Un lavoro per tutti: chi se ne occupa?
In collaborazione con Unioncamere
Mercoledì 21, ore 18.30
Relatori: delle Cooperative Moderatore:
Luigi Mastrobuono, Sergio D’Antoni, Marco Martini,
Segretario Generale dell’Unione Segretario generale della CISL Ordinario di Statistica Economica
delle Camere di Commercio Giorgio Vittadini, presso l’Università Statale di Milano
Ivano Barberini, Presidente della Compagnia
Presidente della Lega delle Opere
Mastrobuono
: L’Unione delle Camere di Commercio è fortemente interessata al tema dell’occupazione e del commercio, essendo le Camere soggetti presenti in tutto il territorio, riformati da una legge recentissima che le ha poste al centro dello sviluppo economico territoriale. Nella Camera di Commercio infatti le forze economiche del territorio – imprenditori, lavoratori, banche e assicurazioni... – hanno la possibilità di strutturare dei progetti a favore dello sviluppo dell’economia territoriale. Se dunque il problema centrale oggi è quello dell’occupazione e del lavoro le Camere di Commercio non possono non occuparsene. Abbiamo fatto delle esperienze, in questi anni, soprattutto sulle funzioni di promozione di nuove imprese e sulla formazione: riusciamo a spendere – cosa in realtà piuttosto rara – tutti i soldi che la Comunità Europea stanzia per la formazione degli imprenditori e degli addetti; inoltre, ci sono state affidate funzioni di regolazione del mercato, come quella dei consumatori.Due temi molto attuali sono collegati alla nostra funzione. Il primo è quello del ridisegno dello Stato: tutte le iniziative e le proposte sul decentramento e sul possibile federalismo sono ormai state presentate dal governo. Noi riteniamo che se soltanto si arrivasse ad una gerarchia territoriale tra regioni, province e comuni, molti dei problemi che oggi trattiamo troverebbero soluzione.
Il secondo tema è quello dell’occupazione: noi riteniamo che le Camere di Commercio abbiano oggi una serie di strumenti che possono essere perfezionati e potenziati per rendere attuale sul territorio quel meccanismo chiamato concertazione. Noi infatti registriamo fedelmente nel registro delle imprese tutto quello che avviene nei quattro milioni e mezzo di imprese italiane: gli osservatori sul mercato del lavoro – che abbinano la domanda e l’offerta – gli osservatori sul fisco, gli osservatori sui prezzi e sulle tariffe locali... strumenti che possono consentire una verifica concreta particolare e territoriale degli accordi che vengono presi, che vanno sotto il nome appunto di concertazione e che riguardano i punti di riferimento dell’economia.
Il nostro obiettivo è di offrire a un numero sempre maggiore di soggetti le potenzialità della Camera di Commercio, strumento ormai fiscalmente autonomo, che non prende contributi dallo Stato ma che è finanziato interamente dalle imprese stesse che vi sono iscritte. Quindi siamo molto interessati a capire la fase economica che stiamo vivendo, ad essere presenti e ad offrire quello che abbiamo già e a rafforzarlo, affinché gli obiettivi di politica economica che si pongono le forze sociali, territoriali, e di governo, possano essere raggiunti e verificati sul concreto.
Martini: Vorrei introdurre il dibattito proponendo alcune questioni.
Anzitutto, il lavoro di oggi non è il lavoro di ieri: accanto all’immagine tradizionale del lavoro, cioè l’occupazione di un posto in una organizzazione burocratica, in una divisione "fordista", sta emergendo anche quantitativamente un altro modo di lavorare. Il problema però è che quando si parla di sviluppo delle condizioni di lavoro o di tutela dei lavoratori si fa riferimento – nelle leggi, nel diritto del lavoro, nell’assetto previdenziale, nelle istituzioni, nel collocamento, nella formazione... – a quella forma di lavoro che siamo stati abituati a conoscere nella realtà e anche sui libri, ma che è oggi profondamente in crisi. Negli ultimi dieci anni le forme di lavoro a tempo pieno, indeterminato e dipendente, cioè quello che viene considerato il lavoro per eccellenza, sono radicalmente diminuite, mentre l’altra forma di lavoro, che prima rappresentava il 30-35% e che molti economisti consideravano marginale, rappresenta ormai il 50% dell’occupazione attuale.
