesso. Queste persone arrivano in una grande città come New York, non parlano inglese, non conoscono il nostro cibo, non sanno usare il nostro sistema di trasporti, non sono familiari con il modo con cui noi usiamo i soldi, tutto ciò che riguarda i nostri costumi suona loro strano; e però l’unica cosa familiare che esiste nel mondo per come lo vedono loro è la Chiesa cattolica che loro hanno in ogni quartiere a New York. Quando entrano in una Chiesa a pregare sono a casa. Questo è un’aspetto della Chiesa cattolica, la sua universalità, che la gente che sta nel suo piccolo mondo non potrà mai sperimentare. Inoltre, gli immigranti e i profughi portano alla Chiesa cattolica in America, che è una delle chiese cattoliche più giovani del mondo, una spiritualità, una devozione, un insieme di pratiche di culto, di espressioni di fede che ci sono totalmente sconosciute.
Per me i cattolici erano quegli americani che celebravano il Natale e la Pasqua e il giorno dell’Indipendenza con messe speciali. Non avevo mai sperimentato prima di allora le processioni, le novene, le devozioni a Santi che nemmeno sapevo esistessero, i Santi patroni delle città da cui proveniva questa gente. Non avevo mai mangiato tanti piatti tradizionali fatti in occasioni di certe feste di Santi, non avevo mai viste tante decorazioni fatte in onore alla Madre Vergine, non avevo mai sperimentato la bellezza della musica religiosa cantata in diciotto diverse lingue come si fa nella mia diocesi ogni domenica, fino al momento in cui, obbedendo, ho abbandonato le mie idee su quello che Dio voleva da me e sono entrato nel mondo di ciò che Egli in effetti progettava. E la bellezza di ciò è che tutta questa esperienza di vivere la chiesa nella fede degli immigranti è possibile a Brooklyn, la più piccola fra le diocesi d’America.
Quando si pensa alle lotte che ci sono state nel mondo e a come la chiesa cattolica sia stata accanto alle persone in queste lotte e le ha difese e protette si può capire l’aspettativa che gli immigranti hanno nei confronti della Chiesa quando vengono negli Stati Uniti. Chi potrebbe negare per esempio che in Polonia se non ci fosse stata la forza della Chiesa Cattolica non si sarebbe raggiunto il successo di Solidarnosc? chi non ammetterebbe che in America Latina la Chiesa Cattolica sia stata una strenua difesa dei diritti umani di fronte a gruppi terroristici e a governi dittatoriali? chi non ha visto nell’America centrale il sangue della chiesa nelle persone dei suoi missionari versato per i diritti umani in difesa dei popoli di questi paesi? Gli Americani leggono queste cose sui giornali, gli immigranti le conoscono per esperienza. Ma tutto ciò mi fece comprendere che era la gente di cui mi occupavo ufficialmente che si stava occupando di me. Prete o no, Cristo voleva che io lo trovassi dove lui aveva deciso di essere.
