Anche nudi ma liberi di educare
Venerdì 29, ore 18.30
Relatori:
Bruno Coppi del Physics of High Energy Plasmas di Cambridge (Massachusetts)
Luigi Berlinguer, Ministro della Pubblica Istruzione
Eddo Rigotti, Docente di Linguistica presso l’Università Cattolica "Sacro Cuore" di Milano
Lorenzo Strik Lievers, Riformatori
Stefano Versari, Presidente Nazionale AGESC
Modera Mario Mauro
Mauro: Questo incontro rappresenta un momento molto importante per chiarire in che modo si può tentare di riformare il nostro sistema educativo, ma soprattutto per chiarire dove può portare un dialogo vero. Ciò che abbiamo a cuore non è tanto raggiungere una piccola serie di soluzioni di compromesso, quanto fare un passo avanti verso la verità.
Il confronto col ministro Berlinguer era cominciato l’anno scorso a Rimini, quando il ministro aveva illustrato i punti programmatici del suo operare; durante questo anno non sono stati pochi i momenti di confronto duro e di scontro. Ci sono molte cose che ci tengono distanti, dobbiamo però vedere quali cose possono unirci per il vantaggio del paese, evitando i fraintendimenti.
Rigotti: Il ruolo del linguista in qualsiasi dibattito è fondamentale, perché può dare un apporto sostanzioso alla vita sociale: il tornare sulle parole è importante perché permette di dare maggiore sostanza al dialogo, possibilità di successo alla convivenza, maggior saldezza al consenso sociale. Infatti in questo nostro secolo la convivenza ha sofferto tragicamente proprio perché quel grande strumento della ragione che è la parola è stato compromesso: è venuta meno la sua definitezza, il suo aggancio alla realtà ed è potuta diventare strumento di manipolazione, di lotta politica, di lotta sociale, di lotta ideologica. Restituire dignità a quello strumento della ragione che è la parola - che è il mestiere del linguista - è in qualche modo restituire saldezza, restituire sostanzialità alla convivenza e al consenso sociale.
In questo dibattito sono implicate numerose parole, estremamente delicate, le stesse parole con cui questo nostro secolo ha largamente e spesso tragicamente dibattuto. Anzitutto la parola educazione, poi quella connessa, libertà. E in terzo luogo la parola Stato.
La parola educazione sottintende un grande e rilevante tema, ed interessa il comunicazionista perché l’educazione è una comunicazione pedagogica, è una comunicazione fra generazioni. Non va dimenticato questo aspetto fondamentale di comunicazione, dunque di partecipazione, di esperienza. Ma sorge spesso il sospetto che inevitabilmente l’educazione come ogni comunicazione, possa essere manipolatoria, quando diventa il tentativo di definire, di determinare l’altro nella sua posizione umana. La condizione per cui questo dialogo essenziale, rilevante, indispensabile per la continuità della civiltà umana che è l’educazione abbia luogo ancora sensatamente e non manipolatoriamente è la libertà.
Questa seconda grande parola in tutta l’ideologia del ’900 è usata in modo addirittura straripante e in numerosissime accezioni: le possibilità manipolatorie di questa parola tanto cara al cuore umano sono dunque molteplici. Se ad esempio per libertà si intende la pura indefinitezza, l’indeterminatezza dell’automa, è una libertà non umana, è al di sotto dell’essenza dell’uomo, e consente la manipolazione. La libertà prende sostanza, è autenticamente umana quando è una apertura alla realtà: non basta l’indecisione di fronte alla scelta, alle alternative. Si dice infatti che l’asino di Buridano davanti a due mucchi di paglia assolutamente uguali sia morto di fame: aveva ragione a morire di fame, perché non basta che ci sia una pluralità per scegliere, deve essere una pluralità significativa, una pluralità connotata da differenze reali, da differenze significative per chi sceglie, per il suo destino, per la sua felicità. Pluralismo, autentica differenza e quindi rispetto autentico delle differenze sono condizioni indispensabili della libertà.
L’educazione può essere apertura alla libertà, e dunque autentica comunicazione fra le generazioni, se sa in qualche modo garantire questo rapporto con l’essere che la libertà vuole. Educare è proprio accompagnare nella realtà con una ipotesi, con un senso che si propone al giovane, un senso che si verifica in una esperienza condivisa. Una scuola autentica può essere soltanto qualcosa di così fatto: il proporre nella libertà una ipotesi, una ipotesi di senso, ipotesi anzitutto conoscitiva, ma non solo, una ipotesi di senso che si verifica in una esperienza condivisa.
