Il sogno incanta, l’ideale incarna: esempi dalla storia

 

 

Mercoledì 26, ore 11.30

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Relatori:

Tito Perlini, Docente di Estetica presso l’Università degli Studi di Venezia

Andrea Fidel Gonzales, Docente di Storia della Chiesa presso la Pontificia Univresità Urbaniana e la Pontificia Università Gregoriana

 

Perlini: Il titolo che è stato scelto per questo Meeting, "La vita non è sogno" porta immancabilmente a pensare a una delle più grandi opere della letteratura spagnola, La vida es sueño di Calderón de la Barca, nella quale però il significato di "la vita è sogno" può essere conciliabile con ciò che gli amici del Meeting intendono dire con "la vita non è sogno", perché la visione che emerge in questo grande dramma di Calderón è l’affermazione del libero arbitrio contro ogni visione basata su una necessità in qualche modo stregata, la necessità delle stelle, e quindi l’affermazione del libero arbitrio contro le inclinazioni astrali e contro la rozzezza e la brutalità della natura primordiale dell’uomo visto e concepito ancora come animale. Proprio scoprendo che la vita è il sogno, cioè che ci sarà un risveglio, Calderon mette in evidenza come la vita sia un banco di prova da prendere estremamente sul serio ed è proprio questo modo di vedere la vita come qualcosa di prezioso ma anche di temporaneo e dunque di destinato a finire, che prelude a qualcosa di più alto alla vera vita, che consente l’affermarsi della libertà contro ogni visione precostituita.

Il modo di concepire il sogno cui polemicamente si riferisce il titolo del Meeting è un altro: la vita, secondo quest’altra visione, sarebbe qualcosa di lieve, di inconsistente, di leggero, in definitiva qualcosa che alla fine si rivela nella sua inconsistenza ed illusorietà. Questa visione la si trova espressa grandiosamente in alcune celebri opere di Shakespeare, che fa dire ad esempio a Macbeth che la vita è come un racconto sconnesso sulle labbra di un idiota; in definitiva la vita è uno scherzo, qualcosa da non prendere troppo sul serio. Esaminando quel grande secolo che fu il ‘600 troviamo continuamente il ricorso al sogno, al reciproco e ambiguio rapporto fra sogno e veglia: si pensi anche all’importanza del sogno in quello che è il padre del razionalismo moderno, Descartes, i cui esempi decisivi nelle Meditazioni Metafisiche sono un continuo ricorso al motivo del sogno e della difficoltà di distinguere il sogno dalla veglia.

Dopo questo preambolo, intendo esaminare il peso che hanno avuto i sogni nel nostro secolo, in questo secolo terribile che sta per finire e a proposito del quale tutti si affannano a stendere dei bilanci che molto spesso finiscono per rivelarsi come cataloghi o elenchi di orrori e di atrocità. Il titolo di questo nostro incontro è "Il sogno incanta, l’ideale incarna": io cercherò di dimostrare i primo luogo che non è detto che il sogno sempre debba necessariamente incantare e in secondo luogo che non è detto che tutti gli ideali incarnino o si incarnino, presentando una maggiore diffidenza nei confronti degli ideali - diffidenza di cui peraltro mi scuso e che cercherò di spiegare -, che si nutrono tra l’altro abbondantemente di sogni.

Il sogno nel ‘900 è stato un campo di esplorazione, come tutti sanno, molto frequentato. Il primo riferimento inevitabile che si fa è alla grande opera che coincide con l’inizio del secolo, finita di scrivere e pubblicata nel 1901, la Traumdeutung, L’interpretazione dei sogni di Freud. Freud ha in qust’opera indicato il sogno come la manifestazione cifrata e la ricerca inconscia di soddisfazione di un desiderio, soddisfazione che in qualche modo implica una confusione, una momentanea perdita del senso della realtà. Quindi è una soddisfazione che non si realizza veramente, semplicemente fornisce dei segni in forma cifrata che si tratta di decifrare. In Freud dunque il sogno affonda le sue radici nell’inconscio: ma non è stato questo il solo modo con cui la tematica del sogno è stata affrontata nel nostro secolo. Non posso qui fare riferimento all’influenza esercitata dalla psicoanalisi freudiana nella prima metà del ‘900, basti pensare alla rilevanza con cui i motivi del sogno, dell’immaginazione, e dell’immaginario sono stati rielaborati dai movimenti artistici d’avanguardia della prima metà del secolo, soprattutto dal surrealismo.

