Liberi di educare
Venerdì 28, ore 18.30
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Relatori:
Guglielmo Malizia, Ordinario di Sociologia dell’Educazione II presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma
Stefano Versari, Presidente Nazionale AGESC
Giuseppe Gervasio, Presidente di Azione Cattolica
Giancarlo Cesana, del Consiglio Nazionale di Comunione e Liberazione
Malizia: Nel dibattito in corso sulla parità si ha l’impressione che per molti questa riguardi solo le scuole cattoliche o i genitori che mandano i figli a frequentarle, cioè una minoranza all’interno del nostro sistema formativo, o che si tratti di una benevola concessione da "ancien régime" fatta alla Chiesa cattolica in quanto religione della maggioranza del popolo italiano o sua religione storica. Al contrario, la libertà di educazione non è un diritto né di una minoranza, né di una maggioranza - e già in questo senso sarebbe un diritto rispettabile perché le minoranze vanno tutelate e la democrazia si fonda sul principio maggioritari - ma è un diritto di tutti.
A sostegno di queste affermazioni esistono almeno quattro giustificazioni molto significative che cercherò di illustrare. Per chiarire subito la mia tesi, le enuncerò fin d’ora brevemente: il diritto di ogni persona ad educarsi e a essere educata secondo le proprie convinzioni e il correlativo diritto dei genitori di decidere dell’educazione e del genere di istruzione da dare ai loro figli minori; il modello dell’educazione permanente la cui attuazione è assicurata non solo dalle istituzioni formative statali, ma anche da una pluralità di strutture educative pubbliche o private che, in quanto operano senza scopo di lucro, hanno diritto di ricevere adeguate sovvenzioni statali; l’emergere nelle dinamiche sociali fra Stato e mercato di un "terzo settore" o del "privato sociale" che, creato dall’iniziativa dei privati e orientato a perseguire finalità di interesse generale, sta ottenendo un sostegno sempre più consistente dallo Stato a motivo delle sue valenze solidaristiche; inoltre, la presenza di molti punti comuni tra le ragioni dell’autonomia, su cui tutti sono d’accordo e che sta per essere introdotta nel nostro sistema formativo in modo pieno, e quelle della parità. L’ultima parte del mio intervento sarà dedicata a presentare una proposta operativa minima per assicurare la realizzazione della libertà di educazione nel nostro paese.
1. Un diritto umano fondamentale
La libertà di educazione, come libertà di scelta della scuola da frequentare si fonda sul diritto di ogni persona ad educarsi ed a essere educata secondo le proprie convinzioni e sul correlativo diritto dei genitori di decidere dell’educazione e del genere di istruzione da dare ai loro figli minori. A sua volta tale libertà implica il diritto dei privati di istituire e di gestire una scuola e comporta gli obblighi per lo Stato: di consentire la compresenza di scuole statali e non statali; di conferire il riconoscimento legale alle scuole non statali se garantiscono il raggiungimento di obiettivi didattici equivalenti; di assicurare loro una reale parità finanziaria alle stesse condizioni della scuola statale. È quanto tra l’altro recita la risoluzione del Parlamento europeo del 14.3.84.
Tale documento si ricollega ad una serie di precedenti dichiarazioni e convenzioni di organismi internazionali, di cui è opportuno richiamare qui almeno la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, di cui ricorre quest’anno il cinquantenario. Questa all’art. 26 n. 1 sancisce il diritto all’istruzione di ogni individuo che nel successivo n. 2 viene specificato come diritto al pieno sviluppo della personalità umana, cioè come vero e propio diritto all’educazione. Il successivo n. 3, poi, afferma che i genitori hanno il diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli: tale scelta non significa solo la decisione sul tipo di carriera scolastica da seguire, come, per esempio, l’opzione tra una formazione liceale o tecnica o professionale, ma, facendo riferimento al complesso dei valori che ispirano l’istruzione, va intesa come diritto dei genitori di scegliere la scuola che fornisca l'educazione più conforma alle loro convinzioni, anche se diversa dalla scuola statale, e conseguentemente implica anche il diritto dei privati di stabilire e dirigere istituzioni di insegnamento. Infine il n. 1 dell’art. 26 sancisce la gratuità almeno dell’istruzione elementare e fondamentale e l’obbligatorietà dell’istruzione elementare. Pertanto, lo Stato dovrà garantire con adeguati finanziamenti la libertà di scelta nei livelli di insegnamento che sono obbligatori e gratuiti: altrimenti, o si vanifica tale libertà costringendo a frequentare scuole in contrasto con le proprie convinzioni, pur di poter usufruire della gratuità, o si discriminano le famiglie che mandano i figli alle istituzioni private in quanto non possono godere del beneficio della gratuità.
La libertà di educazione è connessa strettamente con due principi pedagogici oggi particolarmente sottolineati e cioè che l’educando occupa il centro del sistema formativo e che l’autoformazione è la strategia principale del suo apprendimento. Nelle parole ispirate del rapporto Faure del ’72 tutto questo viene espresso dicendo che "la scuola dell’avvenire deve fare dell’oggetto dell’educazione il soggetto della sua propria educazione", o che "l’etica nuova dell’educazione deve fare dell’individuo il padrone e l’autore del proprio progresso culturale".