Un impegno di tale grandezza, così intimamente legato alla struttura più essenziale dell’uomo, al suo destino, può avere per soggetto esclusivo lo Stato? Lo Stato può essere il gestore ultimo della libertà e dell’educazione? Nel rispondere, dovremmo anche tenere presente quello che è successo in un secolo grande e tragico come quello che si conclude, nel quale proprio le ideologie appropriatesi degli Stati di volta in volta con ragioni, giustificazioni, e colori diversi, hanno preteso di dare la felicità ai cittadini, il senso all’uomo: ma questo è un compito che non può spettare allo Stato, perché davanti ad una società come la nostra, strutturalmente pluralista in tutti i suoi aspetti, lo Stato ha il compito di essere genuinamente laico: laico nel senso di garante della differenza.
In questa prospettiva, se con lealtà riconosciamo nel loro tessuto così delicato e così importante i termini su cui discutere, se lealmente ci confrontiamo con parole adeguate, questo dibattito, se il confronto è all’insegna del nitore della ragione, questo dibattito - che indubbiamente ha avuto momenti di asprezza perché il cuore di tutti noi era dentro a queste tematiche - può davvero dare dei grandi, inaspettati frutti.
Versari: L’appuntamento con il ministro costituisce, dopo un anno, occasione per un confronto aperto e leale, non solo sugli impegni futuri, ma anche sul lavoro dal ministro svolto fin qui. Bisogna dare atto al ministro Berlinguer - tenendo presente il detto popolare "chi non fa non falla" - che molto ha fatto, non moltissimo ha concluso, e anche molto ha fallato.
Ci preoccupa la situazione attuale della società italiana, in cui scorgiamo, con le parole profetiche dette da Del Noce dieci anni fa, un totalitarismo di nuova natura, assai più aggiornato, assai più capace di dominio assoluto. È il superpartito tecnocratico, che attraversa i partiti, che ha in possesso le sorgenti di informazione, che cura la propria apologia attraverso la casta degli intellettuali, che è equamente ripartito secondo le varie posizioni culturali e politiche, dai cattolici ai comunisti.
Ci pare che oggi questo superpartito guardi alla scuola come terreno di conquista: per ricrederci occorrerebbe che il ministro offrisse segnali convincenti, numerosi, rivelatori, diversi dalla giornata gramsciana e dai nuovi programmi di storia, segnali diversi dal confuso ed emendabile riordino dei cicli e dalla riforma degli esami di maturità, che vede il perpetuarsi della tutela sulla scuola non statale, segnali diversi dalla conduzione per circolari del mondo della scuola e dalla gestione del consenso degli studenti con la promozione e il sostegno strumentale di realtà associative studentesche quanto meno artificialmente gonfiate. È naturale desiderare interlocutori benevoli, ma non per questo se non se ne trovano, si inventano. In futuro il ministro potrà lasciarsi aiutare da una più convinta politica di concertazione con i soggetti della scuola, in primo luogo con le famiglie.
Il nostro impegno è per un progetto di scuola che porti benefici e vantaggi a tutto il sistema scolastico italiano e quindi a tutte la famiglie, anche a quelle che, avendo a cuore quanto noi il futuro dei propri figli, non si rivolgono alla scuola cattolica. La nostra preoccupazione è nei confronti di tutto ciò che è educativo e quindi contro tutto ciò che nella scuola non ha a che fare con l’educazione. Rivendichiamo per questo il primato educativo della famiglia; ne deriva che ogni intervento sulla o nella scuola deve partire dal riconoscimento che la scuola è sussidiaria alla persona e alla famiglia, e che gli interventi dello Stato non possono essere totalizzanti, ma finalizzati a fornire risposte ai bisogni e a creare le condizioni perché ogni singolo cittadino ed ogni formazione sociale realizzi i suoi scopi.
È questa la grande intuizione dell’autonomia, che è stata approvata e che ora è legge, che ha le stesse ragioni di fondo della parità: entrambe, affermando il primato della società sullo Stato, si basano sulla responsabilità e sulla libertà dei soggetti della scuola. Per questo motivo nel riproporre la centralità della famiglia nel percorso educativo, si richiama insistentemente la funzione della scuola a servizio del compito educativo della famiglia. Occorre perciò che in primo luogo i genitori, insieme agli altri soggetti della scuola, diventino responsabili in toto della scuola stessa, in modo che essa cessi di essere un diritto acquisito per concessione dello Stato, ma diventi un dovere collettivo da promuovere corresponsabilmente come bene comune in cui ciascuno e tutti devono intervenire.
La preoccupazione per una globale riforma della scuola italiana, attenta al bisogno della persona umana, porta ad una inevitabile conseguenza: l’urgente necessità per il paese della libertà di scuola, che sola può consentire l’esistenza di una scuola di libertà, per tutti, statale o non statale che sia. Per questo, la richiesta di una effettiva libertà di scelta educativa per la famiglia è tutto fuorché una battaglia a tutela di interessi di parte, è invece una battaglia per il bene comune. La libertà di educazione non è problema confessionale: purtroppo anche all’interno del mondo cattolico molti non comprendono che la scuola cattolica non è una istituzione della Chiesa, ma rappresenta il mezzo attraverso cui una comunità si misura con il fatto educativo.
