Internazionalizzazione dei mercati.
Il ruolo dei Governi nella cooperazione
Venerdì 27, ore 15
Relatori:
Beniamino Andreatta
Marek Zdrojewzki
Arturo Alberti
Beniamino Andreatta, Ministro degli Affari Esteri
Andreatta: Un teologo anglicano scriveva che nelle cose complesse il diavolo molto spesso lascia i segni della sua coda. I problemi della internazionalizzazione dell’economia, della solidarietà e del destino del sistema degli uomini organizzati nelle loro attività produttive sono una questione complessa. Quindi avremo spesso a che fare con il diavolo, perché le soluzioni semplici alle cose complesse spesso sono contraddittorie e producono risultati opposti a quelli che si intendevano produrre.
Dobbiamo anzitutto chiederci cosa significa e che valore ha la nostra solidarietà. Scendiamo in piazza perché si chiudono alcune aziende o perché i contadini di montagna hanno un reddito inferiore a quelli della pianura padana. Ma l’effetto di questa nostra solidarietà è di escludere un numero cinque o dieci volte superiore di uomini dalle loro attività produttive perché l’elemento essenziale per la crescita del mondo sottosviluppato è l’accesso al mercato dei paesi che hanno grande capacità di consumare.
Su un reddito mondiale di 20 mila miliardi di dollari, i 3 o 4 mila miliardi di dollari di importazione e di esportazione costituiscono, per i nuovi paesi, la possibilità della garanzia di un mercato. Quasi tutti i tentativi di procedere allo sviluppo creando produzione e simultaneamente domanda, sono falliti. I teorici latino-americani dello sviluppo equilibrato hanno condannato per vent’anni un continente ad essere al traino delle altre economie. I 30 o 40 paesi che da paesi in via di sviluppo sono diventati paesi di media industrializzazione lo hanno fatto perché si sono specializzati lungo precise linee di produzione e hanno giocato sul mercato mondiale. Non ci si libera la coscienza attraverso l’assistenzialismo e il riformismo interno, dando qualche briciola dei bilanci pubblici al finanziamento della cooperazione per lo sviluppo da parte dei paesi ricchi della Terra. E’ soltanto la disciplina, la regola del gioco del libero mercato che permette la diffusione a lungo termine di livelli di vita, di decenza, di consumo accettabili.
Naturalmente questo richiede che il nostro benessere sia conquistato giorno per giorno con la nostra intelligenza; non c’è un destino dell’uomo europeo che gli assicuri la possibilità di mantenere il suo tenore di vita storico ed egli sa che le attività che oggi produce saranno messe in crisi dalla entrata di forze di lavoro, in Africa o in Asia. Se vuole mantenere un tenore di vita elevato, deve investire di più nel suo capitale umano ed evitare, tramite il protezionismo, tramite regole di accesso al mercato progressivamente limitate, di rendere più difficile la vita dei miliardi di persone che hanno l’ambizione di partecipare alla piena dignità dell’uomo.
Vorrei anzitutto evidenziare che per partecipare allo sviluppo occorrono alcune dotazioni, soprattutto nel campo della conoscenza. Non è sufficiente che i mercati siano aperti, è necessario che ci sia anche tensione, spinta, informazione. Questo difficilmente si trasmette attraverso il mercato.
Maria Teresa e i principi illuminati fecero qualcosa del genere nel ‘700 per creare le infrastrutture per lo sviluppo dell’800.
C’è una dinamica antropologica nello sviluppo e non è possibile far accere popolazioni che non hanno esperienza della logica occidentale, della logica matematica, all’utilizzo delle conoscenze contemporanee.
Per partecipare allo sviluppo del mondo non sono necessari solo mezzi materiali, ma anche le concentrazioni professionali di strudiosi, esperti, tecnici, su problemi del Terzo Mondo, che spesso non sono disponibili.
Una società diventa importante per il Terzo Mondo non in relazione al volume delle risorse finanziarie ad esso destinate, ma alla sua capacità di determinare vocazioni nel pubblico dei suoi professionisti, dei suoi studiosi. La cooperazione deve essere valutata soprattutto nella sua capacità di creare nelle Università, nella ricerca, l’attenzione sui problemi che servano allo sviluppo globale nelle condizioni climatiche e antropologiche delle popolazioni che dobbono svilupparsi. Nonostante le grandi somme investite negli ultimi 15 anni, ben poco si è fatto in questa direzione.
Occorre anche distinguere l’assistenza industriale e l’azione per lo sviluppo. Se i paesi industriali vogliono assistere le loro imprese, lo facciano con i loro fondi diversi; ma deve esserci una concentrazione, magari limitata, di risorse, diretta allo sviluppo umano complessivo. Nei 10 anni passati, abbiamo disperso fondi in 135 paesi, senza che se ne conoscesse l’ambiente umano, politico, culturale, su sollecitazione delle imprese, le quali corrompevano talvolta i Governi, perché venisse loro affidata una certa opera pubblica: questa non è cooperazione allo sviluppo.
