SCENA 6 - Antigone ritrova il vecchio immigrato: "Adesso tanti mi sorridono, dicono di avermi riconosciuta e vorrebbero mettermi su un distintivo, dicono di essere gente nuova, onesta, mi invitano dovunque e intendono pagarmi gettoni di presenza".
Martedì 27, ore 17
Relatori:
Salvatore Abbruzzese
Carlo Sini
Moderatore:
Maurizio Vitali
Vitali: Quello di oggi più che un tema è come un ambiente in cui ci introduciamo, una scena, come sono chiamate sul programma del Meeting, perché noi non facciamo un discorso ma compiamo un gesto e quindi mettiamo a paragone la responsabilità della nostra persona con un contesto, con una situazione. La scena ci rappresenta questo contesto che dobbiamo affrontare, praticare. Quella di oggi ci introduce nel cuore del dramma attuale, esistenzialmente e socialmente, di una volontà di libertà. Per il desiderio profondo del cuore, per le esigenze originarie di libertà della persona, non c’è una zona franca in cui possono starsene garantite, c’è una realtà da affrontare, una realtà che a volte è fatta di scogli, quindi di scontri duri, di contraddizioni palesi con questa libertà. Ma c’è anche un modo attraverso il quale quella domanda, quel desiderio profondo, quella volontà radicale di libertà, di espressione di sé viene catturato da un meccanismo che lo porta ad accontentarsi di qualcosa che è sempre di meno.
Salvatore Abbruzzese è nato nel 1954. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Sociologia alla Sorbona di Parigi e si è poi dedicato a ricerche nel campo della sociologia religiosa.
Dall’ottobre 1989 insegna sociologia presso l’Angelicum di Roma.
Attraverso un’indagine sul movimento di Comunione e Liberazione con i metodi dell’indagine sociologica, pubblicata da Laterza col titolo: Comunione e Liberazione. Identità religiosa e disincanto laico, ha maturato un serio interesse per l’esperienza ecclesiale di CL.
Abbruzzese: Come è possibile che Antigone e il vecchio immigrato appartenenti a due culture così lontane parlino tra loro? Infatti non c’è dialogo là dove non c’è la condivisione di un’esperienza comune che crea la sensazione di una momentanea uguaglianza. L’incontro fortuito diviene reale quando alla condivisione del problema contingente si aggiunge la certezza di una condivisione più ampia, quella di una comune situazione nel mondo, di dover far fronte agli stessi problemi. Qual è la situazione che Antigone e il vecchio immigrato condividono e qual è l’esperienza che rende possibile il dialogo?
L’unico dato reale che abbiamo a disposizione è l’autenticità dell’incontro stesso: Antigone e il vecchio immigrato si incontrano nel più profondo di loro stessi: lo conferma la qualità delle domande che la prima rivolge al secondo. Antigone prende sul serio il vecchio immigrato, lo ritiene cioè un testimone attento al quale vale la pena di chiedere informazioni. Ma non basta; l’incontro rivela tutta la sua umanità quando entrambi esternano il cuore della loro storia: l’immigrato parlerà del padre e del proprio disincanto verso la società che lo circonda, Antigone della sua situazione concreta, attuale che la stupisce e la interroga.
Sappiamo dai dati lasciatici da Sofocle stesso che al termine della tragedia Antigone volge al pubblico un interrogativo che non ha mai smesso di risuonare nelle stanze del pensiero occidentale: "Perché un’azione profondamente umana e pura deve essere considerata una colpa e come tale essere oggetto di una condanna senza appello?".
Antigone è una donna capace di interrogativi reali ed ha un rapporto autentico con il mondo e con l’esistenza. Anche con l’immigrato essa non dismette il proprio comportamento, gli rivolge domande che vengono dal profondo della sua persona. Un dialogo così autentico non può fondarsi che su una identità ritrovata che accomuna entrambi e rende il linguaggio di uno perfettamente comprensibile all’altra. Questa identità è data da una storia comune che si esprime in entrambi in un profondo desiderio di appartenenza. Antigone vuole che il fratello non cessi il proprio cammino verso la comunità dei defunti. La pietà che ispira il gesto di Antigone è quello di un senso religioso fondamentale che vuole che ogni uomo compia il suo percorso e in tal senso possa non dismettere mai la propria identità anche dopo la morte. Non sotterrare il fratello significava negargli l’appartenenza al regno dei morti, lasciarlo in uno stato di emigrazione totale, di non-mondo, di indefinizione permanente.