La libertà di educazione dunque è un problema che coinvolge la libertà di scuola e con ciò la libertà civile del paese. La parità - lo ripeteremo fino alla noia - è per le famiglie, per tutte le famiglie italiane, perché possano liberamente scegliere il percorso educativo idoneo per i propri figli. Non si può di ridurre il problema parlando di soldi alle scuole private: il finanziamento non è il fine, ma il mezzo per il conseguimento di una effettiva libertà civile.
Lo scorso anno il ministro si impegnò in questa sede a favore di una libertà di scelta educativa nel paese, oggi dopo vari tentennamenti c’è una proposta di legge del governo. È sicuramente positivo che il Parlamento, dopo cinquanta anni, finalmente si potrà cimentare in questa discussione: dopo aver fatto pretattiche e discussioni sulla panchina per decenni, oggi l’arbitro ha fischiato l’inizio. Ma la partita - per rimanere nella metafora - è tutta da giocare e serve il concorso di tutti, nessuno escluso. Le preoccupazioni al riguardo sono varie.
Innanzitutto, temiamo che questo atto di equità si risolva di fatto - come ha detto il cardinal Biffi - in un’ulteriore e ancora più deprecabile ingerenza statalista.
In secondo luogo siamo contrari alla distinzione tra parità giuridica e parità economica, perché la parità è sinonimo di libertà e la libertà è o non è. Non esiste una mezza libertà: esiste la libertà vigilata che libertà non è. Comprendo le sollecitazioni pervenute al ministro dai dicasteri economici del governo, ma non si può non ricordare che il ministro stesso per primo teorizzò questa estemporanea distinzione tra l’affermazione di un principio, la parità giuridica, e la sua pratica applicazione, la parità economica. Il demandare l’attuazione della parità alla legge finanziaria, renderebbe non acquisito il diritto, sottoponendolo annualmente alle forche caudine delle discussioni parlamentari.
Per quanto riguarda gli strumenti della parità, l’ipotesi della convenzione è culturalmente arretrata, perché metterebbe la scuola non statale alla mercé di decisioni discrezionali della politica e della burocrazia. Inoltre il sistema delle convenzioni potrebbe innescare seri problemi giuridici, connessi all’articolo 33 della Costituzione. La convenzione potrebbe fare riaffiorare antichi dualismi territoriali, settoriali e culturali. I buoni-scuola, altra ipotesi, sono uno strumento difficile da realizzare. Vi è poi il credito di imposta formula che, con aggiustamenti per i redditi più bassi, valorizza il diritto della persona e il ruolo della famiglia, senza creare problemi burocratici all’amministrazione pubblica. È questo lo strumento che parrebbe incontrare il maggior numero di consensi trasversali.
Concludo con una frase di Aldo Moro all’Assemblea costituente il 22 aprile del ’47, che credo chiarisca il compito che spetta a tutti noi: "Spesso in questo anno il dibattito ha accentuato i dissidi, ma non dimentichiamo che il problema che dovrebbe trovarci tutti egualmente concordi, è il problema della scuola senza qualificazioni, statale o non statale che sia. Pensiamo in questo momento al di là delle necessità contingenti del dibattito, alla sorte della scuola in Italia, pensiamo a quella che essa può rappresentare, per la ricostruzione spirituale del nostro paese, ai mezzi più opportuni perché la scuola sia quella che deve essere, quella che vogliamo con ferma volontà che sia".
Coppi: C’è una necessità di rivedere la struttura della scuola pre-universitaria e una fortissima necessità di rivedere come vengono erogati e gestiti i fondi per la ricerca. Il ministro ha ereditato una situazione difficile, non è sua responsabilità la ben nota convivenza di penurie e di sprechi.
È nella natura della ricerca non sapere se una idea che si persegue o che viene proposta è veramente importante, anche se chi fa la ricerca non sa se quello che fa avrà dei frutti. A causa di questo è necessario permettere l’esistenza di una molteplicità di enti, anche a costo di una ragionevole duplicazione. Negli Stati Uniti, non è la Nasa ad amministrare tutte le ricerche sullo spazio: ad esempio tutte le parti di ricerca dello spazio che arrivano all’interazione della terra col vento solare sono per tradizione di competenza della aereonautica. Ed è una ricerca non militare, ma completamente scientifica, proprio per tenere decentrato uno dei tanti campi di ricerca.
Poiché anche nella molteplicità di enti occorrono dei nuclei di decisione, qualcuno che decida più o meno che cosa convenga sovvenzionare, questi nuclei devono essere composti principalmente da persone realmente impegnate nella ricerca: le persone che sono realmente impegnate nella ricerca non sono come me seduti di fronte ad un tavolo con tante persone che ascoltano, ma sono persone che vivono in uno stato monastico abbastanza ritirato; è molto difficile tirarle fuori da questo stato, però bisogna fare lo sforzo di farle partecipare a questi comitati.
