Screening prenatale
e mito dell’uomo perfetto

Mercoledì 25, ore 15.00

Relatori:

Mary Nicholas,
Presidente dell’Associazione
Edith Stein per la Ricerca in Farmacologia

André Megarbané,
Medico Genetista

Jean-Marie Le Méné,
Fondazione Jérome Lejeune di Parigi

Claudio Caggioni,
Genitore

Marco Pierotti,
Direttore della Ricerca dell’Istituto dei Tumori di Milano

Moderatore:

Patrizia Vergani

Vergani: Dirigo il Centro di Medicina Materno Fetale dell’Istituto di Scienze Biomediche San Gerardo di Monza, e da tanti anni, con tanti colleghi, mi impatto con la realtà della diagnosi prenatale. La verifica delle malattie congenite sta diventando sempre più forte, soprattutto per la proposta degli screening genetici che, in certi paesi, è ormai quasi obbligatoria; si tratta di test che possono essere proposti a tutta la popolazione per individuare malattie fetali. Occorre sottolineare che se la malattia è diagnosticata, nella maggior parte dei casi, consegue la proposta deliberata dell’aborto, anche se si conosce la cura.

Una donna, a cui era stato consigliato di accettare il suo bambino con la sindrome di Down, dopo un anno dalla nascita, mi ha telefonato ringraziandomi: la bimba le aveva permesso di capire cose che in quarant’anni di vita non aveva compreso. L’esempio di questa donna ci dice che un bambino Down rivela alla famiglia un modo di essere uomini che permette addirittura di rileggere tutta la vita con una positività altrimenti non pensata. Se la realtà è questa non si riesce a capire perché un’ideologia scientifica vuole proporre e indurre in modo massificato questo bisogno dello screening prenatale.

Nicholas: L’obiettivo del mio intervento è quello di passare in rassegna la letteratura e l’analisi dei costi-benefici della diagnosi prenatale della sindrome di Down; nella prima parte di questo lavoro cercherò di mettere da parte l’aspetto etico, ovvero parlerò nei termini rigorosi di un approccio economico. Successivamente aggiungerò alcuni aspetti medico psicologici di diagnosi prenatale della sindrome di Down così come ci appaiono in letteratura: anche trattando questi aspetti metterò da parte l’etica. Nella seconda parte, finalmente, parlerò soprattutto degli aspetti umani, etici della diagnosi prenatale per la sindrome di Down.

Presso la American Society for Human Genetics, nel 1969 Jérome Lejeune fu il primo a parlare del legame tra un cromosoma sovrannumerario e la sindrome di Down, e sostenne che se era possibile raggiungere una precoce identificazione della condizione cromosomiale grazie all’analisi delle cellule nel liquido amniotico, si poteva decidere se la gravidanza poteva arrivare a termine o essere interrotta inducendo l’aborto; egli non si preoccupò del riflesso e delle implicazioni di questo pensiero eugenico, e il suo lavoro rimane ancora una pietra miliare nelle riflessioni in materia.

Dopo trent’anni la diagnosi prenatale è una delle procedure più frequentemente impiegate nell’assistenza prenatale; dal momento della primissima visita prenatale le donne vengono classificate in gruppi a elevato o basso rischio; potremmo dire che una ideologia del rischio circonda la gravidanza, ideologia che fa sì che la sindrome di Down e la ricerca di normalità siano problemi tecnici da superare con i test prenatali.

Non vogliamo dare la sensazione di opporci alla diagnosi prenatale, piuttosto invece a seconda e in funzione della tipologia o del grado dell’anomalia in causa, questo tipo di diagnosi aiuta il medico sia a stabilire un dialogo con i genitori, sia a offrire, nel caso in cui sia effettivamente disponibile, un’assistenza appropriata per eliminare o quanto meno ridurre il difetto. La diagnosi prenatale permette anche al medico di determinare se un parto prematuro è vantaggioso e ai genitori di pianificare il parto di un bambino che ha un difetto di nascita. Uno dei progressi più significativi di tutta la medicina di certo è stato proprio quello fatto nella chirurgia prenatale che non sarebbe stato possibile senza la diagnosi prenatale.

