Ripartire dall’io: popolo, società, Stato

Domenica 24, ore 16.30

Relatori: Domenico Fisichella, Moderatore:

Gianni Baget Bozzo, Vice Presidente del Senato Giorgio Vittadini,

Saggista ed Editorialista Stefano Alberto, Presidente della Compagnia

Paolo Grossi, Docente di Introduzione alla delle Opere

Ordinario di Storia del Diritto Teologia presso l’Università Cattolica

presso l’Università di Firenze "Sacro Cuore"di Milano

 

 

 

 

 

 

Vittadini: Il tema di questo incontro è cruciale in questo momento, come possiamo capire da tre citazioni che esprimono due diverse concezioni del rapporto tra io e società, io e popolo e io e Stato.

La prima citazione, molto famosa e molto antica, più volte ripresa come modello dell’immagine di Stato, è di Hegel: "Lo Stato è la realtà in cui l’individuo ha e gode la sua libertà. Lo Stato è il centro di tutti gli aspetti concreti della vita (del diritto, dell’arte, dei costumi). Solo nello Stato l’uomo ha esistenza razionale. Ogni educazione tende a che l’individuo non rimanga qualcosa di soggettivo, ma diventi oggettivo a se stesso nello Stato. Tutto ciò che l’uomo è, egli lo deve allo Stato: solo in esso egli ha la sua essenza".

Differente da questa prima impostazione è una frase che monsignor Luigi Giussani ha detto in un’intervista recente: "Per questo, l’epoca che più di ogni altra sembra definita da una trascuratezza e da una dimenticanza di che che cosa sia la natura elementare dell’uomo e, dall’altra parte, da una pretesa dello Stato di stabilire limiti e possibilità della speranza terrena per l’uomo, proprio questa è l’epoca della libertà".

Infine, il messaggio che il Papa ha indirizzato al Meeting, che riflette la stessa concezione della precedente citazione di don Giussani: "[L’uomo moderno] ha preteso di dare consistenza alla realtà stessa attraverso la sua ragione, segnando lui i limiti di ciò che poteva e non poteva essere, secondo i criteri di una sempre più spavalda autonomia".

Quello che noi sentiamo è l’esigenza di un uomo libero: di un uomo, come ha detto il Papa nella sua prima enciclica, unico e irripetibile, che sviluppi una creatività, che costruisca opere, che si associ e dia vita a realtà sociali, come è anche sancito e difeso dalla nostra Costituzione. Da qui discende la nostra idea di Stato: uno Stato che nasca come realtà pluralistica e permetta l’incremento di questi soggetti.

Di fronte a questa situazione, può rimanere una sorgente di libertà reale per l’individuo unico e irripetibile? È possibile uno Stato che non sia alternativo allo sviluppo di questo io, di questo individuo, e che piuttosto valorizzi la creatività dei soggetti?

 

 

Baget Bozzo: L’argomento centrale del mio intervento sarà l’io.

Che cosa è l’io? "Io" è detto da qualcuno, quindi c’è un fondamento ulteriore all’io. Rispetto a questo fondamento abbiamo due posizioni, quella tradizionale cristiana e quella moderna. Seconda la posizione moderna, da Cartesio a Fichte, l’io è la ragione umana, quindi il fondamento è collettivo, universale. La ragione umana è l’io dell’umanità: il collettivo totale precede sulla dimensione personale. La filosofia moderna nasce affermando che l’io è la ragione: è il razionalismo.

La tradizione cristiana dice invece che il soggetto che dice io è la persona. Cerchiamo di capire meglio i termini di questa seconda posizione. La persona è l’anima immortale: l’uomo è anima e corpo, ma l’anima ha il corpo, ha il corpo sia nel suo tempo attuale sia come separato dopo la morte. L’anima è la prima realtà della persona, e – secondo quanto il Cristianesimo assume dalla filosofia greca – è l’immagine di Dio, di cui parla il libro della Genesi nel primo capitolo. Questo è il primo elemento fondamentale della persona: l’anima immortale, ed è ciò che ci viene detto da tutta la tradizione cristiana, a cominciare dai grandi commenti di san Basilio al Pentateuco, in cui viene detto con chiarezza che l’immagine dell’uomo è data dall’intelletto e dalla volontà. Questo concetto rimane in tutta la tradizione cristiana – nella forma greca e latina –, basti pensare in modo particolare a san Bernardo di Chiaravalle che ne ha fatto un tema fondamentale del suo insegnamento. L’anima immortale ha il corpo e la possibilità stessa del corpo risorto, che è identico al corpo mortale, si fonda sul fatto che il corpo appartiene all’anima immortale.