Dai due principi discende logicamente che a ogni persona va assicurato il diritto ad educarsi scegliendo liberamente il proprio percorso tra una molteplicità di vie, strutture, contenuti, metodi e tempi, cioè che a ogni persona deve essere assicurata la libertà effettiva di educazione. Più in particolare, sul piano dei contenuti bisognerà formare ad un atteggiamento di continua ricerca, stimolare la creatività, educare alla democrazia e alla partecipazione, offrire una formazione personalizzata. Passando poi alla traduzione organizzata e metodologica, va sottolineato che l’educando, particolarmente quando è adulto, deve essere libero di scegliere l’istituto che desidera frequentare e il tipo di istruzione che vuole acquisire. Fin dai primi anni egli deve essere messo nella condizione e spronato a partecipare all’organizzazione della vita scolastica e alla elaborazione dei metodi e dei contenuti. L’autoformazione, e in particolare l’autoformazione assistita, assurge a regola aurea dei processi didattici. Questa focalizzazione sull’educando e sul suo ruolo attivo, propria della pedagogia moderna, richiede il riconoscimento di una libertà effettiva di scelta tra scuole statali e non statali su un piano di parità purché ambedue offrano garanzie di formatività e di democraticità.
2. Il modello dell’educazione permanente
Dell’idea madre delle politiche educative del futuro - così è stata chiamata l’educazione permanente dall’UNESCO nel rapporto Faure e il rapporto Delors lo ha recentemente confermato - mi limito a ricordare qui due strategie principali perché aprono nuove e importanti prospettive per la libertà di educazione. Anzitutto, lo sviluppo integrale dell’uomo, richiede il coinvolgimento lungo l’intero arco dell’esistenza, oltre che della scuola, di tutte le agenzie educative in una posizione di pari dignità formativa, anche se ciascuna di esse interverrà in tempi e forme diverse secondo la propria natura, la propria metodologia ed i propri mezzi (policentricità formativa). In secondo luogo, l’educazione è una responsabilità della società intera, comunità e singoli, che sono chiamati a gestire democraticamente le iniziative formative ("cité educative" o società educante).
L’educazione di ogni persona, di tutta la persona per tutta la vita - la finalità ultima dell’educazione permanente - è un compito talmente ampio e complesso che la società non lo può affidare ad una sola agenzia educativa - la scuola - o ad una sola istituzione - lo Stato. Accanto allo Stato, tutti i gruppi, le associazioni, i sindacati, le comunità locali e i corpi intermedi devono assumere e realizzare la responsabilità educativa che compete a ciascuno di loro.
Attuare la società educante significa che il diritto all’educazione permanente viene assicurato non solo dalle istituzioni formative statali, ma anche da un pluralità di strutture pubbliche e private. Queste ultime, in quanto operano senza scopo di lucro, hanno diritto di ricevere adeguate sovvenzioni statali.
Dall’ipotesi della società educante discende una serie di strategie che sottolineano ulteriormente la necessità di garantire la libertà effettiva di scelta educativa. Anzitutto, si può ricordare il principio della differenziazione delle strutture formative. La politica dell’educazione deve essere orientata a moltiplicare le istituzioni e i mezzi educativi, ad assicurare l’accesso più largo alle risorse formative, a diversificare le offerte educative nel modo più esteso possibile e nessuno può negare che la scuola non statale contribuisca al raggiungimento di tale meta. Altra finalità da realizzare è la deformalizzazione delle istituzioni. A parità di risultati dovrebbe essere riconosciuta in linea generale l’eguaglianza di tutti i percorsi formativi, sia formali che informali, sia istituzionalizzati che non: quindi anche di quelli offerti dalle istituzioni non statali purché vengano garantiti gli standard minimi prescritti per tutti il sistema. Una terza strategia è la mobilità degli utenti. A livello sia strutturale che di curricolo si dovrà favorire il passaggio degli educandi tanto orizzontalmente che verticalmente, da un livello all’altro del medesimo istituto, da un istituto all’altro, da un tipo di educazione all’altro, o dalla vita attiva allo studio e viceversa: tutto questo deve avvenire a parità di condizione anche verso e da le scuole non statali.
3. L’emergere del privato sociale
In questo ultimo scorcio del XX secolo si sta realizzando particolarmente nel nostro continente il passaggio dallo Stato gestore allo Stato garante e promotore. Il primo modello viene sostituito dal pluralismo istituzionale, dalla logica dell’economia del mercato e dall’ideale di una società aperta, multietnica e multiculturale. In tale contesto muta anche la definizione di pubblico che cessa di coincidere con il concetto di statale e viene invece inteso "in un senso sempre più allargato di esercizio di funzioni rispetto a finalità comuni, sollecitando in ogni campo il pluralismo dei servizi ed il decentramento dei poteri". In particolare, quest’ultimo viene concepito anche come vera autonomia decisionale delle istituzioni periferiche.