L’analisi dei costi-benefici è una valutazione economica che viene impiegata per determinare se un determinato costo ha una sua giustificazione economica; un’analisi di questo tipo richiede che i costi ed i benefici vengano quantificati con le medesime unità di misurazione: ad esempio un costo effettuato con l’assistenza o la cura di un bambino disabile è il tempo che i genitori danno a questo fine per assisterlo. Anche se è un costo intangibile l’unità comunque può essere espressa in valori dollari; nel paradigma costi-benefici è logico che duemila dollari per risparmiare un milione di dollari è vantaggioso. Se parlassimo soltanto di titoli azionari, potremmo tutti essere d’accordo su questa affermazione: in questo caso però duemila dollari si riferiscono alla quantità di soldi spesi per la diagnosi prenatale, un milione di dollari invece fa riferimento agli importi specifici che la società potrebbe risparmiare se non dovesse prendersi cura di un individuo affetto da sindrome di Down.

Anzitutto, esaminiamo gli aspetti finanziari che sono associati proprio con la diagnosi prenatale della sindrome di Down, in base al modello costi-benefici. I costi inerenti alla diagnosi prenatale e/o alla interruzione per la sindrome includono quanto segue: lo screening prenatale, un accertamento ecografico di livello due, l’analisi cromosomiale, l’onorario del medico, il counseling genetico, ed altri ancora.

La seconda parte invece, nell’analisi costi-benefici, valuta i costi che vengono a essere risparmiati da un programma di questo tipo; sono costi che vengono considerati frequentemente "costi perenni" del fatto di dover far crescere un bambino con un handicap. La letteratura dice che il costo per fare questo varia da cinquecentomila a un milione di dollari. Il secondo tipo di risparmio della diagnosi prenatale, che poi termina chiaramente con un bambino con sindrome di Down, sarebbe quello di una gravidanza continuata; per taluni economisti i vantaggi dello screening prenatale vengono definiti come il risparmio che deriva dall’impedire la nascita di un bambino che si sa ha una sindrome di Down, ma esaminare soltanto quello che è il valore economico della persona umana non è corretto per sua stessa natura.

Non esiste un vantaggio medico per il feto della diagnosi prenatale: d’altra parte ci sono invece dei costi, per via della morbilità fetale materna e della mortalità a seguito di amniocentesi o villocentesi; se escludiamo la mortalità per l’interruzione volontaria, la mortalità nell’arco dei trenta giorni a seguito di queste procedure passa da 0,2 a 4 per cento come gamma e la perdita fetale a meno di ventotto settimane di vita oscilla da 0,7 all’8 per cento. Anche dal punto di vista del feto, la morbilità neonatale – ovvero le malformazioni, i danni che possono insorgere a seguito di un test prenatale –, aumenta sensibilmente in percentuale a seguito della amniocentesi e della villocentesi. Infine, c’è da osservare che molti bambini – circa il 50 per cento – con la sindrome di Down andranno incontro ad un aborto spontaneo fra il primo trimestre e il termine. Quindi, molti di questi bambini sarebbero andati incontro comunque ad un aborto spontaneamente.

Passiamo ora a considerare i costi psicologici ed i vantaggi della diagnosi prenatale per il Down. Gli aspetti negativi che emergono dalla diagnosi prenatale annoverano, soltanto per citarne taluni, il timore di una presentazione poco obbiettiva da parte dei consulenti circa come far crescere un bambino così, il ritardo nel far nascere e crescere il legame tra madre e bambino, fatto che modifica tutta l’esperienza della gravidanza. Si tratta di costi psicologici per la madre che difficilmente possono essere trascurati.

Dobbiamo a questo punto riflettere su considerazioni etiche: non dobbiamo pensare che i bambini Down siano una categoria artificiale, si tratta veramente della nostra stessa natura umana che funge da base all’etica. Se così è, dobbiamo proprio cominciare con la domanda di Tommaso d’Aquino: "Qual è la natura dell’essere umano?"