Gli immigranti e i profughi che ho incontrato a Brooklyn mi hanno insegnato a capire e ad amare la chiesa con la stessa loro forza e dipendenza. Spesso cerco di immaginare che cosa diverrebbe la Chiesa in America se i cattolici americani la conoscessero come la conoscono gli immigranti. Così questa diventa la storia di come la chiesa ha portato la salvezza ad un sacerdote attraverso gli immigranti. Questa diventa la storia di come il volto di Cristo, che io ho il compito di mostrare al popolo di Dio, mi sia stato rivelato dalla gente che sono stato chiamato a servire. Questo è l’esempio di come l’obbedienza al progetto di Dio e la fiducia nella guida dello Spirito Santo ci conducono dove di solito noi non andremmo di nostra iniziativa. E una volta lì il mondo non può essere più lo stesso. Per me la Chiesa cattolica non può essere più la stessa e il sacerdozio non può essere più lo stesso, perché la gente che io servo mi ha mostrato il volto umano di Cristo. Senza di loro avrei potuto essere un buon sacerdote, un normale sacerdote, avrei potuto partecipare ad opere della Chiesa e Dio sarebbe stato contento di me. Tuttavia a causa degli immigranti e dei profughi ai quali nessuno importa in America, se non alla Chiesa, io mi sento dopo 19 anni di sacerdozio come se fossi stato ordinato ieri. Ho nel mio cuore tanto zelo e tanta energia per il mio ministero sacerdotale quanto ne avrei se fossi nuovamente ordinato. Poiché ho obbedito e ho avuto fiducia, Dio ha reso il mio sacerdozio non meramente buono ma grande, non meramente comune ma spettacolare. Questo è ciò che Egli fa quando lo cerchiamo nel nostro lavoro quotidiano. Egli prende i doni, i talenti e la buona volontà che in noi già esistono e vi aggiunge quel qualcosa di speciale che ci porta a vette di perfezione che non avremmo mai pensato possibile per noi. E infine so che quando mi toccherà essere giudicato da Cristo, Egli considererà il suo diretto comandamento alla chiesa: "accogliete l’estraneo in mezzo a voi" e saprà che, nel suo nome, grazie alla sua insistenza, io ho cercato di obbedirgli letteralmente.
Regina Da Silva Nunes è insegnante e responsabile della Scuola Agricola "Nostra Signora degli Apostoli".
Da Silva Nunes: La nostra scuola "Nostra Signora degli Apostoli" si trova a Manaus e raccoglie ragazzi provenienti dall’interno del Brasile che vogliono diventare dei tecnici agricoli. Altre quattro scuole che sono state fatte dallo Stato, dal Governo non hanno funzionato e tutte le volte che cercano di fare una scuola vengono a vedere come funziona la nostra per poter seguire il nostro modello. Noi abbiamo al centro del nostro studio l’uomo e da lì tutta la realtà.
Io penso che i due grossi problemi dell’Amazzonia siano questi: la conservazione e la preservazione dell’ambiente e la ricorrenza della evangelizzazione dell’America Latina. La nostra esperienza nasce da questa constatazione, il senso di impotenza di fronte alla complessità dei problemi, ma è proprio questo che ci aiuta a purificare la nostra azione, altrimenti noi potremmo dire: "Abbiamo risolto il problema dell’Amazzonia". Invece per questa impotenza dobbiamo affrontare tutti i problemi con uno sguardo aperto, con un attegiamento positivo e avendo appunto questa nuova prospettiva scopriamo la nostra dignità. Non siamo importanti perché risolviamo i problemi dell’Amazzonia, bensì perché siamo degli uomini, per cui ci troviamo di fronte alla realtà con gli occhi aperti, vogliamo risolvere i problemi e non abbiamo la pretesa di conoscere in anticipo questa realtà.
La scuola è una delle poche, forse l’unica opportunità che questi ragazzi hanno di studiare. Noi abbiamo cercato di fare l’impossibile per preservare l’ambiente e offrire a questi giovani una risposta alle loro necessità. Studiando possono riconoscere il loro valore, la propria dignità. Inoltre un domani saranno importanti nei loro villaggi come tecnici dell’agricoltura.
Vorrei soltanto darvi un esempio del clima che c’è nella nostra scuola. Abbiamo dato una domanda all’assemblea: qual è la differenza che esiste fra la religione e la chiesa che è vita religiosa? E la risposta di tutti questi allievi che frequentano il nostro corso è stata: "Io ho conosciuto la chiesa andando a scuola la domenica e frequentando un po’ quel gruppo di giovani però non mi è bastato e io ho lasciato perdere perché io sono intelligente e questo non mi bastava. Invece adesso posso affermare che vivere qui, capire che senso ha il nostro lavoro, il nostro studio, il nostro sacrificio di essere qua e di fare quest’opera, questa è vita religiosa. Anche gli insegnanti fanno questa esperienza e i ragazzi sono molto aperti e rispondono subito alle nostre domande. E’ veramente incredibile la maniera in cui si risponde a queste domande dentro il proprio lavoro. Siamo amici, affrontiamo i problemi della scuola insieme perché dar da mangiare a tutti questi ragazzi, dormire, giocare, fare degli sport, poter star dietro a tutti questi ragazzini non è un’impresa facile. Allora come affrontiamo queso problema? Avendo questo senso di impotenza e cercando di attaccarsi a questo gruppo di lavoro.