Un altro aspetto importante è che la comunità scientifica è per natura condotta a livello internazionale, perciò è essenziale che le opinioni della comunità scientifica internazionale vengano seriamente considerate. Ed è essenziale che questi enti siano collegati con la comunità scientifica internazionale attiva.
L’Italia è uno dei paesi più ricchi al mondo non solo per denaro, ma anche per cultura: quindi ha una responsabilità grandissima a livello mondiale per far progredire la conoscenza e anche per sviluppare la tecnologia. Questo è il motivo per cui dobbiamo prestare attenzione a questo campo.
Strik Lievers: Pur venendo da storie molto lontane, anche opposte, ci ritroviamo intorno a qualcosa di fondamentale: il ritenere l’educazione una priorità fondamentale per la vita quotidiana di ciascuno di noi, e l’impegnarci per la libertà nell’educazione, la libertà di educare.
Quando diciamo "libertà nell’educare", non stiamo parlando, se non come uno dei suoi aspetti, del problema del rapporto tra scuola pubblica e privata, ma della scelta di fondo da fare: se fondare realmente l’educazione e il rapporto educativo in Italia su un principio e un valore di libertà, se fondare la rivoluzione liberale di cui tutti oggi parlano sulla conquista di questo valore come fondante dell’educazione e del rapporto educativo nella scuola e nella società. L’alternativa è radicale e bisogna avere coscienza di quella che è la libertà di insegnare nella scuola secondo una certa filosofia, una certa visione politico-culturale, insegnare una certa verità o insegnarne un’altra. Il problema è la libertà o meno di insegnare a partire da diverse, magari opposte, visioni antropologiche, quindi visioni del bambino, del ragazzo, dei suoi bisogni, dei suoi ritmi di maturazione. È infatti da queste diverse visioni che nasce una pedagogia: ci deve essere una scienza pedagogica e antropologica ufficiale, o la libertà del confronto e quindi dell’organizzazione del modo di studiare a seconda di visioni diverse?
Prendiamo ad esempio due pedagogie, quella montessoriana e quella steineriana, che hanno in comune il partire da precise visioni antropologiche, anche se opposte tra di loro. La legge sulla riforma della scuola consente o non consente a queste due pedagogie di vivere e di svilupparsi? La legge sul riordino dei cicli afferma che nell’ultimo anno della scuola per l’infanzia si deve mirare a potenziare il conseguimento degli obiettivi cognitivi: questo rispetto alla pedagogia steineriana è limitante, perché non dà spazio alle necessità diverse che essa vede nel bambino di cinque anni. O ancora, il modulo nella scuola elementare - su cui noi del movimento di Pannella abbiamo promosso un referendum che non si è potuto fare per via della la Corte Costituzionale - non dà spazio né legittimità alla pedagogia montessoriana.
Bisogna dare atto al ministro di alcune scelte che sono importanti dal nostro punto di vista, per esempio l’aver accettato degli emendamenti che avevamo elaborato a proposito della legge sull’autonomia. C’è un emendamento fondamentale che fa parte della legge essendo stato accettato dal governo, in cui si dice che il progetto educativo d’istituto deve essere tale da consentire a eventuali minoranze di docenti, nella singola scuola, di poter sviluppare il loro progetto pedagogico, eventualmente diverso da quello della maggioranza. Un’altra proposta che il ministro ha accettato è quella di arrivare a una risoluzione nella Commissione parlamentare che ha impegnato il governo nei regolamenti d’attuazione ad abolire l’obbligatorietà del modulo. Vorrei subito però chiedere l’impegno del ministro su questi due problemi, perché la legge sull’autonomia è una legge delega, che si attuerà attraverso i regolamenti. Quindi o questi due problemi verranno garantiti normativamente, in modo puntuale, nei regolamenti, oppure rischiano di essere travolti, non dalla cattiva volontà del ministro, ma dall’abitudine, a concepire la libertà in modo riduttivo.
Prendiamo un altro esempio: il problema dei programmi di storia per gli istituti professionali. Questi programmi, a mio avviso, sono una vergogna non perché non parlano del comunismo - questo è assolutamente marginale -, ma perché sono fatti in modo da imporre ai docenti di storia una serie di criteri nell’insegnare, nel valutare, nel mettere in rapporto i fatti. Costituiscono una interpretazione ufficiale, una verità ufficiale. Il ministro ha in questo una responsabilità politica grave perché li ha firmati: anche se i programmi non sono stati scritti da lui, vengono da due anni di elaborazione di commissioni. Questo è il grande pericolo del conformismo, di una abitudine ad un conformismo, a un illiberalismo che pervade, inavvertito spesso, tante concezioni. Il ministro ha annunciato che vuole riscrivere tutti i programmi con la riforma: deve dunque avere la forza e il coraggio di rovesciare, di andare contro l’atteggiamento abituale.