La persona umana anche se non ha più le sue capacità, comunque trattiene pur sempre qualcosa che è unico: trattiene la capacità di poter far appello per poter aver amore e assistenza dagli altri. L’essere umano per sua natura ha il privilegio di poter assistere gli altri, di curarli: è la figura del medico. Se è così, torniamo a quelli che sono i cosiddetti benefici della diagnosi prenatale prima segnalati. Quando gli autori ci dicono che la nascita di un bimbo con sindrome di Down impedisce il carico, l’onere dell’assistenza per l’affezione che ha, questo è in realtà un tentativo di negare alla madre una parte della essenza della sua stessa natura umana. Inoltre, secondo Edith Stein, l’anima di una donna è più presente e vive con grande intensità in tutte le parti del corpo e quindi è colpita intrinsecamente da quello che succede al corpo, che è associato molto strettamente alla vocazione di maternità, al senso materno; inoltre il processo misterioso della formazione di una nuova creatura nell’organo materno rappresenta l’unità intima tra lo spirituale e il fisico che si impone su tutta la natura della donna. La costanza della natura umana piuttosto che creare una spaccatura tra i vantaggi per madre e feto, è alla radice alle fondamenta di un’etica della solidarietà. C’è una unità nella umanità, un legame proprio naturale che tutti, uomini e donne, hanno in comune, ed è quello della natura umana in quanto tale.

L’umanità, l’uomo è una unità biologica e pertanto la vecchia idea che gli esseri umani siano fratelli non è un’ipotesi etica o un obbiettivo meramente morale, ma è semplicemente un dato di fatto.

 

Megarbané: Ho iniziato la mia esperienza di genetista con il professor Lejeune; in ospedale in Libano, dove sono nato, mi avevano sconsigliato di fare una specializzazione in genetica dicendomi che avrei perso molto tempo, che non c’erano trattamenti per le persone affette da handicap mentale o da malattie genetiche di questo tipo, che non avrei potuto fare nulla di più se non un po’ di ricerca, quindi vegetare in un laboratorio, disperdermi nella lettura di enormi volumi e tomi; infine avrei dimenticato sicuramente la vera medicina pratica. Ma tutto questo non mi convinceva.

San Francesco di Sales dice: "Per essere in contatto con le persone che soffrono [parlo in quanto medico, ma potrebbe applicarsi a qualsiasi situazione della vita] ci vuole un ditale di scienza o di conoscenza, ci vuole un barile di prudenza, ci vuole un oceano di bontà".

Questo ditale, questo pizzico di scienza l’ho avuto probabilmente nel corso della mia specializzazione; ho imparato moltissimo grazie al professore Lejeune, ho imparato dai miei maestri il mistero della vita legato al DNA. Il barile di prudenza consiste nel non ritenersi troppo presuntuosi, nel non volersi sostituire a Dio: sembra che con la diagnosi prenatale si risolvano i problemi psicologici dei genitori, ma prima di lasciarsi trasportare da facili entusiasmi è meglio optare per la prudenza. Ma bisogna pur sempre scegliere: quando devi scegliere la miglior scelta è quella della vita, e quella deve essere fatta; non potranno mai rimproverarmi di aver dubitato che questo essere nel ventre della madre è vivo, mi si potrà invece rimproverare di non averlo mai considerato come essere vivente. In quanto genetista ho sempre cercato di portare avanti questa teoria, spesso anche in situazioni estremamente dolorose. È proprio nelle situazioni di grandi dolore – di genitori con figli affetti da gravi disturbi, e magari non solo un figlio… – che occorre chiedersi dov’è l’oceano di bontà. È in realtà in qualcosa di molto semplice: ricordarsi sempre il motivo per cui si fanno le cose, e sorridere.

Le Méné: Vorrei ricordare tre aspetti della personalità di Lejeune che dimostrano in che cosa fosse così grande e che evidenziano la sua volontà di dare una continuità la sua opera scientifica e medica e alla sua lotta per il rispetto della vita.

In primo luogo, Jerome era uno scienziato: in particolare, è stato lo scopritore della trisomia 21. Prima della scoperta di Lejeune della trisomia 21, quello che era chiamato il mongolismo era considerato come una sorta di decadenza razziale, secondo una teoria ereditata dal XIX secolo, che non aveva basi scientifiche ma che aveva larga diffusione, basti pensare a come è stata usata dai nazisti nel secondo conflitto mondiale per eliminare coloro che non appartenevano ad una razza degna di vivere. E questa tesi della degenerazione razziale e stata usata anche dopo la guerra da talune democrazie così dette progredite per sterilizzare le persone con handicap mentale. Jerome ha scoperto che questo non è vero, perché ossevando il patrimonio genetico di questi bambini si è accorto del fatto che non hanno 46 cromosomi ma 47. Questo 47esimo cromosoma fa sì che la persone portatrici di questa anomalia cromosomica non possano esprimere tutte le possibilità che detengono. È stata una scoperta fondamentale che consentiva di dire ai genitori non che avevano un bambino con handicap mentale, ma semplicemente che loro figlio aveva avuto un incidente cromosomico. Nel 95% dei casi non è una malattia ereditata: è invece una patologia che insorge accidentalmente.