L’idea di Stato-gestore è entrata in crisi agli inizi degli anni Ottanta insieme con il modello assistenziale di welfare State. La dilatazione eccessiva dei compiti dello Stato sul piano socio-assistenziale, che non è più sostenuta dalla copertura contributiva dei cittadini, ha causato gravi problemi finanziari, mentre dal punto di vista organizzativo si sono moltiplicati i casi di spreco, inefficienza, burocratizzazione e clientelismo. Ma la statalizzazione della società ha prodotto i suoi effetti più negativi alla radice stessa del vivere associato: soffocamento della creatività dei mondi vitali, deresponsabilizzazione delle persone nella soddisfazione di loro bisogni essenziali e crescita di un privatismo che consiste nel ricercare la propria realizzazione nel consumo delle merci.
Il nuovo Stato si presenta come garante della soddisfazione per tutti i cittadini dei bisogni fondamentali, benché non più primariamente gestore anche se lo rimane in via sussidiaria: in altre parole, la sua funzione va pensata come garante promotore. Pertanto, la realizzazione del benessere non dovrà essere affidata tanto a pacchetti di beni o servizi erogati direttamente da parte dello Stato o delle sue strutture, quanto alla garanzia della possibilità di produrli attraverso forme di autorganizzazione e autogestione degli stessi cittadini, singoli o comunità, con il sostegno dello Stato.
Dietro questa impostazione si situa un dato che va tenuto particolarmente presente: negli anni Ottanta - e l’orientamento è continuato nella presente decade - è emersa dal basso un’esigenza di solidarietà come domanda sociale caratterizzata da contenuti positivi che si esprime in processi come il volontariato, l’impegno associativo, la ricerca di esperienze nuove di lavoro e di rapporti interpersonali o comunitari. Nel concetto di solidarietà rimane l’aspirazione alla giustizia sociale, al superamento delle disuguaglianze tradizionali. Però la nuova solidarietà dovrà coniugare contemporaneamente i bisogni della soggettività, dare soddisfazione alle esigenze individuali, valorizzare il diritto di ciascuno alla differenza. È centrale il concetto di corresponsabilità: la solidarietà non va confusa con l’assistenzialismo, ma richiede che ogni persona, anche l'emarginato, diventi attore dell’avvenire proprio e collettivo.
L’affermarsi della solidarietà rinvia a una impostazione della dinamica sociale a tre dimensioni che abbandoni la dicotomia stato/mercato, pubblico/privato e che riconosca e potenzi il terzo settore o privato sociale. Tale concezione corrisponde alla configurazione attuale della società che è caratterizzata dalla pretesa del minimo garantito dallo Stato, dalla voglia di mercato e dalla diffusione di attività solidaristica. Ricordo poi che il terzo settore o privato sociale si definisce come il complesso delle attività di produzione di beni e servizi, create dall’iniziativa dei privati e condotte senza scopo di lucro, ma con finalità di servizio sociale. Nei suoi confronti il potere statale non può limitarsi solo ad ammetterne il contributo nell’ambito di servizi sociali, ma dovrà perseguire una politica di promozione effettiva.
La scuola cattolica è certamente scuola del privato sociale. Infatti, essa offre senza scopo di lucro a tutti i cittadini la possibilità di essere educati nell’istruzione di propria scelta fino ai più alti livelli del sistema scolastico. Inoltre, è scuola delle famiglie e delle comunità, unita con legami vitali, in un fecondo rapporto di scambio, al tessuto locale.
4. Autonomia e parità
Come si è già ricordato sopra, il nuovo ruolo dello Stato offre un fondamento solido sul piano del governo della cosa pubblica all’estensione dell’autonomia anche ai sistemi formativi. Tale introduzione possiede una sua intrinseca legittimità anche a livello pedagogico. Infatti, l’autonomia consente alla singola scuola di gestire la sua vita sulla base della libertà dei soggetti educativi (docenti, genitori e studenti) e in particolare di venire incontro efficacemente alle esigenze dei giovani. In aggiunta, è in grado di aprire le strutture formative alle esigenze locali, rendendole più sensibili e attente ai bisogni del territorio e al tempo stesso più capaci di fornire risposte adeguate in tempi reali. Il potenziamento della qualità dell’istruzione, che attualmente rappresenta un nodo fondamentale in tutti i sistemi formativi, può ricevere un impulso importante da un’autonomia che stimoli la creatività dal basso.
La scelta dell’autonomia corrisponde anche a un orientamento comune ai paesi dell’Unione Europea. Dopo la delusione provata nei confronti delle riforme globali venute dall’alto, degli anni Settanta, il fulcro dei processi di rinnovamento si è spostato sulla singola realtà scolastica, sul progetto educativo d’istituto, sull’innovazione dal basso. In un contesto di continuo mutamento la possibilità di soddisfare le esigenze che insorgono incessantemente dipende in primo luogo dalla rapidità degli interventi. Inoltre, le probabilità di successo di un’innovazione sono maggiori quando l’insegnante ne è partecipe, la sente propria, ha contribuito personalmente ad elaborarla, approvarla, attuarla.