Suor Maria Barbagallo, Superiora Generale delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù.
Barbagallo: L’esperienza che mi dà la partecipazione a questo Meeting mi invita ancora una volta a vedere la nostra missione, la nostra opera missionaria del Sacro Cuore fondata da S. Francesca Cabrini in una visione unitaria che abbraccia passato presente e futuro. Il passato per noi significa la memoria storica e salvifica di carisma che è sorta dallo Spirito. Questa ispirazione originale ha dato vita ad attività missionarie diverse, a favore degli emigranti italiani di cento anni fa, ed altri gruppi e non solo per il bisogno urgente che se ne vedeva ma perché c’era un movente interiore dello Spirito che spingeva a dare un significato, a dare una speranza, a promuovere la vita laddove c’erano veramente i segni della morte. Quando iniziava un’opera Madre Cabrini desiderava trasmettere in essa lo stile del Vangelo e la pedagogia dell’amore del Cuore di Gesù affinché le persone uomini, donne, bimbi, adulti, giovani potessero sentire e godere la vita, perché questo era il punto ed è il punto, quello di godere l’esperienza del vivere. Come si poteva fare questo se la vita era così difficile per tutti, come far sentire questo desiderio di appartenenza a una famiglia che è la Chiesa, la famiglia di Gesù, la famiglia di Dio e far sperimentare l’Amore, il rispetto reciproco, il rispetto alla persona chiunque essa sia?
Questo passato è per noi una radice carismatica appartenendo alla quale noi sentiamo di crescere. Non è solo una memoria ma è una vita che si trasmette e che continua a dare vita. Naturalmente ogni carisma ha questa vitalità che può ricreare cose nuove perché il carisma dello Spirito è sempre nuovo. Noi sentiamo che al presente ci sono nuove espressioni apostoliche e missionarie, perché il carisma non cambia ma si sviluppa sempre nuovo, mentre le forme esterne cambiano. Per l’identità cabriniana, per esempio, è importante questa esperienza vitale che continua a vivere, mentre le forme oggi sono totalmente cambiate. L’opera cabriniana non è solamente affidata alle suore come 110 anni fa, oggi quest’opera è affidata a tutta la famiglia cabriniana, a tutti coloro che collaborano e sono responsabili con noi e noi con loro della missione. Vi sono oggi opere, attività apostoliche che continuano nello spirito di Madre Cabrini anche se non vi sono suore missionarie. Vi sono individui o gruppi la cui caratteristica sta nel fatto che chi le conduce non è una suora, non è un religioso ma è una persona che ha imparato attraverso la mediazione di Madre Cabrini l’amore di Gesù, cioè certe caratteristiche, la misericordia, la dolcezza il perdono, la preferenza per i poveri, per i deboli, per gli emarginati tutte cose che non sono comuni a tutte le opere.
Nel corso di questo Meeting abbiamo accennato ad alcune modalità di presenza per favorire i principi dell’etica cristiana: il rispetto dei diritti umani, la difesa della vita, la promozione delle persone e delle culture, la promozione della donna. Di qui la necessità di essere presente oggi nei consigli di amministrazione, nei comitati di gestione di opere di società, nelle comissione internazionali e nazionali per l’emigrazione, per la giustizia, per la pace, per la difesa dell’ambiente, per i diritti dei gruppi etnici: gli indios, i negri, i senza tetto, i senza terra insomma quelle persone che non hanno voce. Molte volte e in certi paesi se non c’è la voce della suora missionaria non c’è nessun’altra voce che parli in loro favore. Oggi la frontiera missionionaria spesse volte è a questo livello. Noi missionarie con frequenza dobbiamo lasciare di fare scuola, catechismo o altre attività sanitarie senza abbandonarle naturalmente per far parte di questi gruppi nei quali si decide la sorte di tanti nostri fratelli e sorelle.