È invece più aderente alla tematica che ci siamo imposti, e al motivo del sogno non ancora conscio, l’opera di Ernst Bloch Il principio speranza, nella quale la preferenza viene data, rispetto al sogno come manifestazione dell’inconscio o meglio di ciò che è stato rimosso dell’inconscio, al sogno ad occhi aperti. Bloch è forse l’autore del nostro secolo che si è mostrato maggiormente benigno e favorevole alla funzione liberatoria del sogno; per Bloch il sogno indica un senso di mancanza, è una sorta di cavità vuota che deve venir riempita e che è animata dall’impulso dell’andar oltre. Nel sogno comincia a esprimersi quella speranza di cui Bloch ha voluto in qualche modo essere quasi il teologo. Bloch guarda al sogno come alla manifestazione aurorale della coscienza anticipata, la quale non si appaga della mera realtà così come essa immediatamente ci si mostra, ma tende ad andare oltre; la realtà data così come ci si mostra nell’oscurità dell’attimo presente è sempre in qualche modo protesa in avanti, animata da una speranza, animata nel profondo da una pulsione utopica, che è la pulsione che deve tendere a ciò che ancora non è ma che si avverte come qualcosa che dovrà essere, quindi una tensione verso un adempimento. Nel sogno c’è l’impulso di liberarsi da una condizione di disagio e di pervenire a uno stato in cui si stia meglio. Successivamente il sogno, sviluppandosi nelle utopie religiose, sociali, architettoniche, artistiche in generale, si trasforma in una sorta di energia tesa in avanti quasi nella convinzione che il primo giorno debba ancora venire, che si sia ancora in uno stato di latenza che richiede il proprio realizzarsi. Quindi Bloch fondamentalmente si rivela in ogni caso favorevole al sogno: chi sogna esige un mondo migliore, il sogno è qualcosa che tende in avanti, che tende oltre.

La storia tragica del nostro secolo ci dimostra però che le cose sono più complesse; si è detto varie volte che Bloch in qualche modo si può intendere come un contraltare di Heidegger: là dove in Heidegger prevale l’angoscia, a questa Bloch sostituirebbe la speranza, e il sogno sarebbe la prima manifestazione ancora aurorale di questa speranza, di questa tensione in avanti. Può esserci consenso universale nel concepire il sogno come un desiderio che tende alla propria realizzazione: ma il sogno ha in sé anche tendenze di carattere regressivo e soprattutto i sogni collettivi della nostra epoca hanno subito fin troppo spesso deviazioni. I sogni infatti sono la delicata materia su cui sono abbondantemente intervenute le ideologie del nostro secolo, che li hanno deformati in partenza, alimentandoli nella speranza di prospettive future che avrebbero garantito comunque la risoluzione di tutti i possibili conflitti. Quanto più si viveva nell’insicurezza tanto più era alimentata la tensione ad un aldilà nel tempo in cui tutti questi drammi e queste crisi dell’epoca presente fossero in qualche modo magicamente risolti.

Le ideologie hanno dunque posto i sogni alimentandoli o coltivandoli nel proprio stesso seno, perché anche il potere ha sognato; i progetti - contrapposti fra di loro - di dominazione mondiale degli anni Trenta i quali consideravano le masse, le moltitudini umane e i continenti come mera materia manipolabile ai fini di obiettivi che venivano molto spesso presentati come ideali dotati di valore universalistico, hanno fatto ampio uso di questo delicato materiale. Alle masse di sognatori che venivano attratti da promesse eccessive basate su aspettative continuamente alimentate, sono stati così giocati brutti scherzi. I cosiddetti totalitarismi - "cosiddetti" perché il concetto di totalitarismo non mi piace, bisognerà giungere a una definizione che sia più aderente, anche perché sono convinto che la distinzione tra regimi totalitari e regimi in qualche modo liberali pur essendo netta e reale è comunque sempre sottoposta al pericolo che i regimi che si presentano come liberal-democratici degenerino -, le ideologie del nostro secolo si sono poste come cosmi ideologici ciascuno escludente gli altri: uno dei connotati di queste ideologie è propriamente il fatto che ognuna si è costituita e affermata in contrapposizione all’altra, presentandosi come programma di salvezza, identificando la politica con l’ideologia a tal punto da perdere anche la specificità della politica. Oggi più nessuno sa che cosa è la politica, perché la politica dalle ideologie è stata sovraccaricata di aspettative e di promesse: ci si aspettava da essa quello che era stato in precedenza promesso dalle religioni. Del Noce indicava in questo il più pericoloso effetto del processo di secolarizzazione.