Il cuore dell’autonomia è costituito dal riconoscimento della competenza progettuale: ogni scuola dovrà essere messa in grado di elaborare un proprio progetto educativo in cui si rispecchi la sua identità e la sua fisionomia. A questo proposito vanno attribuiti ad ogni unità scolastica poteri adeguati di autonomia didattica, formativa, organizzativa e finanziaria.
L’autonomia consente di procedere a una radicale trasformazione delle logiche che presiedono alla organizzazione della scuola. Infatti, essa valorizza la specificità dei diversi disegni educativi e al tempo stesso persegue le finalità generali e gli obiettivi comuni che la società attribuisce al sistema formativo nazionale.
In questa linea va messa in risalto la consonanza profonda tra autonomia e parità: infatti, le ragioni dell’autonomia sono le stesse che fondano la parità. Alla base di ambedue le strategie si riscontra la medesima idea del primato della società sullo Stato. Inoltre, autonomia e parità si costruiscono sulla libertà dei soggetti educativi (docenti, studenti e genitori). In terzo luogo le scuole paritarie si presentano come istituti capaci di dare un contributo valido per affrontare in modo vincente la questione centrale nell’attuale dibattito sull’istruzione in Italia che è quello della qualità.
Autonomia e parità consentono anche di realizzare alcune finalità molto significative. Dal punto di vista delle famiglie, esse permettono la riappropriazione da parte dei genitori della responsabilità per l’educazione dei figli e assicurano a tutte le famiglie - e non solo a quelle ricche - la possibilità di scegliere la scuola di loro preferenza. Quanto al sistema formativo, tradotto in strategie adeguate, consentono di: potenziare la qualità delle scuole; stimolare all’innovazione educativa e alla elaborazione di progetti diversificati; favorire il costituirsi di vere scuole della comunità; facilitare l’instaurazione di rapporti diversificati; favorire il costituirsi di vere scuole della comunità, facilitare l’instaurazione di rapporti meno burocratici tra la scuola e la famiglia e avvicinare alla base le istanze decisionali; riportare l’intervento dello Stato nella politica scolastica al ruolo corretto di propulsione, coordinamento e verifica piuttosto che di gestione; introdurre elementi di mercato nel sistema formativo.
5. Quali proposte operative adeguate
L’obiettivo fondamentale consiste nel realizzare un sistema formativo integrato valido ed equo. Come dice il documento della CEI del 1983 su "La scuola cattolica oggi in Italia", si tratta di "formare quel sistema integrato di servizio scolastico, in cui le strutture predisposte dai pubblici poteri e quelle istituite e/o gestite da soggetti diversi si integrano e si coordinano nell’unico fine comune di garantire alle nuove generazioni il necessario grado di istruzione e alle famiglie il supporto per la loro missione educativa, in spirito di servizio e senza finalità di lucro" (n. 78).
Venendo ai contenuti della parità, il nucleo centrale può essere espresso nei seguenti punti:
1. riconoscimento della parità in base a requisiti oggettivi;
2. libertà per i genitori di scegliere una scuola paritaria senza dover sostenere oneri economici superiori a quelli che si incontrano nella scuola statale;
3. trattamento scolastico degli alunni delle scuole paritarie equipollente a quello degli alunni delle scuole statali;
4. eguaglianza dei docenti delle scuole paritarie, garantita dal potere pubblico, nella formazione iniziale e permanente;
5. libertà di scelta da parte dell’ente gestore del capo d’istituto e dei docenti delle scuole paritarie;
6. rispetto da parte del personale della scuola non statale dell’identità specifica della scuola, espressa nel progetto educativo;
7. libertà organizzativa, finanziaria, didattica, di ricerca e di sviluppo della scuola paritaria.
Le condizioni per conseguire la parità potrebbero essere fissate nelle seguenti:
1. possesso di un progetto educativo che definisce l’identità della scuola, le scelte educative, il funzionamento e i criteri di utilizzazione delle risorse e che consente la realizzazione della opportune valutazioni anche da parte del potere pubblico della qualità della formazione erogata;
2. apertura a tutti gli alunni i cui genitori ne facciano espressa domanda e dichiarino di conoscerne ed accettarne l’indirizzo educativo;
3. possesso da parte dei docenti degli stessi titoli dei docenti delle scuole statali;
4. inquadramento nella programmazione scolastica del territorio che dovrà tener conto delle richieste dei genitori in funzione delle loro scelte educative;
5. gestione democratica della scuola;
6. pubblicità dei bilanci e natura "non profit" della scuola;
7. salubrità dei locali e rispondenza delle attrezzature a standard minimi di qualità.
Come si sa, il Consiglio dei ministri ha presentato più di un anno fa un disegno di legge sulla parità, compiendo un passo concreto importante nel cammino verso l’approvazione di un testo definitivo. Al tempo stesso non si può non notare con rammarico che la proposta non risolve alcuni dei nodi fondamentali della questione, come quello del finanziamento, e sono questi aspetti a suscitare forte inquietudine e a giustificare molte osservazioni critiche. Si tratta adesso di essere conseguenti sul piano soprattutto delle strategie concrete e di arrivare in tempo breve, con l’appoggio di tutte le forze politiche favorevoli alla libertà di educazione, a un testo definitivo che faccia entrare l’Italia in Europa anche da questo punto di vista e non solo perché ha messo in ordine i conti pubblici.