La dimensione fondamentale nel concetto di persona deriva dalla teologia della Trinità, che è fondamentale non solo nella rivelazione cristiana ma in tutta la cultura occidentale da essa derivata. Il termine "persona" nasce infatti dal tentativo di conciliare l’unità dell’essenza divina con le tre persone trinitarie: Padre, Figlio, Spirito Santo. Il mondo latino – Tertulliano per primo –, che intende privilegiare soprattutto l’unità dell’essenza divina, usa appunto il termine "persona" (che indicava inizialmente la maschera tragica, il personaggio), termine che diventerà classico nella teologia cattolica occidentale. La maschera indica appunto l’unità divina, anche se in questo caso la trinità delle persone coincide con l’unità dell’essenza. Nel mondo greco viene invece usato un altro termine, "ipostasi", che significa sostanza: tre sostanze che costituiscono un’unità divina.

Il dogma è identico, ma le teologie sono diverse: la teologia latina infatti a partire da questo svilupperà, sempre affermando che l’essenza divina è un mistero, la convinzione che il concetto di unità divina sia pensabile in termini filosofici, e quindi l’Occidente avrà (a differenza dell’Oriente) una filosofia cristiana a cominciare già da sant’Agostino, e il cui maggior esito e sviluppo sarà raggiunto nella Scolastica medioevale e soprattutto nel maggior teologo della Chiesa occidentale, san Tommaso d’Aquino.

Sant’Agostino, nel suo testo sulla Trinità, spiega che la persona è una relazione, non semplicemente o solamente un’identità, ma una relazione: la relazione tra il Padre, il Figlio e lo Spirito. Il Padre si distingue dal Figlio generandolo, il Padre e il Figlio si distinguono dallo Spirito Santo spirando come un solo principio. Proprio per questo, la definizione classica – e dominante in teologia – di Severino Boezio per cui la persona è la sostanza individuale della natura ragionevole è impropria, perché non esprime quello che è proprio della Trinità e della persona trinitaria, ovvero il fatto di essere sostanzialmente una relazione con altre persone e quindi primariamente una comunione.

La differenza tra persona e individuo nasce esattamente dallo schema trinitario: la persona in senso unitario è una relazione, e quindi non può essere definita come sostanza individuale. La persona è una comunione sostanziale: una realtà ontologica, che è rivolta verso l’altro, esattamente come le persone divine nella loro relazionalità.

Qui nasce uno degli elementi fondamentali del Cristianesimo: l’amore del prossimo diventa una espressione dell’amore divino. La persona significa "io", ma significa anche "noi": quando diciamo che la Chiesa è il corpo mistico di Cristo, vogliamo esprimere il concetto che la Chiesa è una comunione, la comunione di santità (perché certamente coloro che contraddicono la verità o fanno il male sono nel corpo della Chiesa ma non nel suo Spirito che è lo Spirito Santo). Il termine "corpo mistico" di Cristo vuol dire esattamente che Chiesa è una comunione, e che nella Chiesa Cattolica è vista la pienezza della persona di Cristo. Quindi, la Chiesa è il Cristo vivente, e su di essa riposa lo Spirito Santo come riposa nel Figlio e nella Trinità. C’è dunque una grande nettezza nel concetto di persona proprio del cattolico e del cristiano in genere, e questa nettezza è fondamentale per capire la novità portata appunto dalla Trinità, che noi diciamo quando diciamo il termine persona: la comunione divina dà infatti forma alla persona e la comunione del corpo di Cristo che è la Chiesa si riflette poi su tutta la concezione della vita civile e sociale che da essa prende forma.

Questo pensiero sull’io determina anche una certa concezione della società. Qual è la differenza tra la concezione cattolica e quella moderna della società? Secondo la concezione cattolica, la società nasce da una inclinazione naturale dell’uomo: l’uomo naturalmente è sociale, è un "animale politico", come diceva Aristotele. Il vincolo sociale preesiste alla attuazione della società umana, quindi la società nasce dall’inclinazione divina impressa alla natura umana. La natura umana è a immagine di Dio, e anch’essa ha già in sé una comunione: la società indica dunque la relazione che l’uomo ha con tutti gli altri uomini, poiché è sensibilmente, razionalmente ordinato a vivere in società. Per la concezione cattolica, la società antecede lo Stato, e qui appare la differenza radicale con il concetto moderno.

Per il concetto moderno infatti la società nasce da un contratto che lega la società-autorità e l’individuo. Mentre la concezione cattolica si fonda sul vincolo delle persone con le altre persone e implica di fatto l’antecedenza della società sullo Stato, quella moderna si fonda sull’individuo e sul patto sociale che nasce dagli individui.

Questo può dare, e di fatto ha dato, origine a un concetto autoritario di Stato, perché il vincolo che fonda la società non è prepolitico ma politico: manca l’antecedenza della persona sulla società, sulla comunità politica. La differenza tra il cattolico e il moderno è che per il cattolico la società è "pre-Stato", prima dello Stato, per il moderno invece la società nasce come comunità politica, nel momento in cui nasce come società. L’uomo è naturalmente non sociale, non socievole ma individuale: dal patto nascono la società e il potere politico assieme. Si tratta però di un concetto potenzialmente totalitario, come si è visto fin dallo Stato giacobino e dallo Stato del terrore francese. L’individuo delega al potere sociale tutti i suoi diritti: il cattolico si è sempre opposto al moderno non perché fosse illiberale ma perché aveva un’altra concezione della libertà, della persona e non quella dell’individuo, fondata sull’ontologia dell’uomo e non su un patto sociale.

