La pensione non l’avremo, almeno
lavoreremo? Quale futuro per i giovani
Con il contributo di Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Milano
Lunedì 25, ore 18.30
Relatori: Ivano Barberini, Giorgio Vittadini,
Emma Marcegaglia, Presidente della Lega Presidente della Compagnia
Presidente Giovani Imprenditori delle Cooperative delle Opere
Marcegaglia: Il tema del futuro e della difesa è importantissimo in particolare per i giovani, che sono i maggiori azionisti del futuro, coloro che più degli altri vivranno nel futuro. La vera sfida per i prossimi anni è quella di venire incontro alle attuali generazioni senza però compromettere la capacità delle generazioni future, quindi in particolare dei giovani, di rispondere ai loro bisogni. Invece è sempre stato fatto un percorso contrario: si è sempre cercato di venire incontro alle esigenze dell’oggi senza mai pensare al futuro. E i risultati di questo li abbiamo davanti agli occhi: un debito pubblico altissimo, una disoccupazione giovanile altissima (il tasso di disoccupazione è del 22% con punte che arrivano al 60% nel Sud). Per questo credo che i giovani di tutte le varie categorie (della Confindustria, di Comunione e Liberazione, dei sindacati...) debbano avere l’obiettivo di riportare continuamente l’attenzione dei politici e delle varie forze sociali sui problemi del futuro e dunque dell’occupazione.
Nel nostro paese ci sono una serie di dati che riguardano il mondo giovanile piuttosto preoccupanti. Uno, cui ho già accennato, è il tasso di disoccupazione giovanile altissimo. Un altro è il fatto che, secondo gli studi della Commissione della Presidenza del Consiglio sulla povertà, i giovani sono coloro che più facilmente possono cadere al di sotto della soglia della povertà. Come conseguenza si sta creando tra i giovani, o almeno tra una fascia dei giovani, una sorta di esclusione sociale estremamente preoccupante, alla quale bisogna porre delle soluzioni concrete e degli strumenti che aiutino realmente a risolvere questo problema.
Non si tratta di creare assistenza o dare dei sussidi ai giovani: in Italia infatti, soprattutto nel Sud, l’assistenza non ha creato né occupazione, né ricchezza, né benessere. Occorre invece creare le condizioni affinché i giovani possano trovare un posto di lavoro, possano, se lo vogliono, diventare imprenditori di sé stessi, vivere in una situazione di benessere con la speranza del futuro.
Il contesto in cui viviamo è caratterizzato, rispetto al problema occupazionale, dalle sfide dell’Europa, della globalizzazione e della tecnologia.
Per quanto riguarda l’Europa, certamente l’Unione Monetaria va fatta, ma essa da sola non è sufficiente a creare nuova occupazione. Bisogna fare in modo che l’Unione Europea diventi non solo un fatto "statistico", che riguarda i banchieri centrali o i parametri di Maastricht, ma deve invece diventare un elemento di crescita e di sviluppo. Per questo, bisogna fare in modo che l’Europa unita possa creare nuove imprese, nuovi posti di lavoro, appunto un maggior benessere.
Per quanto riguarda la globalizzazione e le nuove tecnologie, spesso si pensa che questi due fattori distruggano posti di lavoro e creino disoccupazione. Dobbiamo invece capire quali sono i veri effetti di questi grandi fenomemi: fino ad oggi infatti la globalizzazione dell’economia ha creato più nuovi posti di lavoro di quanti ne abbia distrutti. Globalizzazione significa che esistono nuovi paesi, nuovi mercati, nuovi consumatori – due miliardi, se si pensa alla Cina o all’India – che hanno bisogno di tutto. Si tratta dunque della possibilità di creare nuovi prodotti: la globalizzazione, se è vissuta nel modo giusto, può creare un incremento e un incentivo alla crescita.