Versari: La centralità educativa non costituisce il cuore del problema della parità, piuttosto il punto di partenza su cui tutti sono d’accordo. Anche l’onorevole Bertinotti concordava su questo, dicendo che esiste il diritto della persona all’educazione: aggiungeva però che non esiste il diritto della famiglia all’educazione, perché non esiste il diritto alla scelta educativa da parte di altri che non siano lo Stato. Su questo non possiamo incontrarci. Comprendo perciò le difficoltà dell’attuale maggioranza chiamata a conciliare un’azione politica con posizioni di questo tipo, peraltro assai diffuse anche in buona parte della sinistra del PDS, del sindacato CGIL, del fronte laicista massonico, e sostenute da qualche reggicoda cattolico.
Siamo tutti d’accordo sul diritto all’educazione: tuttavia, per noi è un diritto secondario, che deriva dal fatto che la persona è un soggetto libero. Un soggetto non libero non può essere educato, al massimo addestrato. Se si educa, si educa alla libertà perché la persona è ontologicamente libera. D’altra parte se il diritto alla libertà fosse solo un diritto dei figli dello Stato, torneremmo ai figli della lupa.
La necessità di educare alla libertà attraverso una metodologia scolare fissa le caratteristiche della scuola. Quest’educazione non è possibile se non attivando le forze che producono la libertà, ovvero i soggetti che promuovono e costituiscono la scuola, famiglie ed insegnanti in primo luogo. È esattamente il contrario di quanto sta accadendo nella scuola. Temiamo, ed i segnali stanno andando in questa direzione, si trasformi l’autonomia in decentramento, togliendo così la libertà naturale ai soggetti della scuola e offrendo la scuola in concessione ai poteri forti del territorio - in primis quelli politici - rendendo l’intervento pubblico più livellatore ed oppressivo.
Un fatto fortemente diseducativo che incide sulla cultura scolastica è l’estromissione della famiglia dalla scuola. Il primo elemento che produce educazione alla libertà nella scuola è la presenza dei soggetti, tra questi, in primo luogo, le famiglie. Questa educazione avviene attraverso la produzione di una cultura di base formata dal connubio fra cultura consolidata, la cultura umanistica o scientifica, e la cultura dei mondi vitali da cui la scuola prende origine e motivo. Questo è tutt’altro rispetto al fantasioso riordino dei cicli o alla estremizzazione delle conoscenze teoriche che dimenticano le esperienze della realtà. Il principio regolativo della presenza dei soggetti nella scuola, secondo noi, è quello della sussidiarietà: nel liberismo è il primato del singolo, nel marxismo è il primato della collettività, nella sussidiarietà è il primato della promozione della soggettività.
Come fa una persona ad essere libera di fronte al problema principale della vita, il lavoro, se non ne sa niente, se non ha mai mosso le mani? La cultura del lavoro è creatrice di libertà, la manualità è criterio conoscitivo della vita, si tratta dunque di concepire il lavoro come forza educativa della scuola. È esattamente quello che si vuole fare con l’innalzamento dell’obbligo, che nasconde l’insidia dell’eliminazione della formazione professionale, togliendo ad essa autonomia e dignità, negando valore alla cultura della manualità, facendo delle scuole professionali delle pseudo-scuole secondarie superiori. Il vero problema in realtà è che la formazione professionale è in gran parte in mano ai soggetti privati, per lo più cattolici. Di qui, il tentativo di demolizione della formazione professionale. Noi non lo possiamo accettare, e non possiamo accettare le mediazioni raggiunte, come troppo spesso ormai, al ribasso dai nostri amici politici cattolici nella maggioranza, assillati dalla preoccupazione di non mettere inciampi al percorso del governo. È un paradosso: nell’epoca della sbandierata autonomia, si toglie autonomia alla formazione professionale, ammantando questa limitazione con il traguardo dell’innalzamento dell’obbligo che, così come è ipotizzato, vuoto di contenuti a di prospettive, a null’altro servirà se non ad abbassare gli indici di disoccupazione nel paese: si comincerà la conta a 15 o 16 anni invece che a 14 anni. Si ridurrà artificialmente il numero dei disoccupati, senza colpo ferire. Un bel risultato di alchimia politica riformatrice.
Dalla carenza di senso è derivata la deresponsabilizzazione verso la scuola, vista come bene regalato dallo Stato e non come un dovere dell’organizzarsi dei soggetti. Il problema è far passare la scuola da diritto particolare a problema di libertà globale e quindi percorrere un passo fondamentale di democrazia sostanziale, quello di partecipare non solo alla decisione ma anche alla produzione della qualità della vita. È il contrario della nuova formula sterile e pseudo-democratica di assemblarismo costituita dalle consultazioni per la riforma della scuola che permettono di fare quanto deciso a priori con una patente di leggittimità che nasconde un sostanziale dirigismo centralista; per non parlare della numerosissime deleghe al governo che sostanzialmente svuotano la funzione legislativa del governo stesso. In altri tempi, per molto meno le piazze sarebbero state occupate. Oggi questo non accade.