Per quanto riguarda invece la questione degli ideali, se il nostro secolo può indurci in questo momento a una maggiore cautela, a un maggiore senso di responsabilità, a un certo grado di disincanto, non è detto che il disincanto debba essere sempre cinismo: come dicevo, è meglio nutrire una certa diffidenza anche per gli ideali, i quali si nutrono di sogni.

Quali significati può avere il termine ideale? In primo luogo, l’ideale può comportare una sorta di idealizzazione della realtà in quanto tale, intesa come abbellimento, specioso abbellimento; ciò che forse non è da intendere completamente come del tutto gradevole viene reso più gradevole. In questo caso l’ideale diventa una sorta di occhiali deformanti rosa che impediscono di vedere la realtà per quello che è: i riferimenti che si potrebbero fare allo smascheramento di questi falsi ideali, a partire dallo scorso secolo, sarebbero infiniti, faccio un solo riferimento letterario, L’anitra selvatica di Ibsen, nella quale c’è un personaggio che ce l’ha a morte con gli idealisti, in particolare con Gregorio Werle, il protagonista del dramma, un idealista ad oltranza, perché chi si acceca davanti a ciò su cui proietta i propri desideri senza fare i conti con la durezza della realtà in quanto tale provoca disastri. In questo senso l’ideale, come ha rivelato Feud, si pone all’insegna del super io.

Se questo primo modo di presentare l’ideale ha un carattere necessariamente oppiaceo, c’è in secondo luogo un modo di intendere l’ideale nella sua assoluta purezza: l’ideale privo di ogni compromesso con la realtà, l’ideale che si pone al di sopra della realtà, l’ideale che addirittura ignora la realtà o l’ideale affermato come meta ideale proiettata all’infinito. I riferimenti primi che si potrebbero fare per esemplificare questa accezione sono a Fichte e al romanticismo tedesco: l’ideale finisce per essere una molla che spinge avanti ad infinitum. L’ideale risorge continuamente e non si realizza mai o, addirittura, l’ideale si disinteressa del reale o lo considera come qualche cosa di contaminatorio. Qui penso possa essere opportuno un suggestivo richiamo letterario: il motivo delle due Elene, che emerge in Euripide e che poi verrà ripreso da Hofmmansthal in un libretto d’opera che egli pensava dovesse venir musicato da Strauss ma che non lo fu.

Menelao, di ritorno da Ilio, avendo fatta prigioniera Elena e tenendola sulla nave approda all’isola di Faro - che allora apparteneva all’Egitto - e scendendo alle porte di un palazzo incontra un’altra Elena, un’Elena meno bella della prima. Questa Elena gli rivela di essere protrettrice del matrimonio e di avere dato vita a un simulacro, una falsa Elena che poi è la Elena di Ilio: è questa che si è sposata con Paride, è questa che è diventata principessa a Ilio, mentre la Elena egiziaca è rimasta fedele a Menelao e separata, senza nessun rapporto con la guerra di Troia, fedele, a differenza dell’infedele Elena di Ilio. Menelao non ne vuol sapere dell’Elena egiziaca, non le crede, anche perché ha lasciato sulla nave la Elena di Ilio. Questo perché preferisce il fantasma, trova più vero il fantasma della Elena reale, il fantasma che ha abitato il sogno di due popoli in guerra per dieci anni, gli sembra più reale della realtà di Elena; solo quando gli rivelano che sulla nave a un certo punto il fantasma di Elena si è dissolto in aria e fuoco, Menelao deve prendere atto che la vera Elena è la Elena egiziaca, ma lo fa un po’ a denti stretti e ha l’impressione quasi di un depauperamento, di una perdita. L’ideale può attrarre a tal punto che rispetto ad esso la realtà è una copia scolorita.

