"Cara beltà..."

di Giacomo Leopardi. Introduzione di Luigi Giussani.
Postfazione di Mario Luzii

Mercoledì 21

Relatore:
Davide Rondoni,
Scrittore e poeta

Rondoni: Vorrei solo dire due o tre delle cose che mi hanno colpito di questo libro: il bello dei libri infatti è che ciascuno può leggerli secondo la propria situazione. I libri importanti sono come il rapporto con un amico, e il fatto che ci indichiamo anche con una certa insistenza, il valore della lettura di questi libri "dello spirito cristiano" è perché nel rapporto con essi si è formata una certa personalità cristiana, la personalità di chi cura questa collana.

La prima cosa che mi ha colpito è un passaggio dell’introduzione: la sublimità del sentire, dice Giussani riprendendo un’espressione di Leopardi, nasce nel momento in cui l’uomo sperimenta la sproporzione. Non solo questo è vero ma è assolutamente contrario alla mentalità in cui siamo, al modo normale con cui ragioniamo. Infatti di fronte alla vita molte volte siamo addormentati, e la vita viene a svegliarci con qualche emergenza, di gioia o di dolore: ma quando siamo svegli di fronte alla vita non possiamo non avvertire una sorta di sproporzione, un’inadeguatezza nell’abbracciare la persona cui si vuole bene o nell’augurare "buona giornata" ai figli. Quando questo sentimento della propria sproporzione fa parte del modo di pensare normale di un uomo, allora egli sente di più: la sublimità del sentire è proprio avvertire la realtà di più, sentire, conoscere e penetrare la vita di più. Questo è vero anche dal punto di vista psicologico: quando uno si sente a posto non si accorge di niente, mentre invece se uno è nella condizione di avere coscienza della propria sproporzione, dunque anche del proprio limite di fronte alla realtà, sente di più la realtà stessa, e tutto diventa occasione, possibilità. Invece la mentalità in cui viviamo è opposta: se uno non è a posto, se uno non è perfetto, sembra che non abbia rapporto vero con la realtà e che non possa fare una vera esperienza umana.

La seconda cosa che mi ha molto colpito, conseguenza di questa sublimità del sentire, è il fatto che in Leopardi la realtà e tutte le cose suscitavano un desiderio, un’illusione, un sogno, cioè suscitavano un’aspirazione. C’è un punto a cui Leopardi – e qualsiasi uomo ragionevole – arriva, per cui deve ammettere che tutto lo rilancia verso qualche cosa di altro, di ulteriore rispetto alla realtà stessa, a ciò che si vede e si tocca. La realtà funziona come qualcosa che rilancia ad altro, sempre "più in là", come dice Montale, sempre a qualcosa d’altro, e questo qualcosa d’altro deve essere concreto, perché si viene rilanciati non da un’idea, ma da una bellezza che si vede, dalla bellezza del cielo, dal fatto che le cose ci sono e non le abbiamo fatte noi. Se questo "ciò che richiama" richiama con qualcosa di concreto, deve essere concreto e reale anch’esso. Leopardi ammette questo ma dice che ciò a cui veniamo richiamati è un "abisso orrido", è un niente: quello di Leopardi è un no serio, è un’opzione seria.

Giussani sottolinea questo, che si tratta di un’opzione e non di una ragione. La ragione è ciò che muove una cosa al suo scopo: è impossibile che tutta la nostra vita sia mossa da un abisso orrido! Uno per l’abisso orrido non farebbe un passo, starebbe a letto! Leopardi non rispetta la ragione della vita, perché la ragione della vita non è che c’è l’abisso orrido: questo abisso orrido è invece una scelta dettata dal suo razionalismo. L’accusa che si può fare a Leopardi è quella di non avere usato fino in fondo la sua stessa ragione, ma di aver scelto ad un certo punto una cosa più piccola, una misurazione delle cose. Anche lui secondo la ragione, cioè secondo il dinamismo vero della vita, non avrebbe potuto ammettere, e infatti non lo ammette mai fino in fondo, che ciò per cui si vive è solo il nulla. Si può ammettere di non sapere cos’è, si può arrivare al dubbio, ma non si può dire che è il nulla.

Questo "non-niente" – siamo sicuri che non è niente, altrimenti non ci tenderebbe – è un mistero positivo, ciò che gli uomini hanno sempre chiamato Dio, che è la parola più precisa e più vaga che ci sia, perché Dio vuol dire una sola cosa e insieme tante.

Leggendo Leopardi si capisce che la fede non è un modo per riempire il tempo libero, per fare un’assicurazione sull’aldilà o per garantirsi una dose quotidiana di buoni sentimenti e buone parole: la fede è una risposta a una grande domanda, per questo non si finisce mai di imparare la fede, perché in una risposta, se si ha veramente una domanda, ci si entra sempre di più. È una "risposta dinamica", una risposta che non si impara una volta per tutte, ma in cui si entra sempre di più. Un’esperienza cristiana non si vede dalla diminuzione in percentuale di peccati, ma da quanta domanda c’è, non come investigazione e curiosità, ma come atteggiamento.