Sulla questione della parità il ministro ha sicuramente il merito di avere proposto una legge che è meno peggio di bozze precedenti girate nelle varie commissioni. Personalmente, non sono d’accordo affatto su questo impianto di legge perché, a mio avviso, il criterio non deve essere quello della distribuzione di finanziamenti, di sovvenzioni alle scuole, ma il problema è di garantire una libertà fondamentale e di garantirla a quelli che non se la possono permettere. Non credo basti neanche l’esenzione fiscale come sostegno a quelli che ne hanno bisogno, altrimenti il loro diritto fondamentale non si esercita.
Nell’ambito dell’impianto di questo disegno di legge ci sono alcuni equivoci, alcuni punti irrisolti. Il problema per le scuole private, o non statali, o libere che dir si voglia, è quello di essere, appunto, libere. È una scelta di libertà ulteriore rispetto a quella della scuola di Stato. Non ci può essere una normativa che obblighi in qualche modo le scuole non statali ad essere uguali a quelle di Stato. Se c’è un senso per cui c’è una scuola non statale è perché qualcuno sente il bisogno di metterci del proprio per fare una scuola che sia diversa. Gli equivoci da questo punto di vista sono molteplici. Sulle modalità del riconoscimento per cui una scuola non statale può essere riconosciuta paritaria si scrive qualcosa di generico negli obiettivi, ma quando si tratta di entrare nei particolari, il disegno di legge rinvia a un’altra legge ulteriore. L’altro equivoco è sulle modalità di valutazione dei processi e degli esiti, che sono uguali a quelli delle scuole di Stato. Sulle modalità della valutazione il disegno di legge sul riordino dei cicli indica soltanto che ci sarà, non dice come, non dice con quali garanzie e con quali criteri. Quindi il disegno di legge è affidato al modo in cui si risolveranno questi due nodi: può diventare una legge profondamente liberale o può diventare una legge ancora più illiberale di quella attuale.
Un’altra questione centrale è lo statuto dei diritti degli studenti. Sicuramente le intenzioni ispiratrici di questo testo sono assolutamente condivisibili, ma quello che conta è il testo della bozza, che comporta lo stravolgimento del rapporto educativo perché rende il rapporto fra docenti e studenti sostanzialmente conflittuale, un rapporto fra parti avverse. Gli studenti devono giustamente avere diritto di dire la loro, e questo sacrosanto diritto va loro riconosciuto, ma la bozza dà loro un diritto di intervento e di codecisione su momenti fondamentali e decisivi delle didattiche. Questo comporta dei rischi per la qualità e la libertà della scuola italiana tale da compromettere tutto l’impianto riformatore, anche in quello che può avere di buono.
Per quanto poi riguarda la riforma dei cicli, il rischio molto grave è che il secondo e il terzo anno delle superiori siano fatti in modo da rendere inattuabile quello che è il compito fondamentale per questa età, ovvero la possibilità di approfondire poche materie qualificanti, poche discipline qualificanti sul piano del metodo; andare a fondo a questa età è fondamentale e irrinunciabile per acquisire la capacità di studiare. Anche su questo bisogna assolutamente confrontarsi.
Bisogna ancora una volta dare atto al ministro di avere aperto un grande confronto sulla scuola, che non c’era da tempo: è un grande merito, che può diventare, a seconda di come si sciolgono questi ed altri nodi, la possibilità che il ministro Berlinguer diventi il ministro della grande riforma laica e liberale.
Berlinguer: I momenti di confronto aspro che ci sono stati in quest’anno stanno ad indicare che non si è mai reciso il filo del dialogo. E il dialogo continua, come si conviene ad un rapporto democratico fra governanti e governati e fra diverse opinioni.
L’anno scorso, quando ho parlato in questa stessa sede, potevo parlare solo di programmi, oggi posso fare un brevissimo bilancio. Nelle considerazioni che sono state esposte fra i fatti e i falli citati, la valutazione di fondo al mio operato è che c’è un ambiguità di fondo nell’azione di riforma, che potrebbe avere un risultato di natura liberale ma che rischia anche di portare al regime.
Dietro questa argomentazione non può nascondersi l’accusa di una volontà di indottrinamento, essendo le varie soluzioni affidate sicuramente alla dialettica politica o alla dialettica sociale delle idee che potrebbero costruire una soluzione di libertà. Questa è l’interpretazione più pessimistica della vicenda, e di fronte ad un argomentazioni di questo genere occorre chiedersi come ci si può muovere e che cosa il governo e le varie forze sociali possono fare.