Il secondo aspetto è il fatto che Lejeune è stato il primo messaggero del segreto della vita; quaranta anni fa era una novità parlare dell’origine della vita, e Jérome è stato il primo che ha dato una forma all’espressione dell’inizio della vita come genetista. Diceva che la genetica moderna si riassume in questo credo elementare: "All’inizio vi è un messaggio, questo messaggio è nella vita, e questo messaggio è la vita". È la parafrasi del Vangelo di san Giovanni, che rintraccia quello che noi siamo sin dall’inizio: l’incarnazione dell’intelligenza. Noi non siamo un’intelligenza disincarnata, ma siamo l’incarnazione dell’intelligenza. Lejeune attribuiva un grande ruolo alla forma di questo messaggio iniziale: all’inizio la materia non è viva, non ha forma. Solo in seguito viene formata.

Da questo, traeva conseguenze che lo situavano come segno di contraddizione per la nostra epoca, ed è questa la terza sfaccettatura di cui vorrei parlarvi. Quando gli si chiedeva: "Ma che cosa è un essere umano?", rispondeva scientificamente: "È un componente della nostra specie". È difficile opporsi a una definizione del genere, le cui conseguenze sono binarie: o si rispetta qualsiasi componente della nostra specie a seguito di questa fraternità biologica, oppure si misura il nostro rispetto calcolando la lunghezza della tibia, il diametro cranico o la misura delle falangi, lo spessore del collo o misurando i giorni, le settimane, i mesi, ed anche i cromosomi.

Caggioni: Durante la gravidanza di Giovanni, bambino affetto dalla sindrome di Down, io e mia moglie avevamo deciso di non fare l’amniocentesi, perché sapere in anticipo se nostro figlio avrebbe avuto problemi, per il nostro carattere, non ci avrebbe aiutato. Eravamo comunque abbastanza tranquilli perché, dopo un esame ecografico particolareggiato in cui si osservava se il feto aveva delle anomalie, ci avevano detto che molto probabilmente il bimbo era sano.

Venendo da quell’esame ricordo che ci eravamo detti: "Certo, sarebbe sempre stato nostro figlio, ma per fortuna è sano!". Eravamo tranquilli per affrontare il parto, e sapere che il bimbo non aveva problemi ci lasciava più sereni. Quando è nato, Giovanni non ci ha svelato niente, anzi ha preso il massimo punteggio. Verso sera i pediatri ci hanno detto che sospettavano la presenza di una cataratta bilaterale e volevano fare anche l’esame genetico perché sospettavano che Giovanni avesse la sindrome di Down.

Immediatamente quello che più ci spaventava era il difetto visivo; il giorno successivo abbiamo avuto la conferma che Giovanni doveva essere operato agli occhi. Abbiamo cominciato a sperare di dover affrontare solo quel problema. Il giorno seguente sono venute nuovamente le pediatre che ci hanno comunicato che Giovanni era affetto anche dalla sindrome di Down; ci hanno detto di disperarci, e che era comprensibile la disperazione e che se lo ritenevamo opportuno avevano una psicologa che ci avrebbe potuto aiutare.

La disperazione di fronte all’ignoto: non si può far altro che disperarsi, che spaventarsi. Sono sensazioni pazzesche, c’è il vuoto e uno in quegli istanti pensa di perdere la testa. Non sapevamo che pesci pigliare.

Ci riteniamo veramente fortunati perché pochi istanti dopo aver ricevuto la notizia, appena dopo che le pediatre erano uscite dalla nostra camera, ci ha raggiunto la nostra ginecologa che ci ha come presi per mano: ci ha letteralmente accompagnati a comprendere quello che ci era accaduto. Ci ha spiegato che Giovanni ci era stato dato per un di più e non per un di meno. Se il Signore aveva scelto per Giovanni la nostra famiglia, non era per caso, ma per noi. Non le abbiamo sentite come parole consolatrici visto che il comunque problema c’era, non abbiamo pensato che ci stava addolcendo la pillola. Qualche anno prima avevamo sperimentato proprio sulla nostra pelle che situazioni di dolore, situazioni assurde, se abbracciate generano miracoli.