All’immigrato la saggezza degli anni ha rivelato che il vero dramma dell’immigrazione è costituito dall’assenza di un biglietto di ritorno perché il luogo ritrovato non è mai uguale a quello che si è lasciato e il luogo nel quale si ritorna è esso stesso diverso. L’incontro è impossibile, e con l’incontro impossibile è impossibile il ritorno. Non resta che l’appartenenza reale e profonda ad un ricordo, ad una memoria, alla figura del padre. Nella memoria di ciò che è stato risiede l’unica identità possibile ed è su questo terreno che Antigone e l’immigrato realizzano un dialogo immediato.
Vediamo ora invece il palazzo dove Antigone e l’immigrato si incontrano, dove Antigone viene riconosciuta e viene invitata a convegni e a tavole rotonde mentre l’immigrato fa la fila di attesa e si barcamena da un corridoio all’altro, da una anticamera ad un’altra. In questo palazzo esistono due regolamenti: il primo è costituito dalle leggi scritte e dalle convenzioni tradotte anch’esse in norme codificate; il secondo è invece costituito da regole non scritte e talvolta nemmeno pronunciate e pur tuttavia altrettanto forti, altrettanto coercitive. Le leggi scritte servono a garantire la democrazia, le regole non scritte, che chiameremo, per semplicità, "regole del gioco", servono invece a garantire gli apparati di potere, ad assicurarne la stabilità e costante centralità. Se in virtù delle leggi scritte il palazzo è la casa della democrazia, in virtù delle regole del gioco che controllano stanze e corridoi, esso tende ad essere un’istituzione totale, dove tutti, interni ed esterni, nuovi arrivati e vecchie conoscenze, sono divisi in due categorie: gli affidabili e i non affidabili. I primi sono tutti coloro che accettano la presenza impalpabile, coercitiva delle leggi non scritte, cioè delle regole del gioco, e che dopo averle accettate vi aderiscono o si rendono comunque funzionali ad uno qualsiasi dei gruppi di pressione presenti all’interno. I secondi, i non affidabili, sono tutti coloro che aderiscono anch’essi ai gruppi, ma non per rispetto delle regole del gioco, non per regole di schieramento, bensì per vocazione della persona e quindi in ogni momento della loro esistenza nel palazzo subordineranno le loro scelte non in relazione alle regole del gioco che essi in fin dei conti rifiutano e disprezzano, bensì alle leggi scritte che non garantiscono gli apparati di potere, quanto la democrazia nel palazzo. Proprio per questo motivo, la seconda categoria è ritenuta non affidabile.
Ogni volta che un componente del palazzo rivela indici di non affidabilità viene sottoposto ad un linciaggio morale la cui violenza lascia stupefatti. Essa è tanto più elevata e spudorata quanto più questa persona occupa un’area nella quale l’affidabilità è il requisito centrale.
Non avrei tanto insistito su questo aspetto della geografia, chiamiamola così, socio-politica del palazzo se non mi fosse chiara una conseguenza, che come sociologo ma ancora di più come cattolico sento intimamente tragica. Qualche mio collega di formazione tardostrutturalista potrebbe benissimo osservare che le regole del gioco servono innanzitutto ad assicurare e garantire i diversi gruppi di pressione, finendo per aumentare la stabilità del sistema nel suo complesso, e che ciò sia intimamente logico ed inevitabile. Io, come cattolico, ritengo che il potere coercitivo delle regole informali, che dettano le condizioni per adesioni ed appartenenze, sia tanto più pericoloso quanto più pretenda ed ottenga di essere zona franca rispetto ai valori (in questo caso della democrazia e della libertà) e quindi non si subordini a nessuna tradizione culturale, ma le guardi da lontano con un cenno di compassione.
Questa pretesa delle regole del gioco di essere indipendenti ed al di sopra delle appartenenze culturali di ciascuno rende le appartenenze culturali superflue, un bagaglio inutile per entrare nel palazzo e per appartenervi e per restarvi. Le appartenenze culturali, che sono le custodi della memoria sociale di un popolo, diventano inutili, squalificate, quasi un po’ patetiche e fuori moda. Le conseguenze per Antigone e per l’immigrato sono chiare: occorre che entrambi si rendano affidabili. La prima deve quindi accettare il ruolo prestigioso ma strumentale del testimone autorevole che darà lustro e dignità ad organizzazioni prive tanto dell’uno quanto dell’altra. Il secondo, l’immigrato, si vedrà riservato il ruolo di assistito, riceverà quindi servizi sociali in cambio di consenso politico. Per l’una come per l’altro l’adesione, l’accettazione di una etichetta, di una identificazione con un gruppo di pressione, presuppongono che il patrimonio culturale ereditato e l’insieme dei valori ai quali fanno riferimento non debbano né possano fornire criteri di orientamento per la loro presenza nel mondo sociale e politico, ma debbono essere indifferenti, accettando di essere confinati in una sfera privata dove sia la religione naturale di Antigone sia il cristianesimo dell’immigrato, vivono la loro dimensione propria e sono liberi di esprimersi in modo adeguato.