Anche a proposito della tecnologia, si afferma che distrugge posti di lavoro. Questo è vero nel senso che distrugge quei lavori che sono routinari e dunque fattibili dalle macchine, però è anche vero che la tecnologia può creare nuovi posti di lavoro, nuove figure professionali – pensiamo all’informatica o al settore delle telecomunicazioni –. Il problema non è che questi fenomeni creano disoccupazione, ma che di fronte ad una economia e ad una società che cambia continuamente dobbiamo essere in grado di avere un sistema economico in grado di rispondere a queste nuove sfide.
Quali sono i fattori che possono aiutare a creare nuovi posti di lavoro? Il primo è il mercato del lavoro. Oggi in Italia esiste un mercato del lavoro che è giudicato dalle imprese troppo rigido e dai lavoratori negativo, perché chi non ha un posto di lavoro non riesce a trovarlo, e chi perde un posto di lavoro difficilmente riesce a trovarne uno nuovo. Cosa si può fare per migliorare questa situazione? Ci sono tutta una serie di nuove forme di lavoro, che già in Europa e negli Stati Uniti hanno creato molti nuovi posti di lavoro: il lavoro interinale, il lavoro in affitto, introdotto dalla legge Treu. Questo significa che oggi un’impresa può andare da una società specializzata e affittare una figura professionale per un certo periodo, a seconda delle sue esigenze. Questo può essere un elemento molto importante perché può dare nuovi posti di lavoro a tutta una serie di persone che oggi non hanno un lavoro, venendo incontro alle esigenze di chi vuole fare un lavoro part-time – come le donne – o di chi non può avere un lavoro a tempo pieno ma vuole comunque essere inserito nel mondo del lavoro. Il lavoro interinale è una forma di flessibilità interessante sia per le imprese che per i nuovi lavoratori: in Europa e negli Stati Uniti questa forma di lavoro ha creato moltissimi nuovi posti di lavoro. È estremamente importante che nascano delle società di lavoro interinale che possano dare lavoro a una serie di persone giovani e meno giovani che oggi sono fuori dal mondo del lavoro.
Un secondo fattore è una maggiore flessibilità: pensiamo al lavoro a tempo determinato, che oggi in Italia è possibile ma è ancora troppo rigido, troppo vincolato, e per questo spesso le imprese non lo utilizzano quanto potrebbero perché temono di incorrere in una serie di problemi, di vincoli, che poi possono trasformare questa forma di lavoro in una forma di lavoro a tempo indeterminato. È importante che questa forma di lavoro possa essere utilizzata dalle imprese. Noi giovani imprenditori siamo dell’idea che una maggiore flessibilità possa aiutare a creare nuovi posti di lavoro; siamo invece contrari all’idea che l’assistenza, le borse di studio, i lavori socialmente utili, possano essere una risposta seria e duratura al problema della disoccupazione. Il lavoro, i nuovi posti di lavoro si creano se cresce l’economia, se il mercato del lavoro ha varie forme di possibilità di lavoro e se c’è la possibilità di utilizzarle nel modo più efficiente possibile.
Un altro aspetto molto importante che riguarda il mercato del lavoro è il fare in modo che la domanda e l’offerta di lavoro si incontrino più facilmente. Solo l’1,2% dei giovani interpellati da un sondaggio ha trovato il proprio lavoro tramite l’ufficio di collocamento: tutti gli altri l’hanno trovato tramite conoscenze o scrivendo curricula. Questo significa che in Italia il collocamento pubblico è assolutamente inefficiente, non aiuta le persone che sono realmente alla ricerca di un lavoro ad avere tutte le informazioni che possono loro servire. Per ovviare a questo, crediamo che il monopolio del collocamento pubblico debba cadere e lasciare il posto ad un intervento anche da parte del privato. Il costo del collocamento pubblico in Italia è pari al costo del collocamento negli altri paesi europei, pur essendo molto più inefficiente: quindi, dobbiamo agire affinché domanda e offerta del lavoro si incontrino più facilmente.