Ma questo non è tutto dobbiamo guardare anche al futuro con un’ottica evangelica. La nostra domanda non è e non deve essere che cosa sarà delle congregazioni religiose, delle opere religiose. Noi ci chiediamo cosa vorrà il Signore da noi missionarie del Sacro Cuore per continuare il suo regno nel prossimo futuro. Io penso che lo Spirito Santo ci dà segni abbastanza chiari sta a noi coglierli. Uno di questi segni è la collaborazione, la comunione ecclesiale, la condivisione dell’opera apostolica con tutte quelle energie cristiane che cercano il regno di Dio e la Sua giustizia. Questa comunione tra i gruppi diversi ma con gli stessi obiettivi è un modo di anticipare il regno di Dio sulla terra perché alla fine tutti i gruppi scompariranno, ci sarà solo la Carità. Questa sarebbe la strategia per annunciare per chi non ci crede che Dio esiste: la comunione e la fraternità vera, la collaborazione disinteressata: questi sono segni della presenza di Dio. Il futuro si costruisce nel rispetto di tutti i carismi, nella pluralità dell’esperienza dei carismi: questa è la ricchezza della Chiesa. Ogni carisma è responsabile della crescita e della vitalità degli altri Carismi, perché più i doni dello Spirito sono vivi e attivi nella Chiesa e nel mondo più si può esprimere il Vangelo e più si può manifestare la bellezza del Volto di Dio. Il terzo segno che intravedo per il futuro è l’apertura costante e il discernimento continuo, è accogliere la novità dello Spirito. I nostri tempi non ci permettono irrigidimenti e chiusure, non ci permettono schemi fissi. E’ il tempo dell’immaginazione cristiana, della creatività dei singoli e dei gruppi, della libertà cristiana. Penso che Madre Cabrini oggi si procurerebbe un aereo personale per fare più in fretta di come ha fatto, coglierebbe tutte le occasioni di collaborazione per favorire il regno di Dio, sfiderebbe tante forze negative per cercare la gloria di Dio e lei sapeva che la gloria di Dio è la felicità dell’umanità.
Vorrei concludere con una frase che disse Leone XIII a Madre Cabrini vedendo i drammi del suo tempo: "Lavoriamo, Cabrini, lavoriamo, avremo tutta l’eternità per riposare".
Vittadini: Abbiamo incontrato Raul Anselmo Randon, uno dei principali produttori di camion di tutta l’America compresa quella del Nord, perché a una mostra sul Brasile un nostro amico ha sentito parlare in dialetto veneto alcuni brasiliani. Così abbiamo scoperto che nel Sud del Brasile esiste da 100 anni una comunità di 400.000 italiani che parlano portoghese e dialetto veneto e sono rimasti legati alla nostra terra e hanno costruito 7.000 imprese.
Raul Anselmo Randon, nato nel 1929, Brasiliano, autodidatta, ha approfondito le sue conoscenze in vari campi da quello amministrativo al marketing, alla finanza, all’agricoltura, ai trasporti ferroviari partecipando a vari corsi e seminari.
E’ attualmente Presidente del Consiglio di Amministrazione e Direttore Generale di imprese nel campo del trasporto ferroviario, del commercio, dell’agricoltura.
Ha ricevuto significativi riconoscimenti per la sua attività imprenditoriale e l’impegno associativo nel combattere la violenza.