Produrre democrazia implica in queste circostanze la capacità di relazionarsi, costruendo coalizioni culturali nel sociale: è un po’ come fare il maggioritario per la scuola nella società italiana. Paradossalmente i politici non c’interessano più di tanto, perché la scuola si rinnova nel sociale, e ne è un esempio concreto la scuola cattolica che si regge per il consenso sociale e non per l’aiuto dello Stato. È piuttosto la politica ad interessarci, perché si modelli in funzione della scuola che vogliamo. Noi non siamo né maggioranza, né minoranza, ma è inevitabile che quanto affermiamo crei consenso oppure opposizione: sta quindi alla maggioranza obbligarci ad essere non-opposizione. Sappiamo che ci sono mille problemi nel paese, ma con la scuola si gioca sulla pelle dei ragazzi; per questo siamo stanchi della conduzione della riforma della scuola umorale, episodica, demotivante e defaticante. Pur con buona volontà non riusciamo a trovare la valenza educativa delle progettate riforme e questo consolida il sospetto che si tratti di manovre di potere per assicurarsi il controllo della scuola, quindi della società. Come valutare altrimenti i recenti pronunciamenti del Presidente del Consiglio, secondo cui in Italia il problema della parità è problema di diritto allo studio, ma siccome il diritto allo studio è legge dello Stato da 20 anni, la parità c’è già? non ce ne eravamo accorti! Più che una retromarcia appare come una abdicazione ad un impegno, ma siamo convinti e speriamo che questo impegno possa essere recuperato al più presto. Siamo altrettanto preoccupati di una opposizione politica che ci pare in alcuni casi tentata di utilizzare in termini strumentali le nostre battaglie, quasi desiderando non trovino soluzione per poterle giocare alla prossima tornata elettorale. Mi trattengo infine dal dire cosa penso della sterile azione incapace, quando non incoerente, di molti dei politici che si dichiarano cattolici.
Per tutto questo siamo convinti della necessità di ritrovarsi nel sociale per una nuova politica per il bene comune del paese: tocca a noi fare, senza rinunciare a pretendere ciò che è dovere degli altri. Questa è corretta democrazia.
Gervasio: Perché non si riesce a risolvere questo che è uno dei nodi più importanti per la vita nel nostro paese? Perché non si riesce a sciogliere questo nodo in una linea che, come abbiamo sentito dall’intervento di padre Malizia, è già acquisita a livello di Parlamento europeo? Credo che possiamo indicare alcune possibilità, a partire dalle quali potremmo anche trovare delle possibili strade per superare queste difficoltà.
Tutti siamo convinti dell'assoluta necessità di una profonda riforma del sistema scolastico nel nostro paese. Che la scuola per tanti aspetti abbia la necessita di una riforma radicale, è nel convincimento di tutti; i ragazzi che vanno a scuola, i genitori che ve li hanno mandati, i ragazzi più grandi che escono dalla scuola, i giovani che sono all’università e che si aprono al mondo del lavoro. Il tema fondamentale col quale noi dobbiamo fare i conti è dunque questo, la riforma del sistema scolastico e il suo collegamento con le grandi linee - il tema dell’educazione permanente, il riferimento al rapporto tra lavoro e formazione professionale, il rapporto tra scuola, università, occupazione - già citate da Malizia. Questi sono temi dai quali noi non possiamo assolutamente deflettere: dobbiamo misurarci con questi problemi nel pieno rispetto della persona. Dobbiamo riscoprire una verità sulla quale abbiamo sempre insistito, la centralità della persona. La società è a servizio della persona, lo Stato è a servizio della società e della persona. La centralità è della persona, la persona deve veramente esercitare il suo diritto all’educazione, il suo diritto alla formazione, il suo diritto all’istruzione. Questi sono diritti fondamentali. I principi fondamentali della nostra Costituzione ci richiamano esattamente a questo, sia per quanto riguarda la centralità della persona, sia per quanto riguarda il rapporto tra persona e società e tra persona e Stato. In questo quadro si colloca in modo specifico quella particolare società che è la famiglia.
Se vogliamo tradurre questo in modo concreto, non abbiamo avanti che una strada: la strada di un sistema scolastico che sia ricco dell’apporto che può venire dal complesso della società. Un sistema scolastico integrato dunque, nel quale sia presente la funzione dello Stato nel modo molto bene delineato dalle parole di Malizia: il compito dello Stato è di garantire e di promuovere, non di gestire. Ed è fondamentale l’apertura alla società e, nella vitalità della società, l’apertura alle comunità, l’apertura alle famiglie, l’apertura ai territori perché esprimano e perché gestiscano un sistema integrato che valorizzi il criterio dell’autonomia per tutte le ragioni che abbiamo già sentito. E per una ragione ancora che vorrei sottolineare: l’autonomia è ciò che genera la pluralità delle offerte ed è ciò che consente il reale esercizio della libertà, della libertà come scelta e, rispetto ai temi che stiamo trattando, la libertà di scegliere il modello, il percorso educativo che la persona, la famiglia per i ragazzi, i giovani per sé stessi vogliono scegliere.