Qual è la differenza sostanziale tra il lavoro di tipo A e quello di tipo B? Il lavoro di tipo A – quello cioè che consiste nell’occupare un posto in una organizzazione burocratica – si fonda sul principio che l’organizzazione possa essere concepita prevedendo come andrà la domanda, come andrà la tecnologia e che cosa si dovrà produrre in un futuro relativamente lungo. Tutto il ’900 è stato caratterizzato da questa idea: che un posto di lavoro durasse circa 40 anni, ovvero il tempo della vita lavorativa di un individuo, perciò la tutela del lavoro non poteva che consistere nel difendere quel posto per gli anni che corrispondevano alla vita lavorativa. La vita delle persone poteva così essere suddivisa in 3 fasi: i primi 20 anni circa per prepararsi al posto, poi l’occupazione e la tutela di quel posto e infine la meritata pensione. Ma dagli anni ’60 fino ad oggi il tempo medio di diffusione dell’innovazione è passato da 40 a 5 anni: di conseguenza la durata media di un posto di lavoro è diventata di 5 anni, e quindi ci possono essere fino a otto cambiamenti radicali nella vita lavorativa di un individuo. Ad esempio, un informatico che esce dalla scuola superiore o dall’Università può lavorare un anno come dipendente, poi costruire una piccola società con i suoi tre amici, poi ritornare a svolgere un lavoro part-time, e poi dopo due anni ritornare all’impresa precedente con una forma di consulenza... Il suo lavoro non si estrinseca più nell’occupare un posto, ma si configura come un percorso tra diverse occasioni che non sono prevedibili all’inizio.
C’è dunque qualcosa di profondo da cambiare: la mentalità con cui noi concepiamo le organizzazioni imprenditoriali e lavorative, e specialmente del modo con cui si pensa di sviluppare e di tutelare il lavoro.
I settori su cui ci si deve soffermare sono più di uno: innanzitutto, come si crea nuovo lavoro? Quali sono gli spazi, le forme e le condizioni per creare nuovo lavoro? In secondo luogo: come si tutela un lavoro che non è più occupare un posto, quindi la cui difesa non può più coincidere con la semplice difesa di un posto? Come si tutela un percorso, con quali strumenti di tipo informativo – se un lavoratore non ha le informazioni, non può affrontare il cambiamento – e formativo – la formazione non può fermarsi ai primi 20 anni, ma è qualcosa che deve accompagnare il lavoratore per tutta la sua vita -? Per rispondere a tutto questo, ci vuole una innovatività – che non ci si può certo aspettare dalla burocrazia! – pari a quella che all’inizio del ’900 ha suggerito alle cooperative e ai sindacati di inventare il mutuo, la pensione, la formazione professionale... Bisogna inventare: nel campo assicurativo affinché l’assicurazione non sia solo la tutela della vecchiaia o della malattia, ma anche dei periodi di disoccupazione; nel campo del lavoro per trovare forme nuove di contratto, in particolare di lavoro professionale, un lavoro che si rivolga a più imprese, o di lavoro interinale, una forma di mediazione tra il singolo lavoratore e il mercato.
Barberini: Il problema dell’occupazione – importante e drammatico – è nella sua estrema complessità al centro delle preoccupazioni non solo italiane, ma europee. Dobbiamo vedere quindi quali sono non solo le opportunità ma anche i rischi che l’occupazione corre.
La globalizzazione di cui spesso si parla è destinata a produrre effetti sempre più consistenti in termini di competitività: questo comporta molti rischi per le imprese, ma anche qualche opportunità. Ci sono poi delle opportunità che vengono, in una società come quella italiana, dalla mancanza di servizi alla persona: è necessaria sempre più l’assistenza alle persone, data la situazione di progressivo invecchiamento; sono sempre più indispensabili servizi di cultura e di turismo; è infine urgente la tutela dell’ambiente. Questi sono sicuramente campi suscettibili di opportunità di occupazione.
Lo scenario economico di oggi è fatto da molte contraddizioni che vanno non tanto risolte o previste, quanto gestite: bisogna gestire il bilanciamento tra socialità ed economia, tra il bisogno di attivare la domanda e il contenimento dell’inflazione, tra il bisogno di migliorare la produttività del sistema economico e lo sviluppo dell’occupazione... In questa gestione entra il modo in cui le organizzazioni economiche possono pensare di affrontare i grandi nodi della nostra realtà, quali l’occupazione, la tutela dell’ambiente, la salute: affrontare questi problemi nel mercato e con il mercato significa far nascere delle imprese e nel contempo trasformare sempre più in soluzioni organizzative a livello di impresa le spinte spontanee, provenienti ad esempio dal mondo del non-profit. Fare impresa è il modo migliore per rispondere al bisogno di offrire migliori servizi e di dare spazi nuovi all’occupazione.