Randon: Siamo due milioni e mezzo di discendenti di italiani nella regione che si chiama Rio Grande del Sud in cui si trova la più grande concentrazione nel mondo di discendenti di veneti. Viviamo in una città, Caxias del Sud fondata 120 anni fa da immigrati italiani in prevalenza veneti e lombardi. In quegli anni l’Europa attraversava molte difficoltà e a migliaia sono partiti per andare a cercare fortuna nelle Americhe. Pochi di quelli che sono partiti immaginavano la vera dimensione di questo continente e non sapevano quando partivano esattamente verso quale zona si stessero dirigendo. Nel Sud del Brasile sia i tedeschi che i polacchi sono arrivati prima così hanno avuto la possibilità di insediarsi nei posti più belli, nelle vallate, nelle pianure, vicino al mare. Quando arrivarono gli italiani nel 1875 si insediarono nelle zone montagnose dove esistevano soltanto le foreste, gli animali e gli indios: certamente se avessero posseduto un biglietto di ritorno non sarebbero rimasti. Caxias del Sud ha trecentomila abitanti, è diventata il centro economico e culturale di questa regione che ha 2.500.000 di abitanti. Molte persone ancora parlano il veneto, il lombardo e il friulano e alcune canzoni, alcune parole che non si usano più qui sono invece ancora coltivate e mantenute da noi.
Mio nonno, Cristoforo Randon è partito da Cornedo in provincia di Vicenza per andare in Brasile nel 1893, è approdato nella nuova terra e si è stabilito presso questa comunità di immigranti italiani dove ha avuto incarichi importanti.
Mio padre, Abramo Randon lavorava a Caxias del Sud in una piccola officina che produceva attrezzi rudimentali di lavoro. Alla fine degli anni quaranta io e mio fratello Ersilio dando continuità all’opera di nostro padre abbiamo iniziato a costruire una piccola azienda che faceva motori e fabbricava freni per rimorchi. Non avevamo capitale, avevamo soltanto la voglia di lavorare e col nostro sforzo fisico abbiamo cercato di promuovere i nostri affari ma ne è valsa la pena di fare questo sforzo perché negli anni seguenti in Brasile è iniziata la fase di sviluppo con un crescente uso di camion e attrezzature stradali per cui la nostra fabbrica è cresciuta e si è trasformata in una delle principali e più importanti in Brasile nel settore delle attrezzature per i trasporti di carichi. Nel 1970 ho visitato per la prima volta l’Italia, sono andata presso alcune fabbriche, ho partecipato a varie fiere e sono tornato in Brasile con un’altra visione. Immaginavo il potenziale che avevamo per poter crescere dentro il mercato brasiliano, sapevo che la nostra fabbrica poteva crescere diventare più moderna per seguire l’evoluzione del mercato. Capimmo che era necessario agire rapidamente facendo nuovi investimenti e acquisendo nuove tecnologie. Nuove tecnologie, nuovi progetti, nuovi mercati vengono conquistati con rapporti internazionali e ultimamente abbiamo anche introdotto dei nuovi metodi amministrativi. L’accordo con la Compagnia delle Opere ha reso più facile e ha rafforzato i nostri rapporti con l’Italia, con la sua industria, la sua cultura, la sua tecnologia.
Vittadini: Ci interessa lavorare con queste persone perché ci interessa il loro percorso umano e ogni possibilità di aiutare lo sviluppo dell’America Latina anche col lavoro.
L’ultimo intervento è di Gianluigi da Rold che come inviato del Corriere della Sera ha visto molte di queste cose. Chiediamo a lui uno sguardo complessivo e un giudizio.
Gianluigi Da Rold, inviato speciale del Corriere della Sera.
Da Rold: Posso solamente riportarvi degli episodi e alcuni esempi che mi sono serviti, anche proprio nell’ultimo viaggio in Brasile dove ho conosciuto la scuola di agricoltura di Manaus, a fare dei paragoni. Conoscevo già, avendo girato un po’ il Sud America e l’Africa, la realtà dei missionari. In genere l’unica fonte di notizie seria per un giornalista in zona di guerra o in qualsiasi altra parte del mondo turbolenta è proprio un sacerdote, un missionario perché è l’unico che poi sta veramente a contatto con queste realtà.