Vogliamo una riforma della scuola che si traduca in un sistema che deve essere integrato, pluralista, incardinato sul metodo dell’autonomia perché questo è ciò che consente effettivamente l’esercizio della libertà; libertà della scuola, libertà nella scuola, libertà di coscienza come punto di riferimento della persona, dell’alunno, dello scolaro, del giovane che studia, libertà del docente, ma a servizio della educazione e della libertà del discente.
Un quadro complessivo di libertà, il quadro che noi ritroviamo nei fondamentali principi della nostra Costituzione; dobbiamo chiederci perché a cinquant’anni dalla Costituzione tutto questo non è stato realizzato. Credo che le ragioni di questa mancanza siano da individuare nel fatto che chi ha avuto la maggioranza, e quindi il governo, per tanti decenni nel nostro paese, ha ritenuto che la scorciatoia più facile fosse un’altra, piuttosto che riformare la scuola in senso non centralistico e non di solo decentramento ma in senso di pluralismo e di autonomia. La scorciatoia era di governare la scuola, avendo il governo, avendo la maggioranza. Perché riformarla se tanto comandiamo noi? D’altro canto, abbiamo avuto un’opposizione forte, comunista e socialista, la cui reazione di fronte ad una situazione del genere è stata dire: è inutile scontrarci per una riforma della scuola che non otterremo - data la divaricazione tra maggioranza e minoranza che esiste nel paese - quando è possibile avere peso nella scuola attraverso altre strade, come la politicizzazione di parte del corpo docente e di parte dei movimenti studenteschi. Così abbiamo avuto una occupazione della scuola da una parte e dall’altra e non abbiamo avuto la riforma della scuola.
Questa riforma oggi è improcrastinabile. Questa riforma dobbiamo costruirla, dobbiamo costruirla nella linea del pluralismo, dell’autonomia e quindi nella linea del pieno rispetto della libertà del discente, di colui che deve utilizzare il sistema scolastico. Dobbiamo svolgere una grande opera di pressione a livello politico per fare in modo che tutte le forze politiche si rendano conto di come la nostra società ha bisogno di una riforma della scuola che abbia queste caratteristiche. Dobbiamo essere la coscienza critica del mondo politico per spingere in questa direzione, ma dobbiamo anche fare un’opera di carattere culturale. Nel nostro paese il problema della scuola non è sentito da tutti, per molti la scuola è un posto dove i nostri ragazzi devono andare e devono passare un certo numero di ore. Quante famiglie veramente si fanno carico del problema della scuola? Quante famiglie hanno invece delegato ogni problema di educazione e di formazione alla scuola, ma senza farsene carico? Dobbiamo far crescere in questa direzione la cultura del nostro paese, dobbiamo far crescere l’attenzione all’educazione, alla formazione; l’attenzione al ruolo delicatissimo che la scuola ha per la formazione delle nuove generazioni.
E dobbiamo fare anche un’altra opera: dobbiamo far capire che questo impegno per la libertà nella scuola, per la libertà della scuola, per il rispetto pieno della libertà del singolo nello scegliere il proprio percorso educativo e formativo, è una battaglia che non riguarda gli interessi di qualcuno ma riguarda tutta la scuola, perché riguarda tutta la società e tutti i cittadini. Quante persone ancora pensano che il discorso della libertà della scuola o del rispetto della libertà del discente sia un discorso dei cattolici? Invece è un discorso dei cittadini e della dignità della persona. Questa è una battaglia che culturalmente dobbiamo ancora portare molto avanti. Quanti liquidano le nostre proposte dicendo che in fondo noi ci occupiamo solo del piccolo orticello delle scuole cattoliche? Non è vero! Noi ci occupiamo della riforma della scuola in Italia per tutto il paese; una riforma che sia aperta al pluralismo, che sia aperta al rispetto della libertà, che sia aperta all’autonomia. Questo noi lo dobbiamo fare, con particolare riferimento all’opinione pubblica, ai mezzi che modellano l’opinione pubblica, alla stampa. Anche per la stampa infatti questo problema è soltanto un problema di quattrini alle scuole private. Non è vero: è la crescita dell’intero sistema come sistema integrato è il problema per il quale noi ci dobbiamo spendere. E abbiamo bisogno che l’opinione pubblica, la stampa capisca questo. Vogliamo una scuola libera sia per quanto riguarda l’apporto che viene dalla società, sia per quanto viene dal servizio che le istituzioni compiono.
Dobbiamo superare delle false contrapposizioni. Se sapremo essere coscienza critica nei confronti del mondo politico, se sapremo far crescere l’attenzione nella cultura nella mentalità per i temi dell’educazione e della formazione, se sapremo modificare un certo vecchio atteggiamento che la stampa ha rispetto a questa tematica, probabilmente noi riusciremo ad arrivare più in là rispetto al punto che abbiamo fino ad oggi raggiunto. Un punto che certamente non ci soddisfa, ma certamente un punto che ci fa capire che ormai non si più andare indietro e che l’unica strada è quella di persuadere ad andare avanti rispetto ad una visione che è quella che ho cercato di richiamare con queste mie parole.