Nell’esperienza ad esemio degli ideali politici, c’è il fatto sorprendente che essi - finiti nel più totale sfacelo, dimostrandosi alla prova dei fatti come chimerici e ingannevoli - lasciano sempre dietro di sé lunghe scie di persone che in qualche modo rifiutano la realtà, che manifestano una nobile ostinazione, cui rimangono attaccati disperatamente, anche per la paura del vuoto che subentrerebbe all’ideale caduto. L’ideale può essere preso sul serio solo se è in grado di mediarsi con la realtà, il che implica che deve cessare questa sorta di idolatria che spinge a considerare l’alto come qualche cosa di purificante e di preferibile rispetto al basso. Conta il movimento non dal basso all’alto ma dall’alto al basso: l’ideale deve mediarsi con la realtà, deve in qualche modo sporcarsi le mani con la realtà, deve anche abituarsi al fatto che la meta che si prefigge può rivelarsi anche non raggiungibile e saper correggere anche il proprio cammino.

Non vale nulla l’andante che sentivo quando ero ragazzo "È bene che le persone abbiano le loro idealità, ognuno deve avere il suo ideale". Non significa niente perché non tutti gli ideali si pongono sullo stesso piano. Uno può proporsi come ideale una società in cui ci sia la piena felicità sessuale, cosa indubbiamente degna di considerazione, ma se posta come bene supremo è per lo meno un po’ sospetta. Uno può proporsi l’ideale di una società priva di conflitti, ma bisogna esaminare se ciò sia possibile: certamente è un ideale più alto - esiste una gerarchia tra gli ideali -, anche perché capace di includere i beni minori. Una società retta secondo giustizia può certamente essere un nobile ideale, ma vale anche il detto summum ius summa iniuria: anche la giustizia può pervertirsi, deve essere riconosciuto forse qualche cosa di più alto rispetto alla giustizia, la giustizia può rendersi rigida e spietata, la giustizia può formalizzarsi, la giustizia può anche essere ciò che è garantito sul piano semplicemente delle nuvole.

Userei dunque una certa cautela anche nel parlare di ideali. Forse gli amici del Meeting intendevano l’incarnazione dell’ideale nel senso che l’ideale non è una costruzione fittizia né meramente qualcosa di concettuale, ma è quell’ispirazione profonda che regola la condotta morale dei singoli: è quello che fa sì che se uno crede veramente fa ciò che fa e sente di doverlo fare non solamente con la ragione o con l’intelletto ma in qualche modo con la totalità del suo essere vivente.

Gonzales: Non sono un filosofo, sono uno storico: lo storico è anzitutto colui che cerca - dalla parola greca eurisko - senza censurare niente. Il vero storico è colui che ha un’apertura totale alla realtà dei fatti e che cerca di cogliere il cuore di questi fatti non imponendo mai la propria ideologia. Faccio questa premessa perché il mio intervento vorrà semplicemente, attraverso alcuni momenti della storia, individuare alcune persone che hanno vissuto con passione il dramma della storia.

Il vero protagonista della storia è il mendicante, "Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo", disse don Giussani di fronte al Papa nell’affollatissima piazza san Pietro il 30 maggio scorso. Cristo mendicante del cuore dell’uomo, ma il cuore dell’uomo per struttura e per natura mendicante dell’infinito e della pienezza: mendicante significa una esigenza del proprio cuore, della propria struttura ontologica.

Se è vero che in ogni tempo della storia si può verificare la limitatezza dell’uomo e quindi anche la tentazione di oscurare o di ridurre l’io umano, questa emerge con forza e accenti caratteristici soprattutto in alcune epoche della storia, quelle che gli storici chiamano "i grandi trascorsi epocali" che coincidono con delle crisi fondamentali della persona stessa, durante le quali vediamo più facilmente la miseria in cui l’uomo si dissolve.

