Monasteri e cattedrali

Giovedì 25, ore 11

Relatori:

Léo Moulin

Régine Pernoud

Jean Gimpel

 

Léo Moulin, docente presso il Collegio d’Europa di Bruges

Moulin: L’impero romano, diviso, rovinato dalle lotte intestine, tarlato, schiacciato sotto il peso di una amministrazione e di una fiscalità divoratrici, crolla. Una società senza dinamismo demografico, sclerotica, senza più voglia di difendersi, affida la guardia del confine dell’impero a soldati stranieri, germanici, barbari. Roma è stata saccheggiata. Sotto i colpi di ariete di popoli – Unni, Vandali, Goti, Saraceni, Bulgari, Ungheresi, Barbari per il mondo latino e, di più, spesso eretici (arianesimo) – la civiltà latina muore. Anzi: è morta. La lingua latina sopravvive nella liturgia della Chiesa. Per il resto, cambia: diventa un latino rozzo, primitivo, rustico, che sarà un giorno, secoli dopo, l’italiano, il francese o lo spagnolo. È la fine di una vecchia e magnifica società civile, di una organizzazione stupenda di efficacia – più o meno, 300.000 soldati, una trentina di legioni per difendere l’Impero. Per i popoli dell’Impero, è la fine del mondo, della, per loro, sola civiltà possibile e immaginabile. È l’apocalisse. Due, tre secoli di invasioni, di distruzioni, di saccheggi, di rapine, di incendi, di morte.

S. Benedetto muore nel 547. Monte Cassino è distrutto 30 anni dopo dai Longobardi, cristianizzati, ma che negano la natura divina del Cristo. Che cosa diventa allora la civiltà? La civiltà nostra è stata salvata dai monaci. S. Benedetto è proprio il padre d’Europa, della nostra civiltà; non si può spiegare la nostra civiltà senza la presenza dei benedettini. I nostri grandi intellettuali – "i cattivi maestri", dice Francesco Forlenza – parlano volentieri di cultura popolare. Condannano la cultura elitista, la cultura per i pochi, i ricchi, i borghesi. Durante secoli, e da sempre, ed oggi ancora, la Chiesa offre al popolo le più belle produzioni dello spirito umano. Questo popolo del Medio Evo rozzo, puzzolente, ignorante, non educato, analfabeta, paganeggiante, pieno di superstizioni, e di timori panici, dei cafoni di questi secoli veramente oscuri – dal quarto al settimo (minimo!), l’ha riunito, ogni domenica, nei più begli edifici della nostra storia – dalle sontuose cattedrali alle più umili pievi romaniche, dalle vastissime abbazie, come Cluny – il monumento più imponente della cristianità prima dell’edificazione di S. Pietro – ai priorati più rustici. Dalla Scozia alla Sicilia. Dalla Svezia al Portogallo. La chiesa, le cattedrali, i monasteri hanno offerto agli sguardi pieni di stupore i quadri, le sculture, i vestiti, gli ornamenti più belli del mondo, di allora e di oggi. Un’arte di altissima qualità, ma a tutti, anche i più ignoranti, accessibile, intelligibile ed educativa. Il fumetto più straordinario e il più bello di tutta la storia. La Chiesa ha fatto suonare, ha fatto cantare la musica più umana, più mistica, più trascendentale che ci sia: la Gregoriana, la più vasta produzione musicale della storia. La chiesa era "la casa del popolo" ed anche il locale per gli "shows" dell’epoca: i misteri, le feste, più o meno licenziose.

E ogni domenica il clero, più di una volta, poco istruito, poco educato, e non sempre rispettoso degli insegnamenti della Chiesa, ha parlato di Cristo, – ha celebrato, alla meno peggio, l’Eucaristia, ha tentato, colle sue povere forze, di educare e di civilizzare questo miserabile popolo di peccatori. Con pochi e relativi successi. E moltissime "deviazioni" e crisi. E sì, grande diserzione. Cristo l’aveva annunciato dicendo: "Quando il Figlio dell’Uomo verrà, troverà egli pure la fede in terra?".

Ma, "il popolo esiliato continuò a camminare".

Ritorniamo un attimo ai nostri intellettuali: la civiltà umanistica del Rinascimento che ammirano e lodano tanto, ha creato i musei, luoghi praticamente inaccessibili al cosiddetto "popolo". È all’origine di un’arte inintellegibile al "popolo", che non parla più all’anima ed al cuore. Che non educa più. Che non istruisce più. La borghesia, la nobiltà hanno avuto le loro gallerie d’arte, i loro edifici particolari, i loro teatri, le loro sale da concerto, chiusi al popolo. Il popolo è stato scartato da questa cultura essenzialmente elitista. Solo la Chiesa, gli Ordini religiosi, hanno continuato a difendere, fino ad oggi, nel popolo di Dio, gli elementi fondamentali di una cultura autenticamente "popolare" – e di qualità. Non quella dei media o dei regimi totalitari o la povera propaganda dei partiti politici. Hanno continuato, senza mai stancarsi, malgrado gli innumerevoli e permanenti scacchi, a insegnare una morale tutt’insieme esigente, nemica del peccato, e indulgente per i peccatori – ciò che i nostri stati moderni non hanno mai fatto – o allora male.