Abbiamo poi il tema della scuola e della formazione: indagini e sondaggi mettono in evidenza che oggi le imprese richiedono personale che sia più preparato, più qualificato, personale che abbia capacità di adattarsi e di cambiare, proprio perché in seguito ai cambiamenti di cui parlavo prima – le tecnologie e la globalizzazione – le imprese hanno bisogno di cambiare continuamente. Il ciclo di vita di un prodotto oggi è molto più breve rispetto al passato, e dunque l’organizzazione delle imprese deve cambiare continuamente. L’impresa di successo è proprio l’impresa che davanti ai cambiamenti esterni è capace di reagire meglio, ovvero l’impresa che ha personale preparato, capace di adeguarsi e di apprendere sempre più facilmente.
La scuola e il sistema di formazione italiani attualmente non sono in grado di preparare i giovani in questo modo; serve una grande riforma della scuola, forse ancora più radicale di quella che il ministro Berlinguer sta cercando di iniziare. In Italia c’è infatti un tasso di scolarizzazione molto più basso rispetto a quello europeo, e un tasso di abbandono della scuola che è altissimo. Quindi bisogna fare in modo che la scuola sia più efficiente, che i giovani abbiano un grado di scolarizzazione maggiore, che la scuola insegni di più i valori del lavoro e della capacità di apprendere, e che dia ai giovani proprio gli strumenti per poter inserirsi in modo più efficiente e più facile nel mercato del lavoro. In questo senso noi giovani di Confindustria stiamo collaborando col Ministero della Pubblica Istruzione proprio per cercare di fare in modo che il mondo della scuola ed il mondo del lavoro colloquino e si avvicinino di più, per aiutare anche in questo modo a rispondere al problema della disoccupazione.
Non devono cambiare solo le circostanze in cui le imprese lavorano: sono convinta che anche il mondo delle imprese debba cambiare. Gli imprenditori devono avere maggiore capacità di investire, devono avere una grande tensione verso lo sviluppo, e quindi essere in grado di investire di più, di internazionalizzarsi per creare maggiore occupazione e sviluppo.
L’ultima questione che voglio affrontare è quella del welfare state, dello stato sociale, con il problema connesso delle pensioni. È assolutamente importante che questa riforma dello stato sociale si faccia in fretta, tenendo presente quanto si diceva prima: non esistono solo le persone che oggi hanno un lavoro, bisogna invece mettere i giovani nelle condizioni di trovare un posto di lavoro e di avere domani una pensione. Il fatto di dare già per scontato che chi è giovane oggi non debba avere una pensione mi sembra una grande ingiustizia sociale: va fatta una riforma affinché anche i giovani di oggi, un domani, quando avranno lavorato, abbiano la possibilità di avere una pensione che li accompagni nella vecchiaia.
Come scrisse Douglas MacArthur nel 1945: "La giovinezza non è un periodo della vita ma un atteggiamento della mente. È un’espressione della volontà, del potere dell’immaginazione e dell’intensità dei sentimenti. Rappresenta la vittoria del coraggio sulla codardia, dello spirito avventuroso sulle tentazioni dell’indolenza. Non invecchiamo perché abbiamo vissuto un certo numero di anni, invecchiamo se rinunciamo ai nostri ideali. Siete giovani come la vostra fede, vecchi come i vostri dubbi. Giovani come la fiducia che avete di voi, giovani come la vostra speranza, vecchi come il vostro scoraggiamento. Rimarrete giovani fino a quando sarete ancora pronti ad accettare una sfida, resterete ricettivi per quello che è bello, buono e grande. Ricettivi per i messaggi della natura, del prossimo, dell’incomprensibile. Se un giorno il vostro cuore fosse roso dal pessimismo e dal cinismo, possa Dio avere misericordia per la vostra anima, l’anima di un vecchio".
Barberini: Cercherò di esprimere alcune valutazioni, proposte, ed iniziative concrete che stiamo portando avanti. Abbiamo innanzitutto bisogno di una grande correttezza intellettuale, che si configura nel vedere il mondo così come è e non come vorremmo che fosse. Dobbiamo lavorare perché il mondo sia diverso, impegnarci su questo: ma dobbiamo anche avere molta attenzione, non autoingannarci. Se vogliamo citare un esempio positivo di cambiamento, opposto all’autoinganno, pensiamo alla riduzione del tasso di inflazione operata dal ministro Ciampi: il dato positivo in una manovra come questa consiste nell’aver saputo tenere la barra dritta su un obiettivo e a quello puntare.