Per il mestiere che faccio come storico della Chiesa, e per il lavoro specifico che faccio come menbro della Commissione storica della congregazione dei santi - quella congregazione e quel dicastero romano che porta avanti i processi di canonizzazione -, negli ultimi tredici anni di questa mia attività sono passati attraverso le mie mani migliaia di documenti riguardanti l’esperienza umana di tanti cristiani e di tante cristiane che hanno vissuto con passione il dramma della storia, il dramma del tempo, il dramma del proprio io. Quasi sempre mi colpisce molto di più l’intensità della passione di queste singole persone che non l’aspetto morale della loro vicenda, nel senso delle virtù tipiche della santità. Infatti dalla miseria, dalla solitudine fondamentale in cui spesso l’uomo si trova, Cristo ci riscatta ed è sempre Cristo in cui la persona smarrita trova lo spiraglio per la speranza e il desiderio di una pienezza. In questo senso alla fine di ogni processo uno vede come questi personaggi lasciatisi afferrare da questa passione diventino anche loro un segno efficace - come direbbero gli evangelisti - di una umanità che cresce in loro. Così, anche senza uno speciale proposito, diventano costruttori di storia, costruttori di un popolo che cammina nella storia.

Voglio farvi qualche esempio: sono appena rientrato dal Messico pochi giorni fa, e mi ha colpito un fatto, avvicinandomi alla storia del Messico, che infatti gli storici europei non percepiscono, e che non ho trovato normalmente in nessuno scritto dei nostri manuali di storia. È un fatto che bisogna ancora scoprire: cosa ha rappresentato nel 1500 l’arrivo del mondo europeo tramite gli spagnoli? Cosa ha significato per il mondo culturale americano immensamente ricco di espressività l’incontro-scontro con un altro mondo? Si è innescato un dramma tremendo in quell’incontro-scontro, che avverrà soprattutto nel Messico e nel Perù. Che drammi sono venuti a galla in questo incontro-scontro? Ho voluto personalmente, insieme a altri colleghi e amici, andare a fondo di queste domande attraverso la lettura da una parte dei codici aztechi contemporanei a questi fatti, dall’altra parte degli scritti dei conquistadores, dei soldati, dei primi missionari che arrivano.

Cortez - il più grande dei conquistadores, paragonabile a Napoleone come intelligenza strategica e come capacità militare - percepisce subito questo dramma e scrive a Carlo V di non ingannarsi, che non si tratta di un mondo inferiore culturalmente, che le loro città non hanno paragoni con nessuna città europea, come sviluppo, come mentalità, come organizzazione politica. Di fronte a questo dramma era emersa subito una domanda, evidente in alcuni casi particolari di missionari: nel 1521 avviene la conquista di Città del Messico e la sua distruzione in una guerra terribile intraindiana. Diversi componenti di medesima questa cultura lottano tra loro, una parte aiuta gli spagnoli, ma è anche una guerra all’interno degli stessi spagnoli, è un dramma tremendo. La domanda che emerge immediatamente in alcuni di questi missionari, nei primi dodici francescani che approdano alla Città del Messico nel 1524 è molto semplice: chi sono io? che senso ha la mia vita? è possibile trovare un punto in cui ciò che sono io e ciò che è la persona che ho davanti ci incontriamo e costruiamo un incontro di storia? dov’è il punto di partenza di tutto questo?

Questa sarà la domanda che emergerà in tutti i catechismi: nel catechismo per far imparare agli indios la dottrina cristiana, la prima domanda non è sulla Trinità, ma è "Tu chi sei?". La risposta: "Io sono uomo"; seconda domanda: "Cosa vuol dire che tu sei uomo?" "Vuol dire che io sono stato creato con un destino eterno per godere"; terza domanda: "E allora Dio come ti ha creato?" "Dio mi ha creato libero". Queste domande vanno al cuore del problema umano, perché immediatamente viene focalizzato il senso della vita. Sarà uno dei grandi missionari, Francisco de Victoria, professore a Salamanca, che, pur non andando mai in America, teorizza e mette per iscritto questi desideri, nella sua Relatio de indiis, un’opera pubblicata post mortem. Il manoscritto originale comincia con questo assioma fondamentale: "L’uomo nasce in ragione di se stesso e non in ragione di nessun altro, per cui l’uomo dal momento del suo concepimento è una persona, è una persona libera".