I. Due apporti del passato medioevale alla modernità

La Regola di S. Benedetto, vecchia di più di 14 secoli, ci ha dato lezioni che valgono più che mai per il nostro mondo. La prima, è quella della puntualità. San Benedetto punisce (c. XLIII) chi arriva in ritardo all’opera di Dio o alla mensa, chi non ubbidisce immediatamente, chi non si alza subito quando il suo superiore lo chiama. Le parole "Sine mora", "senza ritardo", si trovano 7 volte nella Regola. Seconda lezione: essere attento. La Regola dice: (IV, 56) "Actus vitae suae omni hora custodire" – "vigilare ogni istante sulle azioni della propria vita". Chi è distratto, chi non è, a ogni momento, presente a se stesso, chi vagheggia, chi sogna, è punito. Chi sbaglia nell’oratorio (XLV), chi commette una mancanza – in cucina, al forno, nell’orto, in qualsiasi mestiere, in qualunque luogo – è punito. Chi tratta i beni del monastero con poca cura o con trascuratezza, è punito (XXXII). Chi rompe o smarrisce qualche cosa, è punito (XLVI). Puntualità, presenza a se stesso, self control: sono le qualità per eccellenza dell’uomo moderno, e ci vengono dall’alto Medio Evo.

II. Infrastruttura e sovrastruttura

Conoscete l’affermazione di Carlo Marx secondo la quale la base essenziale del divenire sociale è l’infrastruttura tecnica-economica che detta la sovrastruttura-religione, etica, arti, rapporti sociali, ideologie – queste sue maniere di essere e di svilupparsi. La sovrastruttura è il riflesso e il prodotto dell’infrastruttura. Ora, la storia degli ordini religiosi prova quanto questa tesi è erronea.

La Chiesa, gli Ordini hanno bisogno di cera, di vino e di olio, per ragioni evidentemente religiose: per vivere il messaggio di Cristo secondo la Regola di S. Benedetto, i Benedettini, secondo l’insegnamento di S. Bruno, per i Certosini. Quindi sviluppano l’apicultura, la viticultura e l’olivocultura. Debbono osservare la regola del magro, il mercoledì e il venerdì. Più, due o tre quaresime, all’anno. Sviluppano la piscicultura.

Hanno bisogno di legno: diventano gli specialisti della silvicultura. E così via via. Tutto questo, non per sopravvivere, come fanno tutti i popoli del mondo, o per arricchirsi, ma unicamente per rispettare gli imperativi della loro fede. Hanno eccedenze di grano, di latte, di miele, di vino. Per forza: lavorano in una maniera più moderna, più razionale, che i contadini. E il loro genere di vita (in principio!) sobrio, moderato, fa sì che non mangiano e non bevono tutta la produzione. Ora, che fare con tutte queste eccedenze? Naturalmente, vino melato, pepato o erbaceo, all’origine del vermut; o liquori: i Gesuati sono soprannominati "i padri dell’acquavite". E pensiamo alla "chartreuse". Che cosa fare con questa quantità di miele? Dolci, naturalmente, specialità delle nonne, o idromele. O (gli Scotti), drambuie, whisky con mele, o ancora, prodotti di bellezza (Praglia).

E col latte? Latticini e, soprattutto, formaggi, (compreso il parmigiano). E col grano, orzo, segale, spelta? Della birra. I monaci non amano l’acqua. Il Medioevo non si fida dell’acqua. S. Benedetto utilizza due volte la parola: "versare agli ospiti l’acqua per lavarsi le mani" (LIII,24), o anche "acqua, molino" (LVI, 16). Dice (XL, 20) se succede che il vino venga a mancare, che i monaci "benedicano Dio e non stiano a mormorare" ("murmurent": la traduzione più esatta sarebbe: "rugare").

Nei paesi settentrionali, non ci sono vigne. Il vino è dunque raro e costoso. Sono i Benedettini fiamminghi che, verso il decimo secolo, hanno inventato la birra (parola fiamminga), che non è la cervogia, come si dice sempre, ma grano fermentato e germogliato con luppolo (la cervogia è senza luppolo) che dà il sapore amaro alla birra. Nel mio paese, le migliori birre sono ancora quelle dei Trappisti (7 abbazie con sapori e densità di alcool differenti). Poi vengono le birre dette "di abbazie" che non provengono da una abbazia ancora viva, ma da una abbazia antica, ma morta o distrutta dalla Rivoluzione Francese. Poi vengono ancora più di 200 birre commerciali.