Abbiamo voluto questa situazione dinamica per creare le condizioni perché non sia una soluzione di legge e quindi di Stato a dare la risposta al più importante dei quesiti che è quello che l’attività di formazione e di educazione di apprendimento sia fatta all’insegna della libertà. Non c’è insegnamento, non c’è apprendimento, non c’è formazione senza libertà. E poiché noi siamo profondamente convinti di questo, abbiamo voluto che la libertà sia quotidianamente confermata se non conquistata dalla cornice istituzionale che spetta allo Stato al Parlamento e al governo definito. Questa è la ragione per cui la legge più importante che abbiamo fatto per la scuola italiana è la legge, immediatamente operativa, sull’autonomia delle scuole.
L’autonomia delle scuole significa la possibilità di un progetto educativo di istituto e quindi di una pluralità sul territorio nazionale dentro una cornice nazionale di progetti educativi di istituto. Oggi ancora non si coglie tutta la pregnanza di questa norma, ma domani quando tutte le risorse presenti nelle scuole cominceranno a costruire questo percorso e ad appropriarsi della facoltà che viene loro concessa da questa legge, tale pregnanza sarà evidente. Si potrà capire la ricchezza della eterogeneità e della maggiore libertà acquisita attraverso l’autonomia nello svolgimento e della funzione dell’insegnamento e dell’apprendimento. Ci vorranno degli anni perché l’autonomia diventi realtà e si diffonda una cultura dell’autonomia, perché la scuola si liberi del pesante retaggio di un passato in cui tutto era regolato dai programmi ministeriali, perché la scuola riesca effettivamente ad esprimere tutta la sua ricchezza creativa anno dopo anno, aldilà dell’attuale ripetitività che dura per i quaranta o trenta anni di vita professionale dei docenti, perché si crei un protagonismo diffuso, prima base della libertà. In tutte le scuole, statali e non statali - abbiamo voluto che l’autonomia fosse estesa a tutte le scuole, - l’autonomia rappresenta un’incredibile potenziale di libertà per i progetti educativi diversi, per i diversi impianti pedagogici.
In questo mese discuteremo anche una riforma del Ministero della Pubblica Istruzione, perché non si può parlare di libertà senza tener presente che la struttura burocratica centralista del Ministero della Pubblica Istruzione, delle sue direzioni generali, del suo apparato di circolari e di una normativa di dettaglio costante quotidiana, reiterata da sempre, è un grave ostacolo alla effettiva libertà. Non declamiamo solo in astratto le esigenze di libertà: con la norma sull’autonomia, con i procedimenti che stiamo preparando e che saranno di dominio pubblico fra breve per la riforma del ministero, vi sarà la possibilità di autonomia didattica per tutte le scuole italiane. Stiamo gettando le basi fattive e concrete della libertà, di una novità della società italiana.
La scuola è nata in Italia come altrove per opera di ordini religiosi, come un’attività del tutto privata che solo successivamente la Stato ha acquisito, quando lo Stato è diventato Stato nell’Ottocento e nel primo Novecento. Quello che è successo della scuola italiana è che essa è stata rinchiusa in una organizzazione centralistica ministeriale che l’ha irrigidita, creando tutti gli ostacoli ad un costante aggiornamento della scuola stessa, dei suoi contenuti culturali, della sua attività pedagogica, della libertà degli stessi insegnanti e degli studenti. L’eredità del passato non è lo Stato ma lo statalismo, non è la funzione pubblica ma l’irrigidimento centralistico dello Stato. Anche per la scuola l’obiettivo di questo governo è la lacerazione di questo involucro statalistico e la creazione di una vitalità interna alla società come funzione formativa e che sostituisca la funzione pubblica come gestione esclusivamente pubblica.
Questo è il punto di novità al quale siamo giunti, e vi siamo giunti perché oggi la scuola non è più quella del passato rappresentata da un’aula, dei banchi, una cattedra, un gruppo di studenti, un insegnante che interroga, un voto e alla fine un pezzo di carta. In una velocità di obsolescenza delle conoscenze, il bisogno di innovazione continua, e non si può cessare mai di andare a scuola. La funzione formativa si estende ormai per tutto l’arco della vita, non si tratta soltanto dell’apprendimento per pochi delle conoscenze fondamentali, si tratta di imparare anche a lavorare, non solo di imparare a sapere. È puramente illusorio oltre che sbagliato pensare che lo Stato in quanto tale possa garantire queste funzioni: è profonda convinzione di tutti noi che lo statalismo è un retaggio inaccettabile. Con tutte le nostre proposte - l’autonomia, la scolarizzazione per dieci anni, l’obbligo esteso, la riforma della parità - abbiamo voluto aprire un capitolo profondamente nuovo nel quale la funzione formativa diventi una pregnanza piena della società: educazione e libertà - come già diceva Rigotti - diventano endiadi, perché non è imposizione anche se è trasmissione da parte di chi sa a chi non sa, in una dialettica nella quale l’accento viene posto sempre più sull’apprendimento che sul mero insegnamento.