Se questa è una delle conseguenze che afferriamo in un nostra immaginaria escursione nel palazzo, un rapido passaggio davanti al fast-food non serve certo a rincuorarci.
Qui la comunità è perfettamente anonima, c’è uno scarto paradossale fra la prossimità fisica – si è vicinissimi nei fast-food, si è quasi attaccati – e la grande lontananza umana. Esattamente come nel palazzo c’è uno scarto paradossale e scandaloso tra i rigori delle appartenenze culturali ed i loro riferimenti di senso e la pragmatica ed avalutativa scelta delle etichette. Anche nel fast-food esistono nuove regole, sono più semplici di quelle antiche, più pratiche, ma accanto ad esse non c’è che il vuoto. Anche in questo fast-food i criteri di appartenenza culturale non servono più, ma non perché qualcuno li squalifichi o voglia eliminarli, piuttosto perché non sono più necessari nella misura in cui non è più assolutamente necessaria nessuna forma di identità personale. Di nuovo qualche mio collega non dovrebbe faticare molto per dimostrarmi come l’anonimato urbano non abbia affatto impedito il crescere e lo svilupparsi di nuove forme di aggregazione, ecc. ecc., ma anche qui come cattolico sento emergere una conseguenza tragica della quale il disagio di Antigone e del vecchio immigrato sono rivelatori e se prima ho fornito qualche elemento sulla geografia sociale del palazzo adesso devo dare qualche traccia e qualche informazione sulla geografia sociale del fast-food, cioè della società dei consumi.
L’avvento di una società dei consumi di massa non ha prodotto solamente l’unificazione dei modelli di consumo; con essa ha generato anche l’unificazione dei modelli culturali di riferimento. La vera novità consiste nel fatto che questi nuovi modelli culturali, proprio in quanto sono orientati unicamente all’affermarsi di uno stock di beni di consumo, non sono portatori di nessun modello culturale se non in forma di stereotipi immaginari. Infatti, per facilitare il consumo di una determinata linea di prodotti, ad esempio, la si ricollega ad un modello socio-culturale di riferimento, nel quale quella determinata linea di prodotti è reputata capace di inserirsi in modo adeguato in quanto mira a rispondere all’esigenze specifiche di benessere che quel tipo di esistenza sociale sembra possedere(1). Si afferma allora una sorta di messaggio implicito, anch’esso informale come i codici non scritti del palazzo, e che dice sostanzialmente: "Non è poi così importante appartenere, fare parte dell’uno o dell’altro gruppo di esistenza sociale, basta condividere i beni di consumo, che convenzionalmente gli attribuiamo". È il brillante paradosso di una società di consumi, veicolati attraverso canali di comunicazioni sempre più efficaci, mentre ignoriamo totalmente la vita reale dei tipi o dei diversi stereotipi di esistenza sociale. Sappiamo invece perfettamente quali sono i consumi che convenzionalmente vi vengono attribuiti, e che quindi funzionano come unico segnale visibile del gruppo stesso, come unica etichetta socialmente percepibile. Anche in questo caso le etichette sono autosufficienti, si autoleggittimano e prendono il posto delle appartenenze reali. E non parlo solamente dei consumi voluttuari di tempo libero, parlo anche dei consumi culturali. Basta leggere il "Sole 24 ore" per essere per fare capire che si è iscritti a medicina.
Però la differenza con il palazzo è sostanziale: nel primo il distintivo serve a segnalare una appartenenza reale ad un gruppo, ed in tal senso, per quanto superficiale possa essere rispetto alla identità culturale di chi la fa propria, le conseguenze sono estremamente concrete sul piano della vita sociale del singolo. All’interno del palazzo, scegliete l’etichetta che corrisponda più o meno alla vostra identità culturale, poco importa, siate ben certi che le conseguenze saranno pur sempre fortissime. Nella società civile, invece, l’appartenenza è puramente immaginaria, non ha praticamente nessuna conseguenza concreta sul piano pratico; il distintivo serve qui a segnalare un’appartenenza irreale e puramente immaginata. Il bene di consumo è addizionato di un supplemento di immagini, che corrispondono ad una realtà inesistente. Tali differenze tra le etichette del palazzo e quelle delle società, tuttavia, collimano in un unico risultato, che alimentano la crescente inutilità, la crescente inoperatività delle appartenenze sociali reali. Ogni appartenenza culturale – l’essere cattolici per esempio, tanto per andar breve – viene quindi sempre di più rinviata nell’universo interiore. Ma è proprio questo rinvio al privato che sancisce il declino dell’appartenenza culturale che non può essere espressa, che non c’è più bisogno di esprimere, che non serve a niente esprimere, è di fatto già morta.