E con l’uva? Vini, i migliori dell’epoca. Citamo, per l’Italia, il Frascati: i monaci di Grottaferrata; il Freisa: i Benedettini; il Lacrima-Christi: i Gesuiti; il Valpolicella: i Cavalieri di Malta; il Capri: i Certosini; il Colli Euganei: gli Scalzi; ecc. I monaci hanno venduto il loro prodotti (non dimentichiamo i profumi: acqua di Colonia, di origine certosina, acqua di melissa, calmelitana, più i medicamenti a base di erbe). Si sono arricchiti – grosso problema di coscienza, sono diventati potenti (e qualche volta prepotenti) e maestri di una economia ricchissima – senza averlo voluto, e per motivi infrastrutturali e spirituali.

III. Tecniche elettorali e deliberative

Anche le tecniche elettorali e deliberative ci vengono dal Medioevo. La Chiesa e più specialmente gli Ordini religiosi, hanno inventato, promosso, utilizzato, le tecniche elettorali e deliberative democratiche – principio della maggioranza assoluta, l’unanimità, il voto segreto, lo scrutinio, il turno di scrutinio, il ballottaggio – che sono nostre. Hanno vietato il sorteggio, la maggioranza relativa, il mandato imperativo e, naturalmente, gli intrighi o le promesse pre-elettorali, le cosiddette "capitulazioni". Chi intrigava per essere eletto, era privato di voto attivo e passivo, vuol dire che non poteva più né votare né essere eletto. Tutte queste tecniche sono creazioni del pensiero monastico, l’idea di trattare il monaco non come un suddito, ma come una persona. Articolo III della Regola: "Della convocazione dei fratelli a consiglio". Tutto il consiglio: "che spesso il Signore rivela al giovane la decisione migliore". Ogni volta che in monastero si deve trattare qualche cosa di importante "ascolti (l’abate) prima il consiglio dei fratelli". Altra invenzione dei religiosi: il Capitolo Generale, un secolo prima (1115) della Magna Carta d’Inghilterra, la prima assemblea europea soprannazionale, funziona ancora oggi, ed è efficace. Né i Greci, né i Romani, né i Comuni medievali hanno avuto usi elettorali, meno ancora, codici elettorali raffinati come quelli degli Ordini religiosi e della Chiesa. Quando i Comuni si sono organizzati hanno dovuto domandare consigli agli Ordini e, specialmente, ai Domenicani. La sola tecnica che non è stata inventata dagli Ordini religiosi è il conclave (dal latino conclavis, chiuso a chiave). Inventata per i Comuni italiani desiderosi di accelerare il processo delle elezioni papali – qualche volta lunghissimo – due anni per Giovanni XII (1316-1334) – che gravava in maniera pesante le finanze comunali.

Il nome dei pranzi. Anche il nome dei pranzi ci viene dal medioevo monastico. In francese, "pranzare" si dice "déjeuner" e "cenare", "diner" (in italiano esiste la parole "desinare"). Le due parole provengono dal latino "disjejunare", "rompere il digiuno". Che i primi monaci, ed oggi ancora i Certosini, non mangiano che una volta al giorno, verso le tre del pomeriggio. Rimangono dunque 24 ore senza mangiare e, qualche volta, senza bere (bere, comunque, era interdetto tra i pranzi).

La colazione. Nella Regola, S. Benedetto raccomanda (XLII) dopo la cena (aggiunge: "se non è tempo di digiuno") di leggere le conferenze di Cassiano, in latino collationes. L’uso si è introdotto, verso, sembra, il XII secolo, di far inzuppare un pezzo di pane nel vino e di fare "collazione", per allusione alle Collationes di Cassiano, alla fine del pomeriggio.

Il galateo monastico. E per finire gran parte delle nostre convenienze a tavola proviene dal galateo monastico. Esempio: a tavola ancora oggi non si taglia il pane. Ricordo eucaristico, che rispettavano naturalmente i monaci: "avendo preso il pane, rese grazie e lo ruppe". Altro esempio: non si mangia pane aspettando di essere serviti, perché è interdetto ai monaci di mostrarsi golosi e impazienti di mangiare. Altro ed ultimo esempio: asciugarsi le labbra prima di bere.