C’è uno spostamento della cultura pedagogica: non è la funzione manipolatoria dell’educazione a cui noi guardiamo, ma è una funzione dialettica in cui il giovane mette la parte sua di creatività e persino di maturità. Sono convinto che esiste un rapporto tra discente e docente in cui c’è una diversità necessaria, un peso diverso, un’assunzione di responsabilità diversa, e quindi non è possibile pensare a parità fra discente e docente: è un errore gravissimo che la democrazia rappresentativa abbia tentato di portare nei settori della scuola e dell’università i modelli di democrazia rappresentativa di un consiglio comunale, di un’assemblea elettiva.
Se noi spostiamo l’accento sull’apprendimento, dobbiamo vedere il rapporto fra educazione e libertà in una visione più attenta a questi contorni. La libertà è prima di tutto consapevolezza: il punto qualificante delle nostre riforme è inserire nella scuola e nelle università l’idea di orientamento, idea che invece è sempre stata rimossa, con il risultato che le scelte avvengono sempre eterodirette. Con l’idea di orientamento come momento dicisciplinare curriculare di sperimentazione delle vocazioni di ciascuno sulla base delle proprie esperienze, del proprio itinerario, noi introduciamo un altro vero elemento di libertà, fondato sulla consapevolezza e sull’esperienza di ciascuno dei ragazzi e degli insegnanti.
I programmi degli istituti professionali ricordati da Strik Lievers vengono da lontano, non ero neppure nella possibilità di bloccarli, avrei bloccato un intero ordinamento: sono stati l’ultimo atto del passato, perché contemporanemente alla loro approvazione questo governo ha inserito nella legge sull’autonomia una norma precisa che cancella l’idea dei programmi ministeriali, sostituita dal principio degli obiettivi. Nella scuola dell’autonomia in futuro la revisione dei contenuti culturali passerà attraverso la formulazione di obbiettivi nazionali, perché la scuola è una scuola nazionale, dato che l’Italia è un paese unito che deve dunque avere una dignità culturale nazionale anche se con una forte eterogeneità della sua organizzazione. Quando invece dei cosiddetti programmi ministeriali ci saranno gli obiettivi, saranno i progetti pedagogici educativi di istituto ad avere tutta la loro capacità di contare.
Un obiettivo fondamentale che non è ancora stato ricordato è la scolarizzazione da otto anni a dieci. L’Italia è l’ultimo paese in Europa che ha otto anni di scuola obbligatoria; abbiamo scelto di estendere la scolarizzazione attraverso una riforma più completa che abbiamo sottoposto al Parlamento. La vera sostanza di quella riforma sta nel fatto che noi vogliamo far diventare anche in questo campo l’Italia un paese europeo: questo passa attraverso la scolarizzazione per dieci anni di tutti i nostri ragazzi.
Per quanto riguarda il disegno di legge sulla parità, essa sembra quasi definitivamente acquisita, e mi sembra che possa essere considerata un fatto politico: noi vogliamo chiudere la questione romana, vogliamo mettere alle spalle la ferita più grave della formazione dello Stato unitario insieme alla questione meridionale. Noi vogliamo far cessare un guerra di religione fra opposti ideologismi attraverso un atto di governo, non un via libera alla discussione parlamentare: c’è un’assunzione di responsabilità del governo. Non bisogna pensare che adesso tutto avvenga automaticamente: siamo determinati a che questo processo vada avanti e a far sì che si crei anche in questo una condizione di libertà. Per questo ho molto apprezzato le formulazioni in base alle quali si afferma che non si deve immiserire questa grande operazione culturale prima ancora che politica nel puro e semplice finanziamento delle scuole cattoliche. Ho molto apprezzato quando è stato detto che questa non è una soluzione confessionale. Nella mia personale revisione delle idee politiche a questo proposito, mi sono arricchito di un’esperienza che ho fatto quando ero rettore dell’università di Siena: sono andato a visitare le università palestinesi in Israele. Ho visitato l’università di Betlemme di proprietà del Vaticano e diretta da religiosi: il 70% degli studenti di quella università era mussulmana, il 10% era palestinese, e mi è stato detto di fronte alla mia meraviglia che il compito della scuola e dell’università non è la catechesi, ma l’educazione alla libertà e all’apprendimento. Era di proprietà del Vaticano, non di un gruppo di genitori cattolici. Attraverso questa esperienza ho capito che anche sotto questo aspetto l’Italia è l’ultimo Paese europeo che non ha una disciplina della parità. Questo governo vuole cancellare ancora una volta questo elemento arretrato.