In questo quadro di opportunità c’è uno spazio significativo per imprenditorialità che nascono dal desiderio di conciliare economia e socialità, quali il settore non-profit e l’imprenditorialità cooperativa. Fare solidarietà nel mercato, tradurre lo spirito solidaristico in azione economica: questa è la risposta che può produrre nel modo migliore le risorse sul piano dell’occupazione. C’è una modernità del fare impresa nell’esperienza cooperativa che deriva dalla riflessione più recente che si compie oggi nel mondo imprenditoriale. Concetti estremamente attuali quali rete di imprese, decentramento delle imprese, responsabilizzazione all’interno della singola impresa, coincidono con la logica lungamente maturata nell’esperienza cooperativa. E c’è anche un altro elemento: la base per creare occupazione, soprattutto in modo duraturo e stabile, è quella di sviluppare la conoscenza attraverso la formazione.
Nelle priorità assunte dalla Lega Nazionale delle Cooperative c’è non solo il far nascere ma anche il promuovere e far crescere nuove imprese. Il salto infatti è notevole: far nascere un’impresa significa reperire risorse finanziarie e trovare persone disponibili a correre un rischio; farla crescere e prosperare significa creare competenze e conoscenze, ed è molto più complicato ma anche molto più importante. Far nascere delle imprese, magari dove la domanda è scarsa, e poi lasciarle morire senza curarle fino a farle crescere e prosperare significa accentuare ulteriormente la delusione della disoccupazione. Per questo la scelta che noi intendiamo praticare è proprio quella di puntare a far crescere le imprese, a dare una risposta a tutte le opportunità, provando ad inventare i mestieri e i settori, partendo proprio dalla versatilità che l’impresa cooperativa ha manifestato in tutti i settori.
L’impresa cooperativa e quindi il mondo del non-profit, sono di fronte a una grande sfida e hanno bisogno di una nuova legislazione che ne consenta le potenzialità di sviluppo. Si polemizza molto a proposito del trattamento fiscale delle imprese che non hanno divisibilità degli utili. Il punto più adeguato per discuterne è stabilire quali sono le condizioni perché l’impresa cooperativa o l’associazione non-profit siano poste in grado di sviluppare al meglio le proprie potenzialità. La nuova legislazione deve considerare il mercato fatto di due tipi di imprese: quelle non-profit, senza finalità speculative private, e quelle profit. Non si può vedere nelle imprese non-profit un ruolo interstiziale, di completamento, come se le imprese capitalistiche debbano fare le cose serie, mentre quelle non-profit debbano limitarsi a fare quel tanto che serve per far funzionare bene il mercato.
D’Antoni: I cambiamenti che abbiamo davanti sono senza precedenti, e si caratterizzano per due fattori: la velocità nel cambiamento delle tecnologie e la cosiddetta globalizzazione, ovvero il fatto che l’internazionalizzazione delle economie è tale per cui tutti competono con tutti, senza limiti e senza tutele.
Questi due fattori presentano dei rischi e delle opportunità: il rischio che aumentino gli esclusi, poiché la competizione e la velocità portano necessariamente ad espellere manodopera, ma nel contempo l’opportunità per miliardi di persone che non hanno conosciuto lo sviluppo ed il benessere, di partecipare realmente allo sviluppo economico. Il problema è che tutto questo non sarà più come fino ad oggi oggi lo abbiamo conosciuto: infatti uno degli errori maggiori che i governi stanno facendo è che affrontano questi cambiamenti in chiave nazionale, mentre invece si tratta di problemi internazionali che richiedono delle politiche unificate, non certo la concorrenza sleale tra i paesi o la competizione assoluta priva di regole e di normative.