Oltre la razione regolare, quotidiana, detta generale, i monaci potevano ricevere un supplemento di vino, di pesce, di dolce, qualche volta, offerto dai fedeli. Per pietà, dal latino pietas. E perciò detto: pietanza, in francese: pitance. Ma per ricordare ai monaci che questo cibo era "fuori regolamento", l’abate non lo benediceva e lo faceva servire in una scodella per due e un solo bicchiere. I monaci dovevano quindi dividere il cibo e la bibita. I libri dei costumi monastici raccomandano di asciugare le labbra prima di bere, prima di passare all’altro, per non lasciare, scrivono, sul bicchiere, tracce di grasso, briciole di pane o... peli di barba.

Régine Pernoud, Scrittrice e Studiosa della civiltà medioevale

Pernoud: Il mio intervento si incentra su un questione fino ad ora poco studiata, i monasteri per donne del periodo che noi chiamiamo Alto Medioevo (VI, VII, VIII secolo). Eppure il luogo e l’evoluzione di questi monasteri è cosa assai significativa per quanto riguarda il modo di collocarsi della donna nella società di allora.

Il primo monastero organizzato come tale e riservato alle donne è costituito da grandi dame della società romana, giovani e meno giovani che si riuniscono a Roma accanto a San Girolamo e, dopo, in Palestina a Betlemme; è degno di nota per noi la gran fame di sapere che queste signore manifestano.

Per alcune di esse, per esempio Paola, Eustachia, Marcella, abbiamo l’epistolario che è fitto di domande spesso difficili rivolte a San Girolamo che è il loro maestro. C’è da chiedersi se questo episodio non segni l’inizio di una tradizione, perché ci si avvede del fatto che i monasteri femminili del Medio Evo sono luoghi di grande studio. Evidentemente una donna che trovi interessante la vita intellettuale troverà quasi naturale entrare in un convento dove condurrà certo una vita di preghiera, votata all’obbedienza e alla castità, ma anche una vita votata agli studi.

Nel XII secolo la famosa Eloisa ci sorprende perché voleva studiare, ma non entrare in convento. I suoi contemporanei ne sono meravigliatissimi: donna curiosa che rifiuta la via comune! Qual è la caratteristica di questi monasteri del VI, VII e anche dell’VIII secolo? Si tratta per lo più di monasteri doppi, nel senso che c’è una costruzione riservata ai monaci, ce n’è una per le monache e questi non si incontrano altro che in chiesa, ma tutti si trovano sotto l’autorità della madre del monastero, una badessa dunque. È curioso osservare che tra le mani della badessa i monaci fanno professione, alla badessa spetta l’autorità tanto sui monaci quanto sulle monache. Intendiamoci: questo fatto deriva da una necessità del tempo. Siamo in un’epoca in cui si vive di ciò che si coltiva, un’epoca in cui i trasporti sono costosi e difficili e dove di conseguenza bisogna vivere di ciò che si trova sul posto. È ovvio che le monache avessero bisogno dei monaci per la stessa vita liturgica poiché solo l’uomo è investito di sacerdozio, né si poteva sperare che tutti i giorni o almeno qualche giorno alla settimana un sacerdote intraprendesse un viaggio come può farlo oggi per recarsi al monastero. È normale perciò che nel monastero vi sia un corpo di fabbrica riservato ai monaci; d’altro canto dato che ai monaci era riservato il servizio liturgico, dal momento che ci si trovano, compiono anche i lavori pesanti: arare, seminare, fare il raccolto, cosa che le donne non avrebbero potuto fare agevolmente. Ricordiamo inoltre che ci troviamo in un’epoca in cui mancano lo stato, la polizia, la giustizia, non c’è nulla di così strutturato, perciò se il monastero fosse stato attaccato da briganti, gli uomini si sarebbero trovati lì per difenderlo. Il doppio monastero risponde dunque perfettamente alle necessità dell’epoca. La vita in quei monasteri era certo molto armoniosa, e abbiamo del resto informazioni precise. Uno tra i più antichi e che conosciamo bene è il monastero di Faremoutiers; ai nostri giorni questo monastero è tornato a nuova vita, non già come monastero doppio, ma popolato da benedettine. La prima badessa fu Santa Fara della quale possediamo il testamento. La vita di San Colombano, del resto, fa molti riferimenti a quella di Santa Fara. Possiamo citare non pochi di questi doppi monasteri, del VII e dell’VIII secolo: Jouarre, Rougnamont, ove una delle badesse fu una santa ben nota, Santa Salaberge, della quale sono ben noti i miracoli e altre gesta. Altri ancora sono Pavilly, sempre in Francia, in Belgio Nivelle, e in Inghilterra la splendida abbazia di Whitby, la cui badessa Santa Hilda era notevolissima per le sue opere. Sotto la sua egida in quel monastero si riunì il Concilio del 664-66, concilio di grandissima importanza per la vita della chiesa poiché unificò gli usi tra le chiese celtiche e quella di Roma. Per quanto riguarda ad esempio la data della Santa Pasqua, era importante che tutta la cristianità celebrasse la resurrezione del Cristo il medesimo giorno, ed è proprio a questo concilio che tale giorno è stato fissato e universalmente accettato.