In tutto il secolo XIX la contrapposizione tra il giacobinismo e la concezione cattolica della società è stata evidente, basterebbe ripercorrere la storia italiana per ritrovare i segni di questa contrapposizione. Il fallimento del partito cattolico non ha infatti cancellato né il concetto di filosofia cattolica né quello di politica: il Cattolicesimo è una concezione anche della società e del potere politico. Il fallimento del partito non toglie questa fondamentale contrapposizione che ha il Cattolicesimo rispetto a tutto il periodo moderno.

I cattolici hanno sempre accettato la democrazia ma non la sovranità popolare: si tratta infatti di due concezioni diverse. La sovranità popolare è quella di Rousseau, è quella della seconda costituente francese in cui si intende che il popolo delega interamente i suoi diritti alle autorità politiche che lo esprimono; ma questo è quello appunto che noi in quanto cattolici rifiutiamo, mentre invece abbiamo accettato il termine "democrazia", parola aristotelica che significa il primato del popolo, della società sullo Stato. La nostra Costituzione, pur fatta da cattolici, è invece una costituzione fondata sulla sovranità popolare, e quindi in questo non è conforme alle posizioni del pensiero cattolico: riflettere su questo tema prima della Costituente avrebbe potuto servire per rinnovare il patto sociale italiano, liberandolo dal principio moderno.

Che riferimento ha tutto questo nella vita di oggi? Viviamo in un tempo singolare: dieci o venti anni fa l’uomo era diviso in varie discipline (sociologia, psicologia e così via), oggi non è più così, e la domanda mistica dell’umanità, ormai che siamo a fine millennio, può prendere forme persino aberranti (lo gnosticismo, le filosofie contemporanee come la New Age che parlano un linguaggio apparentemente religioso, le sette). In qualche modo rinasce la convinzione che l’uomo sia spirito. Lo spirito è l’anima, ma vista nella sua inclinazione verso il divino: nella seconda lettera ai Tessalonicesi e nella lettera agli Ebrei, san Paolo distingue tra anima e spirito, e la tensione dell’anima a raggiungere il divino si chiama appunto spirito. La domanda dello spirito, del divino, dopo la fine del comunismo è resa particolarmente evidente da queste nuove tensioni mistiche che animano tutta l’umanità. Le nuove dimensioni della persona e dello spirito in rapporto col divino costituiscono una domanda molto forte che può essere indirizzata a una corretta spiritualità, ovvero verso la santissima Trinità e verso il mistero divino.

Questo mi sembra il punto più importante: capire che c’è differenza tra il pensiero cattolico e quello moderno sul tema della società e dell’autorità politica. Per il cristiano, per il cattolico l’autorità politica ha un compito che è sempre legato alla sanzione. I tre testi fondamentali della scrittura che parlano dell’autorità politica "date a Cesare quello che è di Cesare" (Mt 22,21), "non esiste autorità se non proviene da Dio" (Rm 13,1), "siate sottomessi ai magistrati e alle autorità" (Tt 3,1) indicano, in pieno periodo di persecuzione, come fosse importante mantenere questo carattere di utilità del potere e dell’obbedienza ad esso. Per il Cristianesimo è sempre stata un’eresia negare i poteri pubblici: il cristiano non è in sé rivoluzionario.

Credo che nella domanda mistica di cui parlavo, che avvolge nuovamente la cultura occidentale, e non solo ma anche quelle asiatiche o islamiche, sia molto importante ritrovare la concezione cattolica della filosofia, della società, dell’autorità politica.

 

 

Grossi: Nei miei corsi di storia del diritto ho partecipato sempre ai miei studenti e innanzitutto a me stesso una profonda insoddisfazione, quella insoddisfazione che lo storico del diritto può permettersi e che forse il cultore della legge positiva vigente italiana non può invece permettersi. Il rischio per il cultore del diritto positivo è infatti di concepire il frammento di legge, di regola positiva che ha di fronte come un qualcosa di intangibile, di immobile, e di coglierlo acriticamente. Lo storico del diritto invece inserisce quel frammento di legge in una linea, in uno sviluppo e può così permettersi una visione più disincantata.

L’insoddisfazione che io partecipavo ai miei studenti era la psicologia che oggi in genere si ha del diritto: l’uomo della strada diffida del diritto, ne ha ripugnanza perché lo concepisce come strettamente, necessariamente legato all’organo di polizia o al giudice. Il nesso tra diritto e autorità è avvertito come inscindibile. Il diritto è ciò che da Roma, da qualche grande palazzo romano viene proiettato sulla società civile come momento autoritario. Ed è proprio la dimensione autoritaria del diritto che oggi è assolutamente diffusa e prevalente.