Ad esempio: tutti gli accordi di commercializzazione dovrebbero contenere la cosiddetta clausola sociale, una clausola con la quale si determinino non tanto le condizioni di vita, di salario, di stato sociale dei lavoratori, quanto le condizioni minimali che possano regolare il commercio e la concorrenza. Ma il vero problema della competizione è il rapporto qualità-costi: se si produce a costi superiori, si devono anche offrire prodotti di qualità superiore, e per fare questo c’è bisogno di innovare il rapporto capitale-lavoro. Occorrono politiche di concertazione e di partecipazione affinché tutti i soggetti possano partecipare alla decisione di obiettivi di politica economica, ed avere comportamenti coerenti con tale politica, affinché in tutti i posti di lavoro l’elemento del rapporto capitale-lavoro possa determinare anche il rapporto nuovo qualità-costi. La concertazione non è un mero scambio come la consociazione, ma è il mettersi d’accordo sugli obiettivi comuni – inflazione, bassi tassi di interesse, più ripresa, più sviluppo, e quindi più lavoro... – e impegnarsi ad avere comportamenti coerenti perché quegli obiettivi vengano raggiunti, mettendo così in moto un circolo virtuoso. L’unica strada che funziona è questa che anticipa e produce i cambiamenti profondi, che determina quindi la condizione vera per affrontare le priorità del lavoro e dell’occupazione e quindi per creare le condizioni nelle quali il circolo virtuoso che noi inseguiamo sia tale da garantire il valore reale delle retribuzioni e delle pensioni e da formare un nuovo patto generazionale e anche un patto formidabile fra chi ha un lavoro e chi invece lo cerca.
A tutto questo bisogna aggiungere delle azioni specifiche, quelle che gli esperti chiamano delle politiche attive del lavoro, che tengano ad esempio conto della disomogeneità della disoccupazione – che non è il 12,3%, come viene detto dalla statistica ufficiale, ma è in certe zone il 3/4%, in altre il 30% -: se vogliamo affrontare seriamente i problemi del lavoro dobbiamo fare politiche attive disuguali per punti di partenza disuguali, non possiamo continuare a fare politiche uguali per punti di partenza disuguali, perché questo non fa che allungare le distanze. La stessa legge Tremonti – la legge di detassazione degli utili reinvestiti –, pur nella sua bontà, essendo una legge universale uguale in tutto il paese e non tenendo conto di tutte le condizioni di partenza dell’occupazione, di fatto spinge all’allungamento delle distanze, perché si continua a investire nelle zone già sviluppate.
Un altro problema che c’è in Italia è il basso numero di laureati (su 100 iscritti alla scuola elementare, solo 7 si laureano, percentuale più bassa della Corea!) e diplomati, e di conseguenza il problema – già citato da Martini – della formazione permanente, sia per gli occupati che per chi è in cerca di occupazione. Una politica attiva per il lavoro implica una politica per il diritto allo studio che sappia trovare delle forme nuove per favorire lo studio di tutti e non soltanto dei figli di chi può permetterselo.
Infine, siccome il mondo del lavoro si evolve, noi dobbiamo determinare le condizioni per far crescere il lavoro e per tutelarlo: quindi il sindacato deve radicalmente mutare la sua collocazione, perché se la sua collocazione è stata finora quella di tutelare il lavoro dipendente o quello a tempo indeterminato, ora deve anche avere la capacità di tutelare e sostenere le esigenze dei nuovi lavori. Per fare questo deve sviluppare la capacità di introdurre criteri, obiettivi, regole su questioni come la previdenza, il fisco, il diritto del lavoro... quest’ultimo ad esempio era stato interamente pensato per il lavoro dipendente a tempo indeterminato, mentre oggi invece dovrebbe estendersi anche ad altre forme di lavoro. La contrattazione e gli accordi sindacali devono avanzare, poi arriveranno le leggi che devono essere di sostegno, perché se le leggi pongono subito regole e condizioni per tutti si creano delle disfunzioni. Avviare una azione comune significa determinare una spinta reciproca per fare in modo che le tutele si allarghino, i diritti si affermino e i doveri siano corrispondenti.
Il tema del creare lavoro nuovo e con regole nuove è una grande sfida: il nostro paese lo può affrontare e risolvere con la fiducia degli ottimisti e senza il pessimismo che non costruisce nulla.
Vittadini: Ha detto don Giussani all’assemblea annuale della Compagnia delle Opere: " ‘Disoccupato’ vuol dire uno che non lavora; nella misura in cui uno non lavora, non capisce più se stesso. Dice San Tommaso d’Aquino che l’uomo capisce se stesso osservandosi nel lavoro, mentre lavora, in opera (...). Per questo vedere un disoccupato non può far star fermo uno che ha la fede".