Il tempo successivo è quello terribile delle grandi invasioni soprattutto nel IX secolo; durante quel periodo la Francia è stata attaccata a sud dai cosiddetti Saraceni, a nord dai Normanni, a levante dagli Ungheresi. Queste invasioni hanno in comune la distruzione; la grande cattedrale di Chartres, che già esisteva, fu completamente distrutta; tutti i monasteri e tutte le chiese erano fatte particolare segno di distruzione proprio perché ci si aspettava di trovarvi dell’oro, ciò che è sempre stato una grande calamità per i saccheggi, un periodo terribile dunque che finirà solo durante il X secolo circa. Dopo di che si assiste a una rinascita di una vita monastica. A Fontevrau monaco e monaca si trovano sotto la direzione di una badessa. Ai nostri giorni sono stati compiuti non pochi lavori su Fontevrau, studi, scritti, tutti alla ricerca di spiegazioni varie. Non sarebbe stato meglio rivolgersi alla tradizione per capire che il doppio monastero di Fontevrau altro non era che un rinnovamento e una ripresa di un’antica tradizione della chiesa medievale? Tant’è che in questi monasteri femminili del XII secolo, le vite sono molto intense come del resto è intensa la vita spirituale. Abbiamo diversi esempi, tra questi la prima enciclopedia che abbia visto la luce in Europa. È nata in un monastero femminile, scritta da una donna. Mi riferisco all’opera detta Hortus deliciarum (il giardino delle delizie), scritta dalla badessa Herrade di Landsberg, XII secolo, manoscritto ad uso delle monache, assai copioso, composto verso il 1175-1185 e scomparso nell’incendio della biblioteca di Strasburgo nel 1870. L’opera era illustrata da una serie di miniature che erano state fortunatamente ricopiate cosicché oggi possiamo ancora leggerlo e studiarlo. Gli accademici americani che studiano lo sviluppo delle tecniche medievali attingono appunto a questo manoscritto.

Di un’altra badessa dobbiamo ora parlare, Ildegarda di Bingen. In età assai giovane Ildegarda è stata messa in un doppio monastero, aveva sette o otto anni quando è stata affidata al monastero di Disibodenberg, di origini irlandesi. Ildegarda rimarrà lì, ne sarà eletta badessa all’età di 20 o 22 anni. Per 40 anni la sua vita è quella di una semplice monaca, ma non una come le altre, non del tutto almeno; sin dalla più tenera età Ildegarda ha avuto una sorta di dono, quasi una preveggenza o almeno così ci viene riportato. All’età di tre anni si volse un giorno alla sua nutrice dicendo: "Che bel vitello è nel ventre di quella vacca, ha due macchie sulla fronte". Quando il vitello nacque portava proprio due macchie sulla fronte. Insomma Ildegarda ha l’occhio "ecografico", riesce a vedere oltre i limiti che tutti gli altri devono imporsi. Crescendo Ildegarda si accorge che la sua capacità visiva è diversa ma la tiene nascosta il più a lungo possibile forse per sottrarsi agli scherzi, forse per non essere diversa dagli altri. Finché all’età di 42 anni la voce interiore alla quale ella si affida le comanda di scrivere e descrivere le sue visioni. Questa visione ha il curioso nome di homo nel senso di uomo, essere umano. Riceve quindi Ildegarda l’ordine di scrivere tutto ciò che vede; obbedisce a questo ordine interiore, prende la penna e i suoi scritti danno luogo a una certa preoccupazione. Vi reagiscono l’abate di Disibodenberg, il vescovo di Mayance, nella cui diocesi Disibodenberg si trova, e vien presa una decisione: si organizzerà un sinodo che verrà inaugurato nel 1147 a Trèves, sinodo preparatorio del concilio di Reims dell’anno successivo. Il Papa in persona, Eugenio III, ha deciso di partecipare e viene colta l’occasione di presentargli Ildegarda col suo primo lavoro, Scivias, cioè Conosci le vie del Signore. Accade che i prelati riuniti a Trèves si interessino a questo lavoro e che lo stesso papa, profondamente commosso, legga davanti al sinodo parte degli scritti di Ildegarda. Agli applausi di San Bernardo, che si trova presente e che è la coscienza stessa della cristianità di allora, segue la sua conclusione: non spegnamo una luce così viva. Tanto che Ildegarda ne trae l’approvazione della Chiesa e continua a scrivere delle sue visioni dell’universo assai sorprendenti, sconvolgenti addirittura, che descrivono un universo senza limiti, un universo in continua creazione, che sorprende e affascina(1). Ildegarda raggiunge subito una grande notorietà e una pari popolarità e in molti vengono a trovarla. Ildegarda fonderà, dopo aver lasciato il doppio monastero di Disibodenberg, fonderà due monasteri in successione, il primo a Birgen, sul Rupertsberg (Monte San Ruperto), il secondo a Eibingen; di questo abbiamo ancora qualche resto.