I giovani attualmente pagano per i più anziani e anche se riceveranno una pensione sarà sicuramente minore di quella che adesso stanno pagando. Questo è il dato di fondo su cui dobbiamo riflettere. C’è il pericolo, più o meno esplicito, più o meno evidente, di un conflitto generazionale: bisogna fare i conti con una crisi non solo finanziaria ma anche di equità.
La discussione sullo stato sociale è sicuramente molto difficile, perché si intrecciano questioni di lungo e medio periodo con altre di brevissimo periodo, ricche di spunti positivi e della possibilità di fare emergere le scelte e le opportunità di sviluppo. La discussione è possibile se si assume come obiettivo comune e fondamentale quello di garantire il lavoro come un diritto, come uno strumento di esercizio concreto della cittadinanza, come un dato di fondo e non come una merce qualsiasi da potere trattare. Non esistono soluzioni miracolose: è illusorio o fuorviante pensare che basti una deregolamentazione per risolvere questo problema. Ci vorranno tempi lunghi e un’azione tenace basata su fatti concreti, su idee e progetti affinché si inverta una tendenza.
Siamo il paese delle mille contraddizioni, come è già stato ricordato: abbiamo un’offerta ed una domanda di lavoro che non si incontrano; abbiamo bisogni insoddisfatti da una parte e risorse umane inutilizzate dall’altra; abbiamo un’alta occupazione in alcune regioni ed un’altissima disoccupazione in altre... la saldatura di queste diverse dimensioni contraddittorie è più difficile oggi che nel passato. Non è più possibile garantire il lavoro nelle forme tipiche di un sistema di produzione incentrato sulla grande impresa, sul consumo e sulla produzione di massa. Non è neanche possibile spingere molto la domanda interna, perché si creerebbero altri squilibri.
Dal 1950 al 1990 ogni anno sono stati creati circa 100.000 posti di lavoro in più: quattro milioni di posti di lavoro in più in 40 anni. E sono tutti nel settore pubblico: nel settore privato invece la somma tra chi è entrato e chi è uscito da un settore all’altro è stata zero. Il settore pubblico, avendo agito in condizioni di monopolio, ha creato molta improduttività, ed ora non è più in grado di assorbire occupati, anzi ha delle eccedenze che andranno ad aggravare il problema. C’è anche il peso della burocrazia sullo sviluppo di iniziative economiche, mentre bisognerebbe creare una flessibilità nelle autorizzazioni alla normativa che favorisca l’iniziativa economica.
Il dato da cui dobbiamo partire è la natura del problema occupazionale: non lo si può trattare come un problema unificato. La concentrazione della disoccupazione è nel Meridione, e il dato che caratterizza rispetto ad altri paesi europei la disoccupazione italiana, che è anche il dato più preoccupante, è la mancanza della prima occupazione. Questo è un dato grave non solo sul piano delle mancate tutele – che mentre esistono quando un lavoratore entra in disoccupazione o perde il posto di lavoro, non esistono se manca la prima occupazione – ma anche su quello della prospettiva. È una perdita in termini di competitività nella prospettiva, perché viene a mancare quel tessuto di conoscenze e di competenze che la scuola e l’università dovrebbe formare e le esperienze di lavoro completare. Ed è una perdita secca non solo in termini di distorsioni sociali e culturali – sicuramente gravissime –, ma anche in termini economici, perché riguarda la formazione di quella risorsa strategica che tutti riconoscono essere oggi fondamentale, la conoscenza, il know how, la competenza. Se i giovani passano dalla scuola al mondo del lavoro senza essere avviati alla prima esperienza di lavoro, il paese e le sue risorse economiche ne risentiranno sul piano del futuro.