Nell’ultimo viaggio in Brasile ero interessato a capire oltre all’attività missionaria che tipo di cooperazione internazionale riuscivano a svolgere alcuni operatori che si dichiaravano esplicitamente cattolici. E ho dovuto cambiare idea, perché io avevo una pessima, catastrofica idea della cooperazione internazionale promossa dall’Italia, probabilmente ero stato molto sfortunato, avevo visto esempi incredibili che voglio solamente citare brevemente e poi paragonare. Mi ricordo di avere conosciuto in Somalia anni fa, il Ministro dell’Aviazione che mi fu presentato come il regista della cooperazione internazionale con l’Italia. Mi parlò per circa tre ore di sera, lo ricercai il mattino dopo per capire in dettaglio qual era la cifra economica di questa cooperazione. Mi risposero che questo dettaglio era stato talmente determinante che nel corso di un complotto notturno il ministro era stato ammazzato. In seguito in Mozambico ho visto altre operazioni di cooperazione. Nel 1974 assistetti a un congresso del Frelimo, il Fronte di Liberazione del Mozambico, a Reggio Emilia (non stupitevi, erano altri anni). Stabilirono per congresso che bisognava fare un’importantissima diga che avrebbe assicurato l’acqua alla capitale del Mozambico. Una volta preso il potere, questa grande diga fu naturalmente attribuita a una cooperativa di costruzioni di questa zona, intervennero due banche italiane molto note. Ci sono degli indigeni che chiamano questa diga "la strana collina" perché hanno fatto una diga dove mancava il fiume. Non c’era l’acqua e veniva indicata come grande esempio di cooperazione.
E’ stato abbastanza stupefacente incontrarmi quest’anno a Salvador de Bahia con uno dei preti che io ritengo più matti che abbia conosciuto, don Giorgio Vaccari, il quale mi ha spiegato la sua esperienza. In Italia lui assistiva gli ex carcerati di Marassi, ha girato tutta l’Amazzonia facendo il parroco e adesso si è messo in mente una follia: va direttamente nella prigione di Bahia, prende i ragazzi, i delinquenti, e ricrea intorno a loro una famiglia. Ne vuole fare un gruppo piccolo, una ventina, trenta al massimo, perché è l’unica possibilità per ridare un minimo di calore umano familiare a questi ragazzi. Il problema di don Giorgio Vaccari è quello di avere dei mezzi. Gliene vengono assicurati pochi. Mi spiegava: "Se io andassi in qualsiasi parte del Brasile o in Italia e dicessi che ho 5.000 ragazzi (e quindi farei un’azione di ipocrisia) mi darebbero immediatamente un pacco di miliardi, perché risolverei nella mentalità falsa e ipocrita un problema morale di questa gente. Quando io spiego che con 30 persone cerco di ricostruire questa loro famiglia mi fanno capire tutti i benefattori di ogni tipo che non risolvo niente e che non ce n’è un numero sufficiente e quindi non mi danno nulla".
A Manaus ho conosciuto Regina e la Scuola Agricola. La cosa bella è vedere che c’è della gente molto giovane che non va ad insegnare niente di particolarmente violento, nel senso che nessuno va a dire: "Voi qui dovete coltivare in modo intensivo, in modo occidentale, come a Lodi". Ho visto alcuni amici vostri e miei che spiegano a questa gente alcune tecniche di innesto, come si pulisce un terreno, come si vince la malattia delle arance, come si migliorano alcune coltivazioni. E’ una cosa stupefacente come si riesca a trasportare un minimo di tecnologia nel rispetto anche della gente che vive là e che vivrà sempre in questo posto.