L’epistolario di Ildegarda è molto ricco, i suoi corrispondenti sono d’ogni genere e tutti le chiedono consiglio; tra questi si contano 4 papi, l’imperatore Federico Barbarossa, il quale convoca questa piccola monaca ed è sorprendente pensare all’imperatore Federico Barbarossa che si mette a tu per tu con una fragile monachella cagionevole di salute che dà all’imperatore vari consigli, gli dice a cosa deve badare, quali minacce lo sovrastano. Ci rimangono circa 350 lettere di Ildegarda con i suoi corrispondenti. Ora non vorrei andar troppo lontano ma c’è un’altra questione degna di nota: per ben 4 volte viene invitata Ildegarda a predicare non in altri conventi, in altri piccoli monasteri, ma in cattedrali importanti, tra le quali l’immensa cattedrale di Colonia, ancora in costruzione a quei tempi: anche in quel XII secolo dove si dà molto più fiducia alla donna di quanto non sia accaduto dopo sin dal ‘500 è veramente un fatto straordinario.

Ricorderò ancora che Ildegarda è stata anche una grande musicista. Sappiamo inoltre che ella è l’autrice delle sole due opere di scienze naturali o medicina composte in occidente nel XII secolo. Oggi queste opere hanno acquistato un nuovo pubblico, tradotte in francese; quanti si interessano oggi di medicina o di farmaci vegetali, dimostrano un grande interesse per gli scritti di Ildegarda. Non le è mancata la consapevolezza del pericolo della setta dei Catari (non si può parlare di eresia ma chiamiamola una setta). Si crede che siano esistiti solo nel meridione francese, nella regione di Tolosa, mentre ai tempi di Ildegarda molti sono i Catari soprattutto tra i mercanti, personaggi attivissimi, sulle rive del Reno. Ildegarda ha raccomandato alla Chiesa, e la Chiesa avrebbe fatto bene ad ascoltarla, che tutti costoro avrebbero dovuto essere espulsi dalle città, ma non messi a morte. Immediata è la moderazione che ella tenta di imporre allo zelo dei signori tedeschi e germanici che avrebbero voluto sbarazzarsi di questa setta; non ucciderli, dice Ildegarda, perché anch’essi sono a immagine di Dio. Nella regione di Colonia i suoi consigli sono stati accettati e purtroppo però non così nella regione di Tolosa, ove 30 o 40 anni dopo, avrà luogo la disastrosa guerra degli Albigesi. Ebbene Ildegarda queste guerre le aveva annunciate, come aveva annunciato lo schiudersi di un periodo dolcissimo. La sua descrizione di questa dolcezza non può non portarci alla intelligenza dell’attesa all’arrivo di San Francesco e Santa Chiara che in queste regioni dovevano manifestarsi.

Jean Gimpel, Esperto di architettura e tecnologia medioevale

Gimpel: Vorrei esordire con un omaggio a Régine Pernoud che è riuscita ad allontanare definitivamente l’idea che avevamo noi francesi del Medio Evo, quella che il Medio Evo fosse un’epoca di tenebre.