Giovanni era ed è una espressione del Mistero: guardarlo così è tutta un’altra cosa.

Quando abbiamo sentito per la prima volta il titolo del Meeting, abbiamo pensato a quanto fosse appropriato alla nostra circostanza: se si tenta di comprendere la presenza di Giovanni con la ragione, non si trova modo di collocarla, è una parte della realtà incomprensibile che ci confonde perché non si trova un atteggiamento adeguato con cui starci di fronte. Ma pensando che la presenza di Giovanni non è dovuta ad una distrazione del Creatore, pensando che Colui che ha creato tutte le cose ha proprio voluto la sua presenza così, pensando che Colui che ha creato tutte le cose vuole bene a Giovanni così come è, la disperazione e la paura di fronte a ciò che non si comprende lasciano il posto allo stupore, alla contemplazione di un Mistero che è più grande di noi.

Forse quando la ginecologa ci diceva che la nascita di Giovanni era da considerarsi una grazia, si riferiva al fatto che avere tutti i giorni davanti agli occhi la manifestazione del Mistero è veramente un richiamo a guardare tutta la realtà, a guardare tutti i rapporti con le persone per il loro collegamento con il Creatore.

Giovanni è un bimbo bellissimo ma è anche molto speciale. Attraverso lui si è riavvicinata a noi nostra figlia adottiva. Lei non si era mai sentita veramente figlia perché si sentiva diversa dagli altri fratelli; vedendo il nostro amore per Giovanni, anche lei diversa, improvvisamente si è sentita amata, anche lei figlia. Questo per noi è un miracolo.

Come il sì che si dice sull’altare, anche il sì per un figlio "diverso" è l’inizio di un cammino. La fatica più grande è giorno dopo giorno liberarsi dei pregiudizi. Giovanni è stato operato cinque volte di cataratta: tutti questi interventi ci hanno veramente provato.

Nel frattempo avevamo anche cominciato a portare Giovanni al centro don Gnocchi per fare fisioterapia. Abbiamo cominciato a frequentare le mamme di altri bambini come Giovanni, ed è nata una bellissima amicizia, una vera amicizia che ci ha aiutato moltissimo. Il sentirsi dire da altri più avanti nel cammino con il figlio ormai quindicenne che "tutti i figli nascono e portano con loro un fardello di doni, ma quello con problemi aveva il fardello più pesante" è molto importante, perché aiuta ad essere più certi che tutto fa parte di un disegno buono. Così aver davanti degli amici che vivevano e vivono il loro figlio Down o disabile come una grazia e non come una disgrazia ci ha aiutato a tenere sempre alto lo sguardo anche nei momenti di grande dolore e fatica.

Il motivo per ritrovarsi tra di noi è principalmente il desiderio di vedere testimoniata la possibilità di vivere in armonia con la realtà, con le circostanze che costituiscono il nostro vivere quotidiano. Ci sembra anche di aver superato la tentazione di trasformare i nostri incontri in momenti di aggiornamento tecnico sulle ultime novità in fatto di vitamine o di metodi terapeutici.

Dopo i cinque interventi, i medici hanno riscontrato a Giovanni anche la sindrome di West. Una malattia così ti inchioda, perché se con la sindrome di Down si può essere tentati (anzi si è tentati) di incominciare un lavoro sul proprio figlio nella speranza di tirarlo fuori meglio degli altri, con questa nuova malattia si sperimenta la propria nullità. Tu non puoi fare niente ma non puoi nemmeno smettere di vivere o aspettare. Questa malattia ci ha fatto veramente capire cosa significa abbracciare e offrire tutto al Signore. In genere uno di fronte a una malattia è tentato di vivere solo aspettando l’esito. Sapevamo che la cura sarebbe stata lunga e l’esito non era garantito. Abbiamo chiesto al Signore di farci vivere anche questa prova nel migliore dei modi. Volevamo godere nostro figlio anche dentro questa malattia, non volevamo perdere nessun momento perché se tutto appartiene al disegno buono, non era giusto cestinare nulla.