Il tema della disoccupazione europea e internazionale, come diceva D’Antoni, è stato snobbato in funzione di altri interessi, ed è come se ci si fosse ormai rassegnati ad uno sviluppo senza occupazione, per via sia della recessione che di uno sviluppo che grazie alle nuove tecnologie in tempo breve tende a risparmiare lavoro. Noi non ci rassegniamo a uno sviluppo senza occupazione, perché se lo sviluppo non porta occupazione ci rende sempre più simili a paesi come gli Stati Uniti detti sviluppati ma nei quali il divario tra il ricco e il povero è vertiginoso.
Fatta questa premessa vorrei ora elencare sei esempi che toccano il problema dell’occupazione, per passare poi a qualche osservazione di carattere generale. Si tratta di sei esempi di settori nei quali abbiamo fatto esperienza di poter creare lavoro.
Innanzitutto, la piccola impresa: in Italia, 50 anni fa, è stata compiuta una scelta a favore dell’impresa di Stato nella convinzione che solo la grande industria fa i grandi numeri e quindi crea occupazione. Ma in tutti questi anni la realtà delle piccole imprese si è affermata sempre più, e si tratta ormai di una realtà che ha dei numeri importanti. La piccola impresa è nata dall’invenzione, dalla costruzione e dalla cooperazione, è nata non tanto dal grande capitalista, quanto piuttosto dal lavoratore che si è trasformato in piccolo imprenditore o dal lavoratore che ha creato cooperazione: la storia di queste realtà non è una storia programmata dall’alto ma una storia nata dall’invenzione.
Un secondo esempio è il sud: abbiamo creato imprese a Lamezia Terme, a Foggia, a Catania, e siamo riusciti così a creare lavoro, in primo luogo perché non abbiamo creduto a luoghi comuni sul sud condannato all’immobilità dalla mafia e in secondo luogo perché non ci siamo semplicemente limitati a usare l’intervento statale.
Il terzo esempio sono tutta una serie di realtà nate nel terziario avanzato, che hanno dapprima venduto manodopera personale e successivamente hanno creato prodotti innovativi. Queste realtà vanno distinte dalla piccola impresa perché sono nate dalla intelligenza, tipica del terziario, di chi non ha capitali.
Il quarto esempio è il non-profit, un settore ad altissimo tasso occupazionale, che va dalle opere di assistenza alla scuola, da certi servizi legati all’Università alla sanità.
Quinto esempio: l’internazionalizzazione. L’Italia infatti ha creato molto lavoro a livello internazionale, specialmente come piccola e media impresa, ma non esiste alcun sostegno in questo campo e non si riflette su quale potrebbe essere la creatività di lavoro di queste imprese che vanno all’estero.
Il sesto e ultimo esempio riguarda la politica attiva del lavoro: non sono i numeri che risolvono la disoccupazione, ma l’azione concreta. I nostri Centri di Solidarietà fanno incontrare chi domanda lavoro e chi lo trova, perché hanno creato un network di persone – imprenditori, consulenti del lavoro, lavoratori... – che magari per volontariato, si mettono insieme, e grazie all’informazione creano lavoro.
Concludo ora con alcune osservazioni più generali. Tanti anni fa, abbiamo creato lo slogan "più società meno Stato", non nel senso di privatizzazione selvaggia, ma di valorizzazione delle forze sociali di costruzione della società che ci sono nel nostro paese: questo slogan ha il suo riscontro nel principio di sussidiarietà della Dottrina Sociale, e in un’idea moderna di Stato.
In attesa che quest’idea di Stato si affermi, si possono fare due cose molto importanti: la prima è non demordere dall’idea che l’imprenditoria, la sindacalizzazione e la crescita di soggetti economici è un fatto buono e fondamentale in sé, e che creare e costruire è il primo punto di una creazione del lavoro. La seconda cosa da fare è mettersi insieme, perché non si può ignorare che la storia del nostro paese è stata fatta da realtà di solidarietà e di cooperazione, che vanno da realtà quali le Casse di Risparmio, le Casse Rurali, le Banche Popolari, alla recente esperienza della Compagnia delle Opere. Mettersi insieme per aiutarsi, non per creare un interesse corporativo interno ma per creare nuovo lavoro mettendo insieme le risorse che si hanno: mettersi insieme vuol dire non omologarsi ma creare realtà giovani dove possano nascere nuovi strumenti per integrare le forze e rispondere ai problemi del lavoro.