È a partire da questa esperienza sentita profondamente dai primi protagonisti, che nascerà e si svilupperà veramente un dramma, un dramma prima di tutto in loro stessi. Il voler conoscere il mondo di fronte al quale stavano non era facile, perché non avevano nessuno strumento immediatamente disponibile per entrare in contatto con esso: lo strumento più elementare era quello di imparare la lingua. Padre Bernardino da Savon, forse il più grande missionario per la sua passione antropologica verso la realtà culturale che aveva davanti, ci racconta il metodo con cui sono arrivati a stabilire un rapporto con queste persone: quando sentivano una parola dei bambini del luogo portavano un pezzo di carta e un calamaio, e scrivevano la parola che sentivano. Alla sera ricomponevano una specie di vocabolario attraverso la corrispondenza delle parole con il momento in cui erano pronunciate e il significato di esse. Un po’ alla volta hanno imparato queste linque e hanno instaurato un rapporto. È un piccolo accenno per descrivere la pazienza, l’osservazione della realtà, l’apertura ad essa in tutte le dimensioni che guidava queste persone.

Cosa ha colpito da parte loro gli indios per interessarsi a questa realtà, a questi frati che sono diventati come un segno di qualcosa di diverso? Ci racconta uno dei soldati di Cortez, per esempio, che una cosa che colpì tantissimo gli indios fu stato proprio l’arrivo dei primi dodici frati francescani. A un certo momento Cortez con i suoi cavalieri va incontro a questi indios, e quando li incontrano scendono da cavallo, Cortez si mette per terra e bacia i piedi a questi frati, Questo ha sconvolto i principi indios perché era una cosa per loro inconcepibile, e hanno chiesto il motivo per cui questi cavalieri così superbi, così ardui, così duri, compivano quel gesto di fronte a quegli uomini così puzzolenti, sudati, scalzi.

Tutto questo ci fa vedere un’apertura del cuore e della mente da entrambe le parti. È vero che dopo sono successi degli avvenimenti che si sono inseriti in questa storia drammatica e che sono stati come un ponte di aggancio fra questi due mondi. Uno dei temi su cui io sto in questo momento facendo delle speciali ricerche riguarda uno di questi protagonisti, un principe indio, l’ultimo figlio di un grande re. Recentemente, un mese fa, in un vecchio sperduto archivio nel cuore del Messico, ho trovato un documento totalmente inedito, il testamento di suo fratello maggiore: pensate la mia emozione quando ho trovato questo documento, il testamento di quello che avrebbe dovuto essere il re di Textoco deposto dal noto Montezuma, che più tardi diventerà uno degli aiutanti principali di Cortez mettendo a sua disposizione un esercito di più di 100000 uomini. Questo fratello minore sarà certamente stato l’aggancio più significativo fra questi due mondi, un aggancio che in generale la storiografia, da una parte e dall’altra ha messo un po’ in ombra nei tempi passati. Questo uomo chiede al vescovo, per mandato della Madonna, di costruire una dimora per tutti, indios e spagnoli su una collina, un tempo luogo di sacrifici umani aztechi. Con una drammaticità tremenda, scrive: come posso io vivere questa vita terrena circondata di tutto se la mia vita non ha più uno scopo, non ha più un senso? Il medesimo desiderio sarà poi ripreso da un discendete di questo principe, quello Juan Diego che farà costruire una casa per la Madonna di Guadalupe.

Faccio un brevissimo accenno a un altro personaggio della stessa epoca, personaggio che mi appassiona sempre di più, Ignazio di Loyola. Nella sua biografia emerge costantemente la stessa domanda dei già citati catechismi: chi sono io, che senso ha la mia vita, che senso ha la mia carriera, il cursus honorum, la carriera di cavaliere, che senso ha tutto, che senso ha la malattia, la tragedia, tutte le cose che vivo? Questa è stata veramente la domanda fondamentale che ha travolto tutta la sua vita, ed è stata peraltro la stessa domanda che si faceva un contemporaneo di Ignazio, Martin Lutero. È la stessa domanda, ma le strade e le risposte saranno assai diverse. L’esperienza di Ignazio avviene precisamente in un momento particolarmente cruciale e duro della storia sociale europea, e della storia della Chiesa. Nel momento in cui si pone questa domanda, un concilio ecumenico è fallito (il Lateranense V), i tentativi di riforma della vita della Chiesa sono andati tutti a vuoto, scoppia la crisi protestante, cresce ormai un mondo totalmente sommerso in quello che si definisce fenomeno della modernità.