Abbiamo compiuto anche qualche atto a questo proposito: ad esempio, è stato sottoposto il problema nella scuola non statale dell’applicazione della legge 104 per gli handicappati, decidendo che questo si possa fare da ora e muovendoci con atti risoluti e precisi nella direzione di superare questo retaggio. Questo significa anche una aspra azione contro i diplomifici, quell’aspetto in cui la scuola non statale diventa un momento di corruzione, un mercato dei titoli. Non possiamo tollerare confusione fra questi aspetti, per questo ci vuole una maggiore severità delle regole: tanto più la scuola non statale ha possibilità di avere successo - nello sforzo di cui io sono consapevole che sta compiendo in questo periodo di difficoltà -, tanto più si potrà fare un’alleanza fra scuole buone, a prescindere dalla gestione.
Parlando di parità abbiamo consegnato al Parlamento questo disegno di legge; il mio auspicio è che su questa questione si facciano sentire tutti i necessari apporti tecnici o anche di scelta politica - convenzioni, credito di imposta, o altre soluzioni ancora aperte -. Sarà il Parlamento a decidere: quello che bisogna evitare è che su questa questione ci siano strumentalizzazioni di interessi politici, per conquistare un qualche voto contrariamente a quanto è invece necessario.
Vorrei ora dire al professor Coppi che sono pienamente d’accordo su alcune sue considerazioni. Anzitutto, è vero che il testo della riforma non era sufficientemente rispettoso della persona. Infatti nella stesura del disegno di legge a seguito di questa discussione noi abbiamo fatto tesoro della discussione stessa, e non è stato un semplice stratagemma diplomatico. La funzione primaria della scuola è la formazione della persona, la funzione primaria della formazione è la creazione delle basi culturali di una società e di tutti gli individui. L’apprendimento, il sapere, la cultura sono beni primari, non strumentali, sono beni in sé, sono un fatto di civiltà, e questo è quello che noi vogliamo sia il contenuto dei prossimi obiettivi e delle prossime discipline di apprendimento. L’obiettivo principale resta chiaramente quello della conoscenza e quello dei valori di convivenza, perché la scuola è un aggregato e quindi oltre al valore della conoscenza c’è il valore dello stare insieme, del rispettare gli altri, del non presumere eccessivamente di sé e della propria verità, ma del credere e del riconoscere anche negli altri qualche verità.
Noi chiamiamo le scuole e le famiglie a questo compito: recentemente mi sono espresso su una sentenza della Corte di cassazione per dire che la funzione educativa, come dice l’articolo 30 della Costituzione, è primaria, è un diritto dovere, non si può scaricare tutto sulla scuola. Oggi la società italiana è percorsa da tensioni preoccupanti: stanno emergendo casi di intolleranza razziale che il nostro paese non aveva mai conosciuto prima. Abbiamo assistito ad episodi raccapriccianti: mentre il mondo va verso la società multiculturale, le famiglie e le scuole sono la sede nella quale bisogna imparare a convivere con gli altri, a rispettare gli altri che sono diversi da noi.
Questo forse è il valore principale: la scuola è prima di tutto regno di valori, e all’insegna di questi valori il cambiamento che stiamo introducendo fatto di dinamica, di libertà, di dialettica è la base strutturale istituzionale di un processo che fa della libertà la vera funzione della scuola.
Mauro: C’è un’affermazione del ministro che mi preme sottolineare: lo statalismo è inaccettabile. La libertà non la si fa perché finalmente il Ministero della Pubblica Istruzione ha deciso di permetterla, la libertà è l’espressione del giudizio e della speranza di costruzione di un popolo e dove c’è il popolo c’è la libertà, altrimenti ci sono solo le programmazioni.
Sono convinto che marcando le differenze si dialoghi di più: abbiamo il dovere di sciogliere le ambiguità anche di queste normative che ci stanno proponendo. Perché se il progetto di istituto significa che ciò che non viene ratificato a Roma viene ratificato a maggioranza in qualsiasi sperduto istituto, bisogna ridire con chiarezza che la verità non la fa la maggioranza, la verità non il frutto di un compromesso. Il problema non è che ogni scuola possa aver il proprio progetto educativo ma che ogni progetto educativo abbia dentro un pezzo di verità. E per far questo deve esser dato spazio a tutte le esperienza capaci di proporre un’ipotesi per il futuro e per il destino di una generazione. Rispetto a questa generazione noi sentiamo la nostra responsabilità, perché noi non abbiamo il problema di essere gli oppositori del governo dell’Ulivo o del ministro Berlinguer, noi abbiamo il problema che il nulla che avanza dentro la nostra società e che conquista dentro le nostre scuole il cuore dei nostri giovani, venga battuto in breccia da un’esperienza seria. Questa esperienza seria non si può contrabbandare né in un programma né in un obiettivo: è legata alle persone che fanno la scuola. Queste persone hanno diritto a più libertà dentro la scuola? Quello che chiediamo è questo: più libertà dentro la scuola e anche più libertà dentro le scuole.
Non si può fare un sistema educativo tarandolo su chi ha come scopo il profitto, si fa un sistema educativo tarandolo su chi ha più a cuore il destino dei giovani e quindi lasciando la possibilità che non si sia soffocato dalle regole.