Lo storico del diritto può guardare criticamente a questo atteggiamento, che è un qualcosa proprio di oggi e non di ieri, è un qualcosa di assolutamente relativo ai duecento anni di età moderna che stanno alle nostre spalle ed è frutto di una patologia non di una fisiologia del diritto.

Che cos’e il diritto? Il diritto è ordine, è una realtà sociale che si autoordina perché quell’insieme di regole, che sono appunto regole di ordinamento, sono concepite come un valore per questa o quella comunità. In altre parole, il diritto, quello autentico, non nasce dall’alto ma nasce dal basso: il diritto è sempre, fisiologicamente, esperienza, è la società che vive sé stessa, che vive la propria storia in tutta l’incandescenza e il pluralismo tipici del sociale.

Noi moderni abbiamo invece ridotto il diritto alla voce dello Stato: il moderno ha legato in modo inscindibile, quasi necessario diritto e Stato. Secondo questa concezione lo Stato deve produrre diritto, è il necessario produttore del diritto: questo è il principio di tutta una concatenazione di conseguenze negative. Si è legato il diritto al potere, lo si è fatto voce del potere, si è concepito il diritto come voce autoritaria, come legge, come una legge che piove sulla comunità, non che la comunità si è creata spontaneamente nella sua autoorganizzazione.

Gli storici sanno bene che tutto questo ha una nascita precisa, la fine del ’700: secondo una certa visione postilluministica, risalente appunto a quel periodo, lo Stato deve avere il monopolio del giuridico, il diritto deve consolidarsi soltanto in leggi, la legge è una fonte di qualità superiore, è la fonte per eccellenza con cui il diritto viene prodotto. Questa età che inizia alla fine del ’700 è l’età dell’assolutismo giuridico. Pur essendo il periodo del pieno liberalismo economico, è anche il periodo del più bieco assolutismo giuridico. Lo Stato monopolizza il diritto; questo può ancora valere per il diritto amministrativo, per quello penale o costituzionale – forme giuridiche legate alla potestà dello Stato – ma non può assolutamente valere per il diritto privato, il diritto dei nostri rapporti quotidiani, che trova oggi nello Stato il normale e necessario produttore. La società è stata espropriata: per questo ha ragione l’uomo della strada nel diffidare del diritto, nell’immedesimarlo con l’organo di polizia o giudiziario, nel vederlo soltanto nella veste contro natura di autorità.

Lo storico del diritto – come dicevo all’inizio – ha il pregio oggettivo, modestissimo, di inserire la tessera nel grande mosaico, il punto nella linea, essendo consapevole anche del senso della linea che nasce dal passato, oltrepassa il presente e si proietta nel futuro. Lo storico è infatti il più presago del futuro tra gli uomini di cultura.

La visione di una tale linea, mostra in contrapposizione a questo assolutismo giuridico – che noi ancora viviamo – un altro universo storico-giuridico che aveva vissuto valori esattamente opposti. Mi riferisco al grande mondo medioevale, alla grande koiné medioevale che per il giurista è durata ben oltre i termini storici del Medioevo, fin quasi alle soglie della Rivoluzione francese. Il mondo medioevale ha infatti conosciuto due fondamentali assenze: lo Stato e l’individuo. Questo significa che ha conosciuto l’assenza di due presenze protagoniste del mondo moderno. Quando dico che lo Stato è un assente nella civiltà medioevale, non intendo dire che è assente il potere politico, ma che è assente quel potere politico compiuto che noi identifichiamo con lo Stato, un qualcosa che forse nasce nel secolo XIV. Potere politico compiuto: un potere politico che non è solo effettività di potere in un certo territorio ma che è un potere sorretto da una psicologia totalizzante. Lo Stato è un "burattinaio" che tende tutti i fili del sociale, che vuole occuparsi nel migliore dei casi – quando non è Stato etico – di tutto ciò che è al livello dell’intersoggettivo quindi anche dei rapporti privati tra me e te e voi, i nostri rapporti di vita quotidiana. Il mondo medioevale non ha mai conosciuto questo ente così protagonista e così ingombrante, così burattinaio. Ha conosciuto un infinità di identità politiche, ma non ha mai permesso a nessuna di queste entità di consolidarsi in Stato: la macroidentità politica è ignota al mondo medioevale.

In un mondo in cui tutti sono dominati da una sincera umiltà verso l’ordine sociale e verso l’ordine cosmico – una nozione fondamentale del Medioevo è infatti quella di ordine, basti leggere la Summa Theologiae di Tommaso – dove si parla di ordine non si parlerà mai del singolo, ma si parlerà di una rete di relazioni che compone e armonizza i singoli di una, dieci, cento comunità. Nel mondo medioevale il singolo si seppellisce all’interno della comunità, che non sarà mai la comunità espropriativa, né mai la macrocomunità statuale totalizzante. La società sarà un pullulare di comunità: la famiglia innanzitutto, gli aggregati "supra-familiari", la corporazione di arti e mestieri, le fabbricerie, le confraternite, la parrocchia e, naturalmente, la grande società protettiva, la grande società ecclesiale madre di tutte le società e fonte di salvezza, sacramento per i fedeli che vivono in essa.