Eppure questo uomo prende sul serio la sua vita, e prendendo sul serio la propria vita riesce a trasmettere questa esperienza a chi ha vicino, ai suoi amici. È capace di trasmettere la sua passione a persone come Francesco Saverio, Pierre Favre, Simon Rodriguez, i suoi primi compagni. Come riesce a trasmettere la passione dell’uomo per il proprio io a questi amici? Attraverso uno sguardo di amicizia, dove ognuno di essi ritrova se stesso, ritrova che le domande che Ignazio pone, le pone per affetto, per amore, per la passione che ha per l’io di queste persone. Dentro questa compagnia, col senso della compagnia di Gesù è nata l’esperienza dei gesuiti. Ignazio dice che il metodo per trasmettere la passione che uno ha è l’amore appassionato per il destino di chi si ha davanti; scrive che è stato attraverso questa amicizia che loro insieme ed ognuno in particolare, hanno potuto un po’ alla volta scoprire il dramma della vita umana, il proprio destino, il senso della loro vita, "conversando in perfetto amore e amicizia". È il metodo di un incontro e di un’amicizia che aiuta gli altri a scoprire il senso della propria vita.

L’ultima esperienza cui accenno si riferisce al secolo scorso: dopo l’illuminismo, la Rivoluzione francese, lo scombussolamento di un mondo, di fronte a una catena di drammi, ci sono stati i filosofi che hanno scritto ed hanno analizzato. Di questo mi ha colpito una cosa: la quantità di donne che invece di fronte a questo dramma ha guardato, il dramma è stato come uno specchio nel quale si sono anche loro viste, e hanno abbracciato quella realtà, coinvolgendo la propria esperienza, un ideale che diventa carne nella concretezza, a dare una risposta ai bisogni concreti delle persone. Penso per esempio a una donna irlandese - l’Irlanda era sommersa dalle leggi più ingiuste che si possano immaginare, le famose penal laws, che prescrivevano ad esempio che i cattolici non potevano possedere neanche una gallina - che ha capito che bisognava recuperare la coscienza di un popolo, e per questo ha cominciato il sistema delle scuole. I cattolici non potevano insegnare, non avevano diritto all’insegnamento, non potevano andare alla scuola primaria: lei in tutta risposta ha cominciato a fare le scuole con le sue amiche sotto le piante, nelle campagne, dove la polizia non poteva andare a prenderle. Quell’interesse per un bisogno concreto ha scatenato una storia che ha aiutato il popolo irlandese a recuperare la propria coscienza.

Un altro esempio di donna viene dalla Catalogna: la Catalogna comincia a industrializzarsi alla fine del secolo scorso, con i problemi sociali immensi che questo comporta. Questa donna, lavoratrice in un fabbrica, sposata a 21 anni, rimasta vedova a 30, con sette figli, non si mette a lamentarsi, capisce che bisogna andare alla radice del problema. Si iscrive alla scuola primaria e impara a leggere e scrivere, poi frequenta il liceo, l’università e diventa medico, una delle protagoniste della lotta cristiana in favore della dignità della donna.

Ho voluto semplicemente illustrare con questi esempi la vicenda dei santi nella storia: in questi processi di canonizzazione rimango colpito da tre fattori. In primo luogo dalla loro passione per la realtà concreta, senza preclusioni, senza rinnegare nulla, lontani da ogni illusione e sogno, perché hanno un grande senso della realtà e del proprio limite. In secondo luogo, dalla densità con cui queste persone vivono l’istante, la circostanza dalla quale non fuggono, ma che è invece per loro luogo di una presenza che si impone, che è al di fuori; in terzo luogo, questo impatto con il reale è una cosa data, un dono che non faccio io. Il dono di un altro è all’origine dell’umana coscienza e della passione perché anche gli altri siano aperti a questa consapevolezza e a questa coscienza. Questa conoscenza, attraverso la totale apertura al reale, è una nuova coscienza di sé che porta sempre a sottomettere la ragione all’esperienza.