Abbiamo così potuto sperimentare come sia possibile che il dolore e la fatica convivano con la letizia: si può essere lieti piangendo di dolore perché vedi che tuo figlio sta male, perché ti senti impotente e non puoi togliergli il dolore. Ma se il Signore permette tutto ciò come ha permesso la sofferenza anche per il proprio Figlio, tutto questo è per la maggior gloria Sua. Così partecipavamo anche noi al mistero della Morte e della Croce.

Solo ultimamente i medici ci hanno detto che Giovanni è guarito dalla sindrome di West.

Si è chiarito meglio per noi che Giovanni ci era stato donato perché dovevamo imparare ad amare, perché dobbiamo imparare ad amare.

Non è il primo figlio, ma ci sta insegnando un amore diverso, un amore gratuito, senza pretese, senza progetti: noi siamo gli strumenti attraverso i quali il Signore vuole comunicare a Giovanni il Suo amore. I nostri figli ci sono dati, ci sono affidati per essere accompagnati verso il Signore.

Pierotti: La riduzione dell’umano a una dimensione puramente biologica quando imperfetta può anche suscitare simpatia e solidarietà, ma non riconosce in essa il mistero dell’infinito e la sua gratuità.

Mi permetto di ricordare due brevi note di don Giussani ad alcuni operatori sanitari: mi ha colpito il fatto che in don Giussani l’aspetto formale e quello sostanziale formino sempre un unicum inscindibile.

Dice dunque don Giussani: "Persona: è questa parola che distingue il concetto cristiano di uomo, da quello che hanno tutte le teorie non cristiane. Il cristianesimo considera l’uomo come persona; le altre teorie anche se usano questa parola non sanno spiegarla, né sostenerla; ma la persona non vive isolata, sotto una campana di vetro. L’uomo come persona è messo dentro una trama di rapporti che lo sollecitano, provocano la sua reazione, sviluppano e portano a galla i suoi sentimenti e determinano in lui quello che si chiama il bisogno". Nel senso compiuto di queste due parole, persona e bisogno, si individua un riferimento concreto e contestuale per quell’attività medica che la cultura dominante vorrebbe ridotta invece a un tecnicismo infarcito di norme e costrizioni, che è l’esatto contrario della valorizzazione di tutte le intelligenze e le esperienze della persona, e che è inoltre un pericolo alla possibilità per questa professione di mantenere aperta la dimensione umana e il qualificante rapporto medico paziente.

Tutto questo risulta incompleto se non si aggiunge un ulteriore elemento a questi due punti cardinali. Questo elemento è la gratuità, e di nuovo devo riferirmi a don Giussani: "La gratuità è l’espressione suprema del rapporto che l’uomo ha con l’infinito". E ancora lui ci spiega, riferendosi appunto agli operatori sanitari: "Io credo che la radicazione della vostra opera ad un livello umano più profondo, che è quello della gratuità, che è quello dell’amore, che è quello della coscienza del destino, che è quello del rispetto e della devozione alla persona come rapporto con l’infinito, non può non tradursi in un rapporto "io e tu", un rapporto che trova sul suolo cristiano, trova nella vita della Chiesa come tale, la condizione migliore per la sua comprensione. Io credo che una gratitudine a Cristo, che vi ha dato la fede, è quella di riconoscere la vostra appartenenza alla Chiesa, che ha acuito la sensibilità del vostro animo, acuito la disponibilità dei vostri cuori e rende sempre più scaltra la vostra immaginazione e la vostra fantasia e il vostro pensiero nel rendere la vostra iniziativa sempre più adeguata al bisogno, al grande bisogno che la società di oggi ha; infatti io non credo che ci possa essere società che sia perfetta nella risposta ai bisogni; la gratuità è necessaria per chi ospita gli ammalati o per chi fa qualcosa di più per essi, come è necessaria per compiere il proprio dovere. Senza spinta di gratuità non si compie bene neanche il proprio dovere".

Con questo si completa il quadro intorno a tre concetti: persona, bisogno, gratuità.

Mi ha colpito recentemente una frase di un cosiddetto intellettuale di sinistra integrale, Giorgio Bocca che dopo una visita al Cottolengo ebbe a dire: "Non ho visto mostri, ma il volto di Dio nei figli dell’uomo". Questa frase di un dichiarato non credente dimostra quanto è valido l’insegnamento che ci è stato dato di cercare sempre e comunque il positivo nell’incontro con altre persone, indipendentemente dal loro credo e dal loro schieramento politico.