Questo mondo medioevale così ordinato vive anche un sostanziale pluralismo; noi giuristi diremmo che è un mondo con una pluralità di ordinamenti giuridici, il sociologo direbbe che è un mondo di tante comunità intermedie. Il giurista può dire che è una società pluralistica perché il diritto non è connesso al potere politico, ma al sociale, all’incandescenza del sociale, e infatti non avrà la sua fonte nella voce del potere – la cosiddetta "legge", come è nell’assolutismo moderno –, ma in un qualcosa che viene dal basso, soprattutto in un reticolo di consuetudini.

Noi giuristi chiamiamo "consuetudini" ciò che il sociologo o l’etnologo chiama costume. È il costume che crea il diritto, lentamente, sedimentazione dopo sedimentazione, goccia dopo goccia, i valori giuridici diventano norma, diventano un qualcosa di osservato, di obbedito, ed è un’obbedienza che proviene innanzitutto dall’interno di ciascuno dei membri della comunità; non è un qualcosa che proviene dall’alto e che è violenza, seppure legale.

L’entità protagonista del vecchio mondo medievale e post-medievale è la comunità intermedia, non una comunità che vincola, o addirittura che imbavaglia, ma una comunità estremamente materna e protettiva. Voglio a questo proposito ricordare un testo di un grande teologo dei primi del secolo XII – quando comincia il grande fermento della Scolastica medievale –, Ugo di San Vittore. Ugo di San Vittore ha una puntualizzazione precisa sul rapporto singolo-comunità. È il singolo che deve salvarsi: il paradiso c’è per accogliere i singoli, la grazia agisce sui singoli, però agisce con maggiore potenza ed efficacia soltanto se può agire all’interno del filtro di una comunità. La comunità: non solo la grande comunità salvante, la Santa Chiesa, ma ogni comunità che sia sentita e vissuta, ogni comunità è essa stessa salvante.

L’assolutismo giuridico moderno ha invece cristallizzato il diritto in leggi, in regole che noi insegniamo ai nostri studenti. Queste regole sono generali, astratte e rigide. Il diritto medievale è un diritto che vive soprattutto come esperienza, è un qualcosa che la comunità sedimenta nella sua esistenza quotidiana.

Lo storico del diritto ribadisce dunque una elementare verità; questa visione per la quale il diritto deve per forza provenire dagli organi dello Stato non è un qualcosa che è stato nel passato remoto e che può non essere nel futuro, è frutto di questo breve interludio storico dei duecento anni che stanno alle nostre spalle. Si tratta di un monopolio che ha espropriato la società da quello che è il suo potere di produrre diritto, almeno il diritto privato, ovvero il diritto che regola i suoi rapporti intersoggettivi. Non sto proponendo dei modelli, tanto meno dei modelli medievali: lo storico non ha modelli da proporre, ha soltanto una vita vissuta da mettere a rapporto con la vita che stiamo vivendo, cercando di trarre qualche conseguenza soprattutto per l’immagine di diritto che abbiamo oggi, che è falsata.

 

 

Fisichella: Prenderò le mosse da due quesiti che sono stati formulati rispettivamente da Baget Bozzo e dal professor Vittadini. Baget Bozzo si è chiesto che cosa è l’"io" e il professor Vittadini ha chiesto: "È possibile uno Stato che non sia alternativo all’individuo?". La convergenza di questi due interrogativi è l’essenza della politica. Cercherò rapidamente di definire la politica e poi cercherò anche di dare una risposta, nei limiti della disciplina che io pratico, ai quesiti che sono stati posti, soprattutto con riferimento al tema dello Stato.

La politica è un tipo specifico di relazione interpersonale. La politica dunque presuppone un alter, sia esso persona fisica, sia esso persona collettiva. Io posso avere con me stesso un colloquio, un rapporto, un dialogo, una interazione, ma ciò non dà luogo ad una relazione politica; semmai può dare luogo ad una relazione di tipo etico: io che discuto con la mia coscienza, io che dibatto con la mia coscienza. La relazione politica è invece sempre una relazione interpersonale.

Come si distingue la relazione politica rispetto agli altri tipi di relazione interpersonale? Abbiamo numerosissimi esempi di relazione interpersonale: la famiglia e, più in generale, i rapporti affettivi sono un esempio di rapporti interpersonali; il mercato è un sistema di relazioni interpersonali; il rapporto tra il docente e il discente è un rapporto di tipo interpersonale. Abbiamo dunque relazioni interpersonali di tipo affettivo, relazioni interpersonali di tipo economico, relazioni interpersonali di tipo intellettuale. Ciò che specifica la relazione politica rispetto agli altri tipi di relazione interpersonale è l’elemento della coazione come elemento costitutivo e sine qua non.