Cesana: Il Ministero della pubblica istruzione italiano, avendo un milione e duecentomila dipendenti, è il primo coacervo di interessi contro la libertà della scuola, perché è ovvio che riformare una situazione che coinvolge un così grande numero di persone con gli interessi, la mentalità, le abitudini, l’indole che ormai è stata acquisita, è un lavoro enorme, impressionante e certamente non tale da essere fatto dai nostri governanti.
L’osservazione più acuta è stata fatta da Monti durante questo Meeting: i giovani dovrebbero scendere in sciopero contro i loro padri, contro i vecchi, perché ormai l’Italia è una gerontocrazia. Si fa la scuola per gli insegnanti e non per gli studenti, si fa il sindacato per i pensionati e non per i disoccupati. Siamo in una situazione difficilissima, che richiede a riguardo della libertà della scuola e nella scuola una irriducibilità culturale. Siamo di fronte al problema della scuola libera, ma in quanto di fronte al problema della scuola libera, noi siamo di fronte al problema dell’essere educati e, il problema educativo non può tardare ad essere affrontato. E la battaglia dell’educazione è parte integrante, anzi essenziale, della battaglia per la scuola libera. Dobbiamo essere irriducibili, a mio avviso, su due questioni.
In primo luogo, nel negare la mentalità comune non solo dell’Italia ma di tutto il mondo occidentale secondo cui la personalità umana è il punto d’arrivo di una spontaneità evolutiva, e dunque secondo cui gli uomini vengono su come funghi; chi pensa così finisce per fare delle scuole dove si entra con il metal detector, come avviene negli Stati Uniti. Anche in Italia nei grandi plessi scolastici si sta arrivando a queste situazioni, per esempio della periferia milanese, dove si raggruppano 1200, 1300, 1400 studenti lasciati letteralmente allo stato brado.
Nessun padre e nessuna madre lascerebbero alla curiosità del bambino toccare una stufa rovente, piuttosto lo sculacciano, perché per scegliere è necessario un criterio: per questo è necessaria la libertà della scuola. Come denunciava già negli anni Sessanta uno studente estremamente intelligente: "Il vero aspetto negativo nella scuola è quello di non fare conoscere l’umano attraverso i valori che troppo spesso tanto inutilmente maneggia: mentre in ogni azione l’uomo rivela la sua indole, appare ridicolo (o tragico!) che vanamente si percorrano a scuola, attraverso lo studio delle varie manifestazioni degli uomini, alcuni millenni di civiltà, senza sapere ricostruire con sufficiente precisione la figura dell’uomo, il suo significato nella realtà. La nostra scuola è impostato su un innaturale neutralismo, appiattitore di ogni valore. Nozioni inespressive: ecco che cosa il più delle volte la scuola ci dà; dispensa se stessa dal darci il significato del reale causando spesso in noi un’incrinatura durevole". Ed è questo il secondo punto della battaglia culturale: il dialogo educativo non è alla pari, richiede l’autorità e l’autorità richiede la libertà, perché il rispetto della libertà e della coscienza è una proposta vera che ne evochi l’adesione della persona. Proprio per il rispetto che noi abbiamo dell’uomo, è la libertà dell’uomo che nella verifica acquisirà una convinzione a riguardo di quello che gli viene proposto con decisione. Altrimenti il carattere dei giovani sarà totalmente determinato da quello che è l’aspetto più drammatico che si vive oggi: l’incertezza, principio dello scetticismo. Diceva già don Giussani nel 1960: "Dover camminare senza indirizzo preciso, è sentito come dispersione di tempo dalla sensibilità di una coscienza viva. E allora si genera quella caratteristica incertezza che impaurisce il giovane, da natura iscritto in un’ovvia esigenza di possibilità chiara, oppure lo confonde come di fronte all’ambiguità, o comunque lo impazientisce perché l’indecisione dell’offerta gli appare istintivamente contraddittoria al richiamo essenziale delle cose - che è richiamo ad immediata adesione. Il risultato di tutto questo è poi quella indifferenza e quel disamore, quella tremenda carenza di impegno con la realtà che assume così spesso aria di smarrita o amaramente distaccata derisione per ogni serio invito a quell’impegno". Dobbiamo essere irriducibili come azione innanzitutto nella educazione su questi principi.
L’ultimo punto fondamentale è che dobbiamo essere capaci di attrarre i giovani, i primi interessati, a difendersi contro gli adulti che li tradiscono. E questo è un cammino lungo, che vale nella scuola pubblica e anche nella scuola libera, perché non vogliamo la scuola libera semplicemente per avere una istituzione così detta libera, ma perché possa essere un ambito dove si costruiscono uomini. Scriveva sempre don Giussani nel 1960: "Certo, occorre che la scuola libera sia consapevole e coraggiosa di fronte alle sue implicazioni. Ispirare ad una ideologia l’insegnamento, senza che il ragazzo sia invitato ed aiutato ad un impegno concreto e pratico con quella, produrrà curiosità culturale, se l’ideologia è ben proposta, e lascerà solo una stima razionale; ma la sua traduzione nella vita sarà per i più quella di un tradizionalismo sentimentale, che quella stima varrà a custodire, ma non a tonificare in adesione".