Io vorrei aggiungere soltanto un’ultima cosa che mi ha stupito: non ho mai visto, né in Africa né in altri posti del mondo, dei sacerdoti petulanti su regole morali, sull’insegnare i principi religiosi a tutti i costi. Sentivo prima parlare di evangelizzazione e nella mia mentalità che non afferra molto bene a volte il significato religioso, penso sempre ad un fatto propedeutico di insegnamento, di gente che ti spiega quello che devi fare. In Amazzonia questo non l’ho trovato, ho trovato della gente che è lì, è lì insieme a lavorare su alcune cose, che fanno vita comune molto precisa e poi alla fine discute anche di Dio. Credo, non voglio assolutamente togliere il lavoro a nessuno, che sia il modo migliore per affrontare le altre culture, l’altra gente che ci sta attorno. Questo credo sia l’aspetto migliore che questo tipo di iniziativa deve salvare.
Vittadini: Tre brevi considerazioni per chiudere questa assemblea.
1. Nella nostra esperienza le opere non le fanno le organizzazioni, neanche la Compagnia delle Opere, ma le persone. Molti ci chiedono come facciamo a fidarci che le facciano le persone se non c’è una organizzazione dietro, perché dicono "la persona può tradire o può fare per conto suo", ma la nostra scommessa sta proprio in questo. Oggi è stato detto "il soggetto". Il soggetto è una persona che, incontrando quello che abbiamo incontrato noi, come diceva il Cardinal Sodano, l’avvenimento che lega passato, presente e futuro, vede un aspetto della realtà che prima non vedeva. Per noi la presenza di Cristo è una realtà, non è una idea, è una cosa che c’è, che si vede. Uno, vedendo questo, cambia lo sguardo sulla realtà. Tutto il nostro interesse non è sulle conseguenze, ma su questo, che noi possiamo vedere e che vediamo quello che altri non vedono, che tutti dovrebbero vedere e che noi dovremmo vedere di più. Se ci si aiuta a vedere la realtà si apre e innanzitutto si scopre che non si può stare da soli. Le nostre opere nascono dall’educazione a essere una persona, ad essere in compagnia. Tutte le storie dette sono questo: un persona che parte ed una compagnia che si crea attorno a questa. Il segreto per fare le opere è di non parlare di opere, ma di vivere, vivere come persona, con il desiderio che si ha di felicità, di giustizia, con lo sguardo più profondo sulla realtà che sa che la realtà non è quello che si vede e che si tocca e basta e quindi si mette insieme. Delle persone così, che sono educate a questo, prima o poi guarderanno alla realtà e scopriranno i bisogni che altri non vedono.
2. Questo avvenimento è totalizzante. Uno che guarda la realtà così non dimentica nulla. Allora uno scopre quello che gli altri non vedono e tiene conto di fattori di cui gli altri non si accorgono. Per questo sono nate tante opere, non perché ci siamo specializzati, non perché abbiamo la competenza in mille cose, ma perché la persona così liberata, messa in un ambiente, ha visto, si è messa in azione, in libertà e ha visto quello che gli altri non vedono, tanto che arrivano scienziati e burocrati e dicono: "Ma come avete fatto?" Non siamo bravi, non abbiamo neanche soldi, però l’intelligenza di ciò che abbiamo incontrato crea una compagnia diversa, in cui è naturale fare una cosa, in cui è naturale mettersi in un certo modo.
3. Quello che stiamo scoprendo, di cui questo Meeting è una testimonianza, come diceva Madre Barbagallo, è l’incontro con altri carismi. Quando uno vive una esperienza di Chiesa non ha il problema della contrapposizione, ma incontra altre esperienze e se ne appassiona, vuole che crescano. Quello che sta avvenendo ed è avvenuto per noi (e quando dico noi dico non più un soggetto italiano che pensa all’America, ma gente di noi che è americano, che è indios, è delle periferie di New York, è del Perù) incontra altri, diventa compagno di altri, si mette al servizio di opere di altri. Non è l’idea di qualcuno che si chiude, ma di qualcuno che diventa appassionato di tutto, infatti l’esperienza nostra vuole essere di costruzione di opere e di servizio ad altre opere che hanno lo stesso spirito, lo stesso carisma.