Noi possiamo avere un rapporto coattivo anche tra genitori e figli, possiamo avere la presenza di elementi coattivi nella relazione economica o nella relazione tra docente e discente, ma questi elementi di coattività non sono essenziali, sono elementi incidentali: possono non esserci e non modificano l’essenza della relazione interpersonale. Viceversa, la relazione politica è sempre caratterizzata da un elemento di coattività e quindi da un elemento sanzionatorio che include la coazione come fattore sine qua non e costitutivo della relazione stessa. Ovviamente l’elemento coattivo non è presente con la medesima quantità e con la medesima qualità in tutti i regimi nei quali si articola l’esperienza politica dell’umanità. Questo significa che la quantità e la qualità della coazione costituiscono elementi per comparare e quindi anche per distinguere i regimi politici tra di loro, ma il dato coattivo è ineludibile. Ci si potrebbe chiedere perché questo accade; la storia del pensiero ha dato tante risposte, e se volessimo riassumerle potremmo dire che sono due le risposte fondamentali (che possono anche non escludersi), la risposta naturalistica e quella teologica.

La risposta naturalistica rinvia alla aggressività che inerisce ai meccanismi della selezione naturale; la risposta teologica rinvia al peccato originale e quindi alle caratteristiche che in seguito al peccato originale ha assunto la natura umana.

Veniamo adesso ad un altro concetto: il potere. Possiamo definire il potere come un mero fatto: il potere altro non è che la ineguale distribuzione delle risorse tra gli individui, la quale ineguale distribuzione di risorse comporta che alcuni individui abbiano una capacità di influenzare altri individui affinché questi individui assumano o non assumano certi comportamenti. Quindi la prima definizione di potere è meramente fenomenica. La diversa distribuzione delle risorse, che possono essere di vario tipo (risorse economiche, risorse simboliche, risorse estetiche, risorse di coraggio), determina la capacità di alcuni individui di esercitare su altri individui un’influenza in vista di comportamenti attivi od omissivi.

Il potere può però essere anche letto come una necessità. Perché questa seconda accezione emerga nella sua forma più piena, bisogna introdurre un’ulteriore categoria, quella di autorità. L’autorità, se noi volessimo definirla partendo sempre dalla nozione di potere, è quel tipo particolare di potere che si basa su un idem sentire, e dunque su un consenso in virtù del quale il rapporto di obbedienza ha necessità di una quantità comparativamente ridotta di coazione, cosicché più il potere si configura come autorità, meno ha necessità di esercitare la funzione coattiva.

Quando il potere assurge ad autorità? Quando gli si riconosce, o ha la capacità di farsi riconoscere, una funzione generale. Il potere come tale infatti è soltanto un esercizio fenomenico di influenza particolare su individui o soggetti comunque particolari. Quando si ritiene che l’esercizio del potere abbia una funzione, quindi una utilità generale, il potere si configura come autorità.

La giustificazione più alta sotto il profilo generale del potere è l’ordine, o se si vuole, ma è la stessa cosa, la pace interna. Impositio ordinis est res publica. L’essenza dell’autorità è la sua capacità di realizzare l’ordine civile, di realizzare la pace sociale usando un livello quantitativamente e qualitativamente basso di coazione.

Con quanto fin qui detto, ho posto le premesse per dare una risposta all’interrogativo di partenza: è possibile uno Stato che non sia alternativo all’individuo? È possibile nella misura in cui il potere politico si configura come autorità, e quindi risponde ad una funzione e ad una vocazione generalistica. Questo problema pone il problema del primato della politica; noi abbiamo deplorato e sentito deplorare a più riprese, anche in questa sede e con ragione, le prevaricazioni, le invadenze, gli eccessi dello Stato. Questo perché non si è distinto che nella dimensione temporale (altro è evidentemente il discorso nella dimensione spirituale) la politica proprio in virtù – paradossalmente, ma non troppo – di questa sua referenza all’elemento coattivo al quale peraltro corrisponde questa funzione generalistica, si pone come il ruolo più alto e quindi dà luogo ad un primato rispetto ad altri tipi di relazione. La forma corretta di questo primato della politica è un primato regolativo, non un primato interventivo in virtù del quale si è potuto affermare che tutto è politica e che quindi la mano o il braccio istituzionale attraverso il quale si esprime la politica può intervenire e prevaricare su tutto, piegando ogni ruolo, ogni funzione sociale alle sue determinazioni. Primato regolativo della politica vuol dire invece il riconoscimento in primo luogo dei limiti della politica e in secondo luogo dell’autonomia della società rispetto al politico e rispetto alle forme della statualità, quando queste forme non si limitino ad adempiere i compiti ineludibili della statualità.