Bisogna agire con tempestività nei confronti di questi problemi: la presa di coscienza, di per sé importante, non risolve il problema, deve essere accompagnata da idee e da progetti che agiscono – come diceva Marcegaglia – nel lungo tempo, progetti che abbiano una visione dell’insieme, progetti che sappiano gestire la complessità, le contraddizioni, i paradossi del nostro paese, e che sappiano congiungere aspetti non solo economici, ma anche sociologici e culturali. Oggi infatti lo sviluppo economico non passa solo attraverso le tecniche di mercato o le regole economiche, passa invece attraverso una congiunzione di più aspetti, da quelli sociologici a quelli culturali ed economici. Ed è su questo versante che il sistema cooperativo intende fare la sua parte, perché ha esperienza di gestione di contraddizioni, ed è portatore di cultura, di esperienze utilmente spendibili.
Le cooperative sono impegnate fondamentalmente su due fronti: il primo è lo sviluppo di iniziative che concorrono a creare nuove opportunità di lavoro, il secondo è il tentativo di affermare una nuova idea di mercato, in cui l’efficienza si accompagni alla qualità sociale dell’impresa.
Sul piano delle iniziative concrete, noi abbiamo progetti in corso nel Meridione, in particolare l’esperienza "fare imprese", che rappresenta una forma di collaborazione con l’università. "Fare imprese" ha permesso, dal contatto con 8000 e più giovani, di raccogliere idee di progetti per fare imprese, e di selezionare progetti che svolgessero un lavoro associato; i progetti selezionati sono stati finanziati con un fondo mutualistico nazionale. Il dato più interessante di questa iniziativa – che è anche la caratteristica del sistema delle cooperative – è il suo essere "a tutto raggio". Come altrimenti definire questa combinazione di imprese cooperative del Nord con imprese che tentano di nascere nel Sud?
Una seconda iniziativa è lo sviluppo del lavoro interinale e la proposta connessa di costituire una società cooperativa intorno a questo obiettivo del lavoro interinale, che guardi proprio alle opportunità che la nuova disposizione di legge consente di sviluppare. In questo settore – e in generale nella scelta delle cooperative – vi è anche la ricerca di un sistema di alleanze che concorra, mettendo insieme più soggetti economici sociali, ad essere competitivi con le multinazionali e a potenziare il settore non profit.
Più in generale, noi puntiamo allo sviluppo delle imprese cooperative sulla base dell’orientamento al mercato, ma con una reinterpretazione del mercato stesso, di come vi giocano i rapporti tra i diversi soggetti – imprenditori, consumatori, utenti – e di una solidarietà che non sia basata su un principio astratto di egualitarismo, ma di parità di opportunità. Creare lavoro attraverso una pari opportunità di accesso, e di crescita è un terreno coraggioso: per questo laddove abbiamo praticato rigorosamente una scelta basata sulla meritocrazia – la pari opportunità di accesso al lavoro in luogo della raccomandazioni – abbiamo avuto l’ostilità dell’ambiente socio-politico.
Occorre affermare una nuova concezione di mercato che crei nuovi spazi per incontrare bisogni e risorse inutilizzate, che affermi un nuovo rapporto tra etica ed affari. A partire da questo avverrà lo sviluppo di relazioni cooperative tra soggetti economici concorrenti nel mercato, come il caso di grandi imprese – sia della distribuzione che della produzione – che concorrono a ridurre i costi logistici, i costi di interfaccia tra i vari soggetti. Lo sperimentare relazioni cooperative di collaborazione, di "cocreazione" di valore tra soggetti economici anche concorrenti è un elemento importante, che rafforza il sistema economico ed anche le singole imprese. Siamo impegnati nello sviluppo del settore non profit, perché anche attraverso questa strada si affermino nuovi lavori, settori innovativi, nuove tecnologie, organizzazione di forme diverse del lavoro dipendente, come il lavoro associato.
Le accuse lanciate recentemente a certe cooperative che agirebbero in modo scorretto – sarebbe peraltro corretto che gli accusatori, anziché usare termini come "certe", chiamassero per nome e cognome i soggetti che si vogliono mettere sotto accusa – non ci riguardano: noi vogliamo sviluppare il lavoro associato non per aggirare le tutele del lavoro dipendente, ma per potenziarle. Anche la possibilità recentemente introdotta di costruire cooperative tra professionisti ci sembra importante per riconoscere la specificità del lavoro associato, e in questo senso credo che debba esserci la disponibilità di tutti a rivedere le relazioni industriali e a ripensare un nuovo sistema di relazioni che comprenda sia il lavoro subordinato che quello cosiddetto "parasubordinato".