Occorre abbandonare i grandi progetti di opere pubbliche con tecnologie occidentali perché così come si è creato un assetto di infrastrutture europee con la tecnologia del ‘700, non c’è nessuna ragione di usare oggi le tecnologie sviluppate non imitabili dalle popolazioni in via di sviluppo, ma è importante che essi si costruiscano quelle infrastrutture che sono state create senza macchinari nel ‘700 e ‘800. E’ necessario operare per questo sviluppo umano complessivo: da qui deriva la funzione del volontariato, delle organizzazioni non governative.
Le O.N.G. sono state il frutto della solidarietà nazionale, esse debbono essere riportate alla loro funzione. Se confrontiamo i risultati ottenuti attraverso la macchina burocratica, con ciò che da 120, 130 anni il popolo italiano nelle sue espressioni più autentiche ha saputo creare attraverso le attività missionarie, pur con limitatissimi mezzi, ci accorgiamo che ciò che importa è la tensione, la dedizione e non i mezzi finanziari.
Marek Zdrojewski, Vice Ministro polacco del Ministero delle Privatizzazioni
Zdrojewski: Il mio intervento di oggi sarà caratterizzato da una grossa dose di soggettivismo, causato dal fatto che sono venuto da un Paese che fino a poco tempo fa era molto lontano e che solo ora sta uscendo dai gravami sociali ed economici del sistema comunista. Dal 1990 l’economia polacca tende al mercato libero, abbiamo rotto con l’amministrazione centralizzata, quindi da un Paese di produttori siamo diventati un luogo in cui il successo economico non consiste nel produrre qualcosa, ma nel riuscire a vendere quello che si produce. Dopo quarant’anni di economia irrazionale, il mercato polacco è orientato al mercato dell’ex Comecon, e soprattutto ai mercati dell’ex Unione Sovietica.
La nostra industria è caratterizzata da un alto consumo di energia e di materiali: non abbiamo vissuto la rivoluzione energetica degli anni ‘70, quando in Europa, a causa dell’aumento del prezzo dei carburanti liquidi, sono state introdotte delle tecnologie che risparmiassero energia. Siamo rimasti indietro e oggi dobbiamo risolvere questo problema.
Nel primo periodo di trasformazione, tra il ‘90 e il ‘91, abbiamo avuto a che fare con un forte calo della produzione industriale, il prodotto interno lordo è diminuito del 30% a causa della diminuzione della domanda interna e dalla fine del ‘91 abbiamo avuto a che fare con un forte calo della produzione industriale; il prodotto interno lordo è diminuito del 30% a causa della diminuzione della domanda interna e della fine del Comecon. Al tempo stesso parte dell’industria polacca si è orientata verso i mercati occidentali, cosicché nel ‘91 la vendita di merci in valuta convertibile è aumentata del 40%, nonostante la diminuzione generale della produzione e il calo dell’esportazione del 10% negli ex paesi comunisti.
Questo boom delle esportazioni è stato causato anche dal basso prezzo dell’energia e dei materiali, che venivano ancora dal periodo di collaborazione con gli ex paesi comunisti. Attualmente sono in corso tentativi di ricostruzione dei legami commerciali con l’Est come ha dimostrato l’ultima visita del presidente russo Eltsin in Polonia. Il problema però è molto complesso: si tratta della possibilità di farsi pagare le merci mandate all’Est. Il sistema del baratto è molto difficile perché i Paesi post-sovietici vivono anch’essi il dramma della recessione e cercano mercati per i loro prodotti industriali. Invece per noi i loro prodotti non sono molto interessanti. Quindi il bilancio del nostro commercio estero è in peggioramento; attualmente il nostro deficit è di circa un miliardo di dollari. Questo è causato dalla crisi generale dell’economia mondiale e dal fenomeno della chiusura dei mercati nei confronti dei nostri prodotti.
La Polonia con il suo potenziale di popolazione e produttivo gioca un ruolo troppo piccolo nel commercio internazionale. Ma il commercio estero è particolarmente importante per Stati come il nostro che non soltanto devono guadagnare per importare, ma devono anche pagare i loro debiti, dell’entità di circa 50 miliardi di dollari. Ci rendiamo conto che la base di una possibile futura presenza della Polonia negli scambi commerciali è il funzionamento di una libera economia di mercato nel nostro Paese, quindi l’esistenza di operatori economici capaci di esistere in una situazione di concorrenza, capaci di produrre merci e servizi che verranno acquistati sia all’interno del Paese che nel mondo per la loro qualità, per il loro prezzo. A questo scopo servono le privatizzazioni. Vogliamo che esse determinino la costituzione di operatori commerciali sani che siano portatori di progresso tecnologico. Tuttavia la modernizzazione della produzione esige dei grossi investimenti.