È chiaro – come diceva il professor Grossi – che lo Stato è una realtà storica nata in un certo periodo e destinata presumibilmente a perire, nata per il compimento di certe funzioni, prima delle quali è quella dell’ordine civile e del mantenimento dell’autonomia delle autorità politiche. Non abbiamo ancora realizzato un quadro istituzionale in grado di sostituire lo Stato. Ciò non significa che lo Stato deve fare tutto, anzi, al contrario, ciò significa la capacità di restituzione dello Stato alle sue funzioni sine qua non. Certo la questione dello Stato si lega profondamente alla questione della sovranità; e prima don Baget Bozzo ha sottolineato in qualche modo il carattere fittizio del principio della sovranità popolare. Non è l’unico principio che abbia connotati fittizi – ne conosciamo tanti! – ma certo questo problema pone la questione della titolarità e dell’esercizio della funzione sovrana nel mondo contemporaneo ed in particolare nei regimi democratici, a meno che non si voglia concludere, come già concludeva agli inizi del secolo scorso De Maistre, che la democrazia è una associazione di uomini senza sovranità.

Se devo dunque dare una risposta politica ai due quesiti, credo che noi certamente possiamo e dobbiamo lottare per uno Stato che non sia alternativo all’individuo, perché questo Stato si può realizzare. Le malformazioni che sono intervenute nel corso del secolo scorso e nel corso del nostro tempo hanno radici forse più storiche che teoriche: la prima guerra mondiale, la grande depressione, la seconde guerra mondiale, le esigenze relative allo stato del benessere. Tuttavia non credo che Stato e rispetto dell’io nella dimensione politica siano termini necessariamente antitetici ed incompatibili.

 

 

Alberto: All’inizio del testo di Christopher Dawson Il Cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale si legge questa frase: "La nostra generazione si è trovata nella necessità di comprendere come sono fragili e inconsistenti le barriere che separano la civiltà dalle forze di distruzione. Si è imparato che la barbarie non è un mito pittoresco o un ricordo semidimenticato d’un lontano passato storico, bensì una spaventosa realtà latente che può erompere con forza distruggitrice ogni qual volta l’autorità morale di una civiltà diviene inoperante"1. Questa frase mi sembra bene descrivere la possibilità reale dei tempi in cui viviamo, tempi in cui una civiltà sembra finire.

L’evoluzione di una civiltà non si misura infatti dal grado di tecnologia, di progresso scientifico che essa raggiunge, ma da quanto favorisce il venire a galla, il chiarirsi del valore del singolo io, della singola persona; viviamo in un’epoca in cui come non mai una grande confusione regna riguardo al contenuto e alla realtà della parola "io".

L’epoca che viviamo è il punto terminale di quella che potremmo definire la grande presunzione che ad un certo punto ha preso l’uomo, quella di poter identificare ragione e libertà – i due fattori più caratteristici della sua realtà di uomo – rispettivamente con la misura di tutte le cose e con la scelta di ciò che si può fare, di ciò che è possibile con le proprie forze determinare. A questa pretesa fa riscontro oggi una disillusione amara, una sfiducia, un cinismo, una totale e pessimistica concezione di quello che la persona è e di quello che la persona può. Sintetizziamo con la parola "nichilismo" questo atteggiamento che non conserva più nemmeno i tratti tragici di quell’atteggiamento che Nietzsche aveva teorizzato, ma che assume i volti (come ricordava il professor Del Noce) di un nichilismo gaio, irresponsabile, che ama ascoltare le proprie parole senza più la pretesa e l’illusione, e neanche la fatica e il rischio di trovarvi riscontro nella realtà. È un "nichilismo ilare", la cui legge fondamentale, ricoperta di una presunta dignità culturale o filosofica, o semplicemente espressione di una istintualità casuale e quindi irrazionale, è il Carpe Diem: prendi, vivi l’istante, perché niente ha più consistenza, niente vale la pena.

Se la persona è ridotta a questo, noi possiamo e dobbiamo riflettere sul valore del potere e sul valore dello Stato, senza demonizzarli o sentirli estranei. Se l’io non esiste più è inevitabile che l’unico principio di organizzazione sociale, l’unica possibilità di una convivenza diventi un fattore esterno all’io, un insieme di regole e di valori che non nascono più da quello che originalmente l’io nella sua irriducibilità, è, cioè desiderio di felicità, di giustizia, di bontà, di bellezza: queste cose possono essere ridotte ad illusione o all’ambito della sfera privata. Invece il punto da cui ripartire è proprio l’io, la persona nella sua originalità: si rivela infatti fatuo e minaccioso per la possibilità di una convivenza civile e per la possibilità stessa di una civiltà l’ideale pedagogico – dominante nell’epoca contemporanea – di Dewey (al quale nell’ottantesimo compleanno furono dedicati due giorni di festa nazionale). Dewey riassume la concezione del progresso e dello Stato moderno affermando che l’io non è un dato originario, perché la sua coscienza nasce dalla pressione sociale che penetra tutta la nostra vita come l’aria che respiriamo. L’educazione si riduce alla ritessitura costante del tessuto sociale, noi non educhiamo mai direttamente: l’educazione non è più un rapporto tra persona e persona, ma è un rapporto indiretto che avviene per mezzo dell’ambiente. Queste non sono teorie: è una realtà che quotidianamente ci troviamo a vivere, in famiglia, con i mass media, con la scuola, fino a una certa concezione dell’agire economico e dell’imprenditorialità, della politica e della convivenza civile.