Vorrei concludere ricordando l’altro versante del problema, che spesso ignoriamo: quando parliamo di lavoro, parliamo di sviluppo economico, di lavoratori, di imprese, ma dimentichiamo i consumatori e gli utenti, i quali non sono necessariamente dei soggetti passivi nel mercato. Le nostre cooperative associano oltre tre milioni di consumatori: questo tipo di adesione e di partecipazione produce effetti positivi sul piano delle scelte innovative dei processi di produzione. Avere portato avanti iniziative che guardano alla tutela dell’ambiente o della salute, è stato reso possibile dal consenso del consumatori, dalla disponibilità, dalla fiducia acquisita. Il fatto di considerare i diversi stili di vita e orientare anche le politiche macroeconomiche sui diversi stili di vita rende i consumatori protagonisti delle scelte di consumo ed ha effetti positivi che possono concorrere a rafforzare quel tessuto produttivo incentrato sulla innovazione dei processi: questo è anche un elemento che gioca positivamente nella competizione mondiale.
Questa congiunzione tra imprenditori e consumatori dimostra che l’etica può essere parte integrante dell’analisi economica e delle vie per uno sviluppo innovativo e per una nuova opportunità: l’etica non può essere vista come limitante della libertà di azione economica.
Vittadini: La prima osservazione da fare è l’accordo sostanziale tra i vari relatori di questo incontro: una realtà come i Giovani Imprenditori, una realtà come la Lega delle Cooperative, e una realtà Compagnia delle Opere, hanno lo stesso tipo di giudizio. Il fatto che della gente che viene da esperienze diverse, in nome dell’ideale in cui crede abbia desiderio di guardare la realtà, di interrogarsi su di essa, è segno di onestà morale. La vera onestà morale infatti consiste nel guardare il punto in cui si è, e in nome di questo decidere con chi stare, con chi allearsi. Non è un problema ideologico di schieramento, ma il decidere con chi stare a seconda della sua capacità di rispondere al bisogno.
Questo in termini della nostra esperienza è ecumenismo: la capacità che una identità ha di dialogare, perché sa che il dialogo non è un compromesso, ma la possibilità di cogliere una verità nell’altro. Questo è fondamentale anche nel campo del lavoro, perché altrimenti si pensa ancora oggi che il primo problema sia la collocazione partitica o il leader che si segue, e non invece l’amore alla verità. Deve interessare e non sorprendere che ci siano realtà di origini diverse che hanno una stessa diagnosi e stesse terapie per un problema come il lavoro.
Come seconda osservazione vorrei portare alcuni dati complementari a quelli di prima. In Italia su venti milioni di occupati ci sono tre milioni e mezzo di dipendenti della pubblica amministrazione, cinque milioni e mezzo di dipendenti di grandi aziende; sei milioni di dipendenti di imprese con meno di quindici dipendenti; cinque milioni di lavoratori autonomi; due milioni e mezzo di disoccupati. Se partiamo da questo dato con realismo, capiamo che non si può ridurre il problema dell’occupazione solo alla grande impresa. Il problema è più complesso, più variegato: è un problema che sta nella capacità di tanti imprenditori medi e piccoli, che hanno creato la loro impresa in Italia, perché prima erano dipendenti, ma poi hanno scoperto ciò che potevano fare e a quarant’anni sono diventati imprenditori o cooperatori. C’è cioè una capacità umana imprenditoriale in Italia molto più sviluppata e ricca delle materie prime o della forza militare.