La Polonia per raggiungere i Paesi sviluppati deve compiere degli investimenti per un valore di circa 1500 miliardi di dollari. Naturalmente il nostro capitale nazionale non è in grado di assolvere un compito del genere: quindi il ruolo degli investitori stranieri è molto importante. Per questo appoggiamo gli investimenti stranieri legati alla trasformazione della nostra economia, che introducano nuove tecnologie e nuove licenze che assicurino il finanziamento dei processi di modernizzazione, che rendano accessibili i mercati, che contribuiscano alla promozione della Polonia sui mercati stranieri.
Vale la pena di investire in Polonia, soprattutto per la grande estensione del mercato interno: abbiamo una popolazione di 40 milioni di persone, una posizione geografica molto favorevole, all’incrocio tra le vie dell’Asia e dell’ Europa. Un altro argomento a favore nostro è la stabilità politica. Siamo omogenei dal punto di vista etnico e religioso; la Chiesa assolve un ruolo di stabilità, la nostra tradizione di imprenditoria privata è stata salvata nel periodo del comunismo. Un altro argomento a nostro favore è anche la certezza del diritto. Istituzioni come i Tribunali, gli Avvocati sono del tutto indipendenti dall’amministrazione. Lo sviluppo della legislazione nell’ambito del diritto economico tende continuamente ai principi del mercato libero.
Un altro fattore molto importante è l’irreversibilità delle nostre riforme economiche, indipendentemente dai progressi della privatizzazione dell’industria statale: attualmente già il 60% dei lavoratori lavora nel settore privato ed il 50% del reddito nazionale proviene dal settore privato.
Abbiamo anche nell’ultimo periodo tendenze positive nella nostra economia: il prodotto interno lordo nel 1992, dopo la crisi di cui ho parlato prima, è aumentato del 2%, quest’anno aumenterà del 4% e l’anno prossimo si prevede una crescita del 7%. Abbiamo fermato l’inflazione galoppante: nel 1992 ammontava al 43%, attualmente è del 38%, l’anno prossimo diminuirà fino al 20%.
Un’ultima cosa che potrebbe invogliare ad investire in Polonia è il fatto che molte persone e molte ditte hanno la capacità di muoversi sui mercati della Bielorussia, dell’Ucraina e della Russia.
Arturo Alberti, presidente dell’AVSI
Alberti: Sono qui come rappresentante di una O.N.G. (Organizzazioni Non Governative, associazioni liberamente costituite che partecipano alla cooperazione e allo sviluppo, e vi possono contribuire anche attraverso finanziamenti che ottengono dalle varie istituzioni nazionali e internazionali, in particolare in Italia dal Ministero degli Affari Esteri). In questi anni ci sono state tante polemiche sulla cooperazione, anche molti organismi non governativi si sono comportati in maniera non adeguata al loro compito. Ci sono anche state esperienze positive che vanno valorizzate. Queste esperienze vanno viste nell’ottica della possibilità di contribuire ad uno sviluppo integrale. L’effettiva capacità di intraprendere, di mettersi a fare qualche cosa, da una parte porta all’autonomia e alla responsabilità della persona, dall’altra è necessario che si colleghi ad essa una ragionevole solidarietà. E’ possibile tentare di realizzare un’imprenditorialità economica nei paesi in via di sviluppo, la difficoltà fondamentale dell’intraprendere è data dal fatto che simili reti di solidarietà sono praticamente assenti. Compito della cooperazione potrebbe proprio essere quello di mettere a disposizione di chi cerca di intraprendere e di costruire il futuro del proprio paese simili reti di solidarietà. Fra la divinizzazione del mercato, propria di un certo positivismo capitalistico, e la sua demonizzazione, propria della concezione marxista dello sviluppo, vi è lo spazio di una valutazione realistica della possibilità di un uso alternativo del mercato e di una coniugazione di mercato e solidarietà. Non ci si può aiutare soltanto per un umanitario buon cuore, ma occorre fare in modo che questi nuovi popoli siano capaci di fare affari, in un contesto capace di mobilitare le iniziative dei popoli per il proprio sviluppo.
Nell’ambito di una cooperazione che abbraccia l’intera iniziativa umana, occorre coinvolgere tutte le risorse disponibili e tutte le energie. Le popolazioni interessate devono essere parte attiva del processo di sviluppo.
Come diceva il Ministro, ci sono situazioni culturali e antropologiche estremamente diverse da paese a paese. Ritengo che qui si collochi un compito fondamentale delle ONG, e dei volontari. L’esperienza mi conferma che un organismo non governativo può essere un importante soggetto di cooperazione, soprattutto attraverso la presenza di volontari.
L’incontro tra uomini – garantito dalla presenza dei volontari – è estremamente importante per far sì che non ci sia una prevaricazione di culture, ma che ci sia invece un incontro.
Vogliamo porci a disposizione della cooperazione a tutto campo, come soggetti, capaci di mobilitare risorse finanziarie, morali, umane, strutturali e capaci di coordinarle, anche di farle fruttificare nel modo migliore possibile per le popolazioni in cui andiamo ad operare. Vogliamo accettare questa sfida e mettere a disposizione le nostre risorse, le nostre capacità e la nostra storia, affinché ci sia una reale sinergia di uomini per portare i popoli più poveri verso un destino migliore.