La più grande risorsa, il punto da cui ripartire in questo contesto così a noi contrario, è la persona: la persona non come illusione, ma come quel punto, quel grido, quel rapporto diretto con l’infinito che la rende una realtà originale, irripetibile nel suo nucleo più profondo e immortale. Occorre riscoprire la persona nella sua apertura alla realtà, nella sua curiosità originale, nella sua sete di verità, nello sguardo pieno di simpatia su tutte le cose. La ragione è apertura, non misura, e la libertà non è riducibile al semplice scegliere, perché non mi importa nulla del poter scegliere se non so dove andare, se non ho uno scopo. La libertà non è semplicemente la capacità di scelta o l’assenza di legami (come oggi viene teorizzato), ma è adesione, adesione all’essere, adesione alla realtà che si presenta all’uomo come promessa positiva.

Possiamo scrivere la frase di Dostoevskij e rischiarla davanti a tutti non per un "buonismo", ma per un realismo: la realtà è positiva, innanzitutto perché c’è, e perché continuamente risveglia l’io nella sua natura più originale e più profonda, e secondariamente perché ha dentro una promessa. La realtà non inganna: dopo tanti secoli di menzogna, dopo tanti secoli uno può dire "non ci credo più", ma non può evitare l’impatto in un istante, imprevisto, inatteso con qualche cosa che muova la sua vita, che muova il suo cuore e lo rimetta in movimento. Così l’io viene rimesso in movimento, l’io come ragione e libertà, capacità di aderire alla realtà, capacità di costruire, capacità di amare seguendo la promessa cui le cose stesse richiamano il cuore.

La libertà è questa vertigine dell’io, è la cosa che in noi più grida l’essere, più grida il mistero, più grida che la risorsa dell’io è innanzitutto rapporto col mistero. La libertà si esprime poi in desideri che il potere cerca di ridurre, di plasmare secondo schemi e immagini. Ma i desideri più semplici che si esprimono nei bisogni quotidiani, nei bisogni di affezione, di felicità, di una casa, di un lavoro, sono passi al nostro destino.

Noi abbiamo imparato a ridire con serietà "io" in un incontro, un incontro umano, in cui questa promessa che la realtà è ha un volto: è diventata una strada, è diventata una compagnia, è diventata un movimento, è diventata una dimora, un luogo in cui l’io possa crescere, possa crescere come coscienza e come capacità di manipolare, di rischiare, di aderire alla realtà.

Per tanti di noi questa dimora è la compagnia cristiana, la realtà della permanenza del mistero, del Dio fatto uomo come volto positivo della realtà, come consistenza ultima di tutte le cose. Tutto di lui consiste: questa certezza nasce come stupore e gratitudine, e fonda l’impegno dell’io, il rischio della libertà dell’io, innanzitutto nell’incontrare, nel valorizzare, nel riconoscere il bene, la verità che c’è in ogni altra posizione. Questa certezza è il contrario del dogma della modernità, secondo il quale il pluralismo e la convivenza sono possibili solo se non vi è una identità, solo se non vi è una certezza. Così si finisce inevitabilmente nel regno della tolleranza, tolleranza che è solo falsamente apertura all’altro, in realtà non è che una forma più sottile di affermazione di sé, e quando si arriva al dunque si gettano le maschere: io sono tollerante con te fino a quando non entriamo in conflitto su qualche punto.

La riscoperta nella nostra vita di una certezza che nasce dallo stupore e dalla gratitudine per questo volto buono, per questa persona per cui si può dire con san Paolo omnis creatura bona, tutto è bene, non solo le cose che vanno bene, ma tutto, perché tutto grida un altro, è quello che noi chiamiamo ecumenismo: uno sguardo valorizzatore di ogni più piccolo aspetto di verità nell’altro, non per una tolleranza, non per una sopportazione, non per una tattica culturale e politica, ma per un amore al destino dell’altro. Fosse anche valorizzabile un granello, un aspetto infinitesimale questo atteggiamento ha un valore politico.

Il cuore di questo sguardo alla realtà che diventa fattore di costruzione, energia di rischio e continua apertura, è quello che diceva S. Paolo: "vagliate tutto, trattenete ciò che è buono" (1Ts 5,21). Uno sguardo valorizzatore, uno sguardo amico alla realtà è l’inizio di una amicizia possibile come origine e fondamento di una convivenza nuova, come origine e fondamento di un nuovo popolo: è questo che ci muove.

NOTE

* Questo incontro ed i seguenti fanno parte del Ciclo di incontri economico-politico-sociali promossi dalla Compagnia delle Opere in collaborazione con Unioncamere, dal titolo: Difendiamo il futuro.

1 Ch. Dawson, Il Cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1997, p. 32.