Quest’opera aveva avuto inizio sin dall’Ottocento. L’idea che il Medio Evo fosse un’epoca di tenebre aveva visto la luce durante il Rinascimento, che era convinto di riscoprire l’antichità ignorata dal Medio Evo. In verità il Medio Evo aveva una conoscenza profonda dell’antichità filosofica e scientifica. Ciò che il Medio Evo aveva consapevolmente ignorato era la letteratura dell’antichità, e ciò che in Francia viene chiamata Crociata delle Cattedrali, un’epoca che va dall’inizio del XII alla fine del XIII secolo, la si deve in parte alla riscoperta dell’antichità. Negli anni tra il 1120 e il 1130, a Toledo, furono tradotte le opere di ricercatori arabi che avevano a loro volta tradotto i lavori scientifici dei Greci. Se volessimo una prova della profondissima influenza dell’antichità sul Medio Evo dovremmo osservare i personaggi del bellissimo portale del XII secolo della cattedrale di Chartres. Si tratta dei pensatori che incarnano le cosiddette arti liberali: Prisciano, Aristotele, Boezio, Tolomeo, Euclide e Pitagora. Sopra questo famoso portale si vede un rosone del XIII secolo disegnato dall’architetto ingegnere Villard de Honnecourt. Questi visse nella prima metà del XIII secolo. Quando osserviamo i disegni di questo rosone ci accorgiamo del fatto che Villard li ha fatti servendosi di un compasso; di questo compasso si vedono i fori sulla pergamena. Se del compasso vi parlo è perché voglio ricordare una celebre miniatura che mostra Dio armato appunto di un compasso mentre crea il globo terrestre. Oggi Dio sarebbe rappresentato nella creazione del mondo davanti ad un calcolatore, davanti ad un computer; l’universo creato da questo Dio è senza dubbio rotondo. Tengo a precisare questo fatto perché purtroppo vi sono in occidente personalità che continuano a credere che nel Medio Evo si pensasse che la Terra fosse piatta, ma nessuno al Medio Evo la pensava così. Un documento che prova la consapevolezza che aveva il Medio Evo della rotondità della Terra è l’illustrazione che rappresenta due angeli che avvalendosi di strumenti meccanici, fanno girare la Terra. Questa miniatura dimostra fino a che punto il Medio Evo aveva la mente meccanica. Il codice di Villard de Honnecourt ci conferma che il Medio Evo era vicino all’antichità. Molti suoi disegni rappresentano infatti personaggi romani. Villard aveva tratto grande ispirazione da Vitruvio. Il Rinascimento a lungo ha voluto far credere che la riscoperta di Vitruvio fosse dovuto all’umanista Poggio che per primo ha riscoperto un manoscritto di Vitruvio nel 1414 fra i tesori della biblioteca del monastero di San Gallo; in realtà molti sono i manoscritti di Vitruvio che già si trovavano nelle biblioteche in tutta Europa.

Ho parlato dello spirito meccanico del Medio Evo; questo spirito molto bene si esprime in un disegno di Villard de Honnecourt, mi riferisco ad un disegno di un moto perpetuo; in origine questo moto perpetuo era stato ideato da un astronomo e matematico indiano, Bhaskara nel 1159. Questo disegno mostra l’appassionato interesse che avevano gli uomini del Medio Evo per i problemi dell’energia. Leonardo da Vinci aveva concepito un moto perpetuo alquanto simile a questo di Villard; gli italiani oggi sanno che Leonardo da Vinci era un topo di biblioteca, egli ha tratto ispirazione da molti manoscritti talvolta di diversi secoli prima di lui. Io ho fatto diverse conferenze contro Leonardo da Vinci, qualche anno fa ad esempio a Milano: mi ero fatto un’assicurazione sulla vita. Oggi ho potuto farne a meno perché Paolo Galuzzi, direttore del museo di storia delle scienze a Firenze, ha organizzato nel 1991 a Siena una mostra, "Prima di Leonardo", dove si vede che molti ingegneri prima di lui avevano già ideato le macchine che egli poi disegnò, tra questi Taccola o Francesco di Giorgio. Nessuna delle macchine di Leonardo ha funzionato. Quando abbiamo voluto costruirle o ricostruirle in un museo in Francia, ci siamo accorti che diverse andavano a marcia indietro. Ciò che si ignora, però, è che ci fu un altro disegnatore di macchine, Giovanni di Dondi, di cui s’occupa il Bozzolato a Padova, il quale aveva ideato un orologio astronomico.

Ma torniamo alle cattedrali. Il bello delle cattedrali è che sono casa di Dio e a un tempo casa del popolo. Vi si poteva far la corte alle ragazze, bere, andare a spasso, che a quei tempi fortunatamente non vi erano ingombri di sedie, vi si poteva portare il cane o, perché no, lo sparviero, vi ci si poteva riunire per parlare delle questioni della città, ed era sempre aperta e frequentata da tutte le classi sociali.

Colpisce il confronto, o il contrasto, col Partenone ove l’ingresso era vietato al popolo. Plutarco ci narra dello scandalo del Partenone, costruito da Pericle con denaro rubato al tesoro delle città greche. È meraviglioso nella crociata delle cattedrali osservare che il popolino volontariamente ha dato per la costruzione di questi edifici religiosi. Abbiamo conservato i libri contabili delle cattedrali a riprova di questo fatto sorprendente. Gli operai che hanno costruito queste cattedrali erano relativamente ben pagati. Abbiamo anche i loro libri paga. Operai, dico bene, si tratta di una parola che esiste già in francese antico, non artisti. Questa parola, questa nozione, non esisteva a quei tempi. Quella di artista è una nozione dovuta al Rinascimento. Nel ‘400 l’umanista Marsilio Ficino fece scrivere che l’uomo crea al pari di Dio, ciò del resto ha dato l’opportunità a Michelangelo di chiamarsi il divino Michelangelo, almeno a suo dire. Questi operai conducevano perciò una vita onesta e non si ammazzavano di lavoro. Siccome le feste religiose erano assai numerose l’operaio lavorava cinque o addirittura quattro giorni e mezzo alla settimana. Il loro lavoro nel corso dei secoli è stato notevolissimo. Ma il numero di ore era evidentemente più elevato di oggi.