Il lavoro viene da questa capacità imprenditoriale, dalla inventiva, dalla possibilità creativa. Dobbiamo salvaguardare questa differenza che è tipica dell’Italia, che è una differenza anche nel mondo del capitalismo avanzato. È una differenza che accosta alla grande impresa la capacità di tanti di creare piccole imprese, di formare un tessuto produttivo molto vasto, tessuto produttivo che ha creato forme giuridiche diversissime dell’impresa. Bisogna difendere questa capacità, questa risorsa umana, perché se essa viene omogeneizzata si distrugge la specificità e la ricchezza dell’Italia. È una specificità per cui troviamo le imprese italiane di quindici, dieci dipendenti che producono e vanno a vendere il loro prodotto – dalle macchine utensili alle forbici o ai prodotti della moda, – ovunque, su tutti i mercati.
Come terza osservazione, vorrei andare più alla radice di quanto affermavano Emma Marcegaglia ricordando il non profit, il lavoro interinale, la flessibilità del lavoro, e Barberini specificando gli impegni della Lega delle Cooperative. Ciò che sta alla base della scuola è l’educazione: bisogna continuare ad educare un popolo di imprenditori, di gente che rischia. Il mondo cattolico non può continuare a ripetere, come è stato fatto per anni, che fare l’imprenditore è un male perché si fanno i soldi, mentre occuparsi del volontariato è un bene. È un manicheismo che distrugge la possibilità dei giovani di costruire. L’imprenditore, qualunque cosa faccia, dalla cooperativa alla grande azienda, è un bene, è una risorsa: bisogna inchinarsi di fronte alla capacità di creare lavoro. La prima onestà è l’amore del rischio, l’amore del mettersi insieme, l’amore a tentare non ricercando l’impiego fisso. L’educazione italiana nel campo del lavoro è una educazione al posto garantito, non al non rischio. C’è una incertezza nella nostra gioventù che è l’incertezza nella possibilità che la vita sia un’avventura, l’avventura di uno che ama in un modo religioso o laico che sia ciò che crea, che crede in una giustizia sociale, che non pensa solo al suo particolare, o a garantirsi un posto tranquillo con una rendita.
Questo è il primo compito che la Compagnia delle Opere si pone: il compito di una educazione. Quando parliamo di scuola, parliamo di questa difesa di una possibilità educativa, di una formazione che sia educazione nel pluralismo che è l’Italia, non in una monocultura.
Il secondo compito è la flessibilità delle forme: partendo dall’esperienza, ci siamo cimentati sul creare lavoro al Sud, dove c’era solo la mafia. Sono così sorte fabbriche metalmeccaniche ad Avellino, oppure a Foggia imprese che fanno regia radio-televisiva, a Termoli impianti nel campo della produzione dei pesci: queste imprese sono nate perché della gente ci ha creduto. Bisogna che le forme di queste esperienze lavorative siano varie e numerose, non si può fare una politica macroeconomica a blocchi. Queste forme flessibili sono le stesse più volte citate: il non profit; il lavoro interinale, la flessibilità del lavoro. La capacità di valorizzare chiunque crea occupazione, crea reddito.
Il terzo compito sta nella difesa di un mondo istituzionale che garantisca non privilegi, ma un mercato. Il mercato è come una piazza in cui ciascuno deve mettere la propria merce: ci deve essere un sistema che garantisca questo. Non lo garantisce un mondo bancario che vieta il credito alla piccola azienda, neppure un sistema pubblico che in certi casi fa la concorrenza sleale o che privatizza senza tener conto di tutti i soggetti, neppure l’apertura alle multinazionali estere che vengono in Italia e portano via lavoro. Tutto questo non è garantire un reale mercato. Per garantire il mercato ci deve essere un sistema pubblico che permetta che anche il soggetto piccolo viva e cresca. Per questo, il sistema pubblico deve fare incentivi e disincentivi in funzione di questo: le grandi strutture bancarie pubbliche devono ad esempio permettere una reale concorrenza, e dunque la possibilità anche per la piccola impresa di accedere al credito.
Realtà appartenenti alla Compagnia delle Opere, alla Lega della Cooperative devono poter lavorare con realtà della Confindustria. Guardare questo realismo flessibile vuol dire perpetuare anche oggi quello che ha reso l’Italia un paese civile e dignitoso per molte persone.