Tempo tre secoli tra il 1050 e il 1350, la Francia ha tratto dalle cave molte migliaia di tonnellate di pietra, per costruire 80 cattedrali, 500 grandi chiese e qualche decina di migliaia di chiese parrocchiali. Le fondamenta delle cattedrali raggiungono i dieci metri di profondità; la cattedrale di Amiens con i suoi 7700 metri quadrati, poteva accogliere l’intera popolazione della città, circa diecimila persone che potevano assistere insieme alla stessa cerimonia. Per fare un confronto con tempi moderni, dobbiamo immaginare oggi in una città di un milione di abitanti, la costruzione di uno stadio costruito nel cuore della città, che possa accogliere un milione di spettatori. L’altezza delle navate, delle torri e delle guglie ci lascia a bocca aperta; per uguagliare la guglia di Chartres che è di 105 metri, dovremmo costruire un grattacielo di 30 piani, mentre per raggiungere la guglia di Strasburgo dovremmo costruire un grattacielo di quaranta piani.

Ma quale è stato l’impulso che ha condotto gli uomini di quell’epoca a costruire edifici così grandi? Evidentemente in primo luogo la fede, non trascurabile tuttavia c’è anche il ruolo della vanità, della borghesia e dei municipi, che volevano tutte avere volta, cupola, o meglio una guglia più slanciata di quella dei vicini.

Per molti anni ho messo a confronto questa gioia o questa follia di costruire, alla gioia o alla follia con cui negli Stati Uniti, nel XX secolo si costruivano grattacieli sempre più alti e sono stato condotto a studiarne l’evoluzione parallela del Medio Evo francese e degli Stati Uniti, e a prevedere la decadenza degli Stati Uniti e indirettamente di tutto l’occidente, solo grazie alle conoscenze che avevo del Medio Evo. Così nel 1977, ho organizzato a Los Angeles una conferenza nel tentativo di rallentare la decadenza dell’Occidente, ma non ho avuto successo. Ora ho preparato un piano o programma ORSEC (un programma di aiuti, un organizzazione di soccorso) per il giorno in cui Wall Street e tutti i gangli finanziari del mondo cederanno trascinando con sé l’intero sistema bancario internazionale. Sarà la fine della nostra civiltà e sono pronto e disposto a discorrere e discutere di questo progetto con tutti quanti fossero interessati da questo dramma internazionale, nazionale, e personale.

È opportuno chiedersi perché in Inghilterra questa crociata delle cattedrali non sia giunta. Una delle ragioni di ciò è che non poche cattedrali sono sorte sul sito di monasteri. I monaci non erano così competitivi, almeno non quanto i borghesi. Vorrei concludere ricordando che nel Medio Evo l’Inghilterra era un paese in via di sviluppo. Certo sapete che l’Inghilterra aveva preso a prestito grosse somme a Firenze intorno al 1330, quando Firenze era il centro finanziario dell’Occidente, era la Wall Street di allora. Nel 1337 l’Inghilterra ha smesso di onorare i suoi debiti il che ha dato luogo alla bancarotta dei banchieri di allora, i Bardi e i Peruzzi. Pare addirittura che i Peruzzi siano ancora in causa con l’Inghilterra per ottenere il pagamento degli interessi. Ma torniamo alle nostre cattedrali e al nostro Villard de Honnecourt. Questi è nato in un villaggio ove era esistito un doppio monastero, di quelli di cui vi ha parlato Régine opportunamente. In quel monastero la badessa aveva l’autorità anche sui monaci. Si tratta di una circostanza quasi unica nella storia: la donna per fortuna aveva la precedenza sull’uomo.

 

NOTE

(1) È quasi divertente rilevare a distanza di tempo come l’opera di Idelgarda è stata percepita. Ildegarda scriverà tre lavori: il Scivias il Libro dei meriti della vita, il Libro delle opere divine. Soprattutto il primo e il terzo si riferiscono a questa sua visione dell’universo, la cui descrizione nel ‘600 veniva considerata con una certa sufficienza perché si pensava ad un universo chiuso, universo di cui si potevano conoscere i limiti, mentre ancora nell’Ottocento affermati maestri dichiaravano che ben presto la scienza dell’universo sarebbe giunta ai suoi limiti fisici e che si sarebbe arrivati a conoscere tutto quel che dell’universo c’era da conoscere. Pare chiaro oggi che questa pretesa di conoscere tutto l’universo ci pare risibile. E oggi gli astrofisici leggono con molto interesse gli scritti di Ildegarda e la sua visione dell’Universo che meglio si raccorda con quella degli scienziati, oggi che si è d’accordo con l’idea di un universo illimitato e in continua creazione.