Con questo sistema si andrebbe alla rovina se non restassero aperti due grossi problemi per l’uomo contemporaneo. Il primo è il bisogno di una memoria, di una ricerca delle radici e di una identità culturale alla quale si possa finalmente appartenere in senso pieno, e che non vada nascosta. Il secondo bisogno è di un’interpretazione globale del mondo che dia risposta alle domande decisive dell’esistenza, perché, se non si vive solo di consumi, viene anche il momento in cui dobbiamo interrogarci sul perché c’è la morte, il dolore, sul dove andiamo. La ricerca dei significati ultimi spinge su rotte difficili, su sentieri scoscesi, sui quali è facile perdersi. Padre Ries mi ha insegnato che la ricerca di interpretazioni globali del mondo, capaci di spiegare l’esistenza del male e l’esistenza del dolore e della morte, è la radice del senso religioso dell’uomo, è il punto nel quale matura la domanda religiosa del singolo. Ma se è vero che gli uomini vanno alla ricerca di una identità storica, di rappresentazioni globali del mondo che diano significato, spiegazioni solide ai problemi decisivi, è anche vero che nel supermarket dei beni di salvezza c’è merce omologata, che funziona come tutte le altre merci, cioè soddisfa il desiderio di benessere e di pace interiore dell’uomo attraverso la produzione di consumi culturali specifici. Quindi non sempre il bisogno di memoria incontra la memoria, non sempre il bisogno di identità incontra il sacro; nell’ambito della lunga abitudine a sostituire il reale coll’immaginario si rischia spesso di sostituire il sacro con i suoi stereotipi.
Lo scenario degli anni ‘90 non si apre solo sulle schermaglie del palazzo e sulla nuova ondata di modelli di consumo prêt à porter; esso si apre anche sulla forte affermazione di movimenti socio-culturali che da punti diversi e con strumenti diversi cercano di recuperare identità culturali specifiche, talvolta anche solamente attraverso la comune presa di posizione rispetto ad un problema. In alcuni di questi gruppi l’affermazione identitaria viene esplicitamente riconosciuta e ricondotta ad un elemento specifico etnico-geografico, socio-politico o religioso. Questa appartenenza diviene momento forte di qualificazione del gruppo dinanzi all’esterno. Dalle etichette si vuole risalire ad una appartenenza autentica, ad una identità ritrovata; dai distintivi di superficie si vuole ritornare all’adesione interiormente e consapevolmente valorizzata. Ma i movimenti possono anche tornare indietro, rendersi non solo istituzionalizzabili, finendo quindi con il piegarsi ad una logica di appartenenza e di collocazione, ma possono anche omologarsi alla superficialità dominante, secolarizzando il proprio stesso messaggio, riducendolo a poche parole d’ordine di superficie, squalificando così l’appartenenza iniziale, portandola a livello di semplice distintivo. Se "appartenere è bello", la logica di appartenenza si può trasformare anche in una semplice euforia di gruppo fornendo etichette esteriori, distintivi di facciata.
Contro un simile rischio di riduzione dell’identità a un distintivo, si possono solo opporre appartenenze collegate ad identità reali che si mettono alla prova nel mondo della vita quotidiana, danno vita a frammenti reali di società civile; non servono solamente a fondare una identità ed una appartenenza, ma anche a fondare un’esistenza concreta. Sotto questo profilo, solamente in questa prospettiva simili valori non possono essere più una semplice etichetta né un semplice distintivo. Queste nuove identità devono rispondere alle domande reali dell’uomo. Non c’è memoria se non c’è un elemento fondatore che ne costituisca il contenuto. Non c’è memoria reale se non c’è un avvenimento reale da ricordare e questo è ciò che permette la vera distinzione tra un movimento di rinata identità di appartenenza culturale ed una semplice nuova etichetta.
Carlo Sini è nato a Bologna nel 1933. Si è laureato in filosofia a Milano con Enzo Paci, del quale è stato assistente. Dal 1976 è ordinario di Filosofia teoretica all’Università Statale di Milano. Ha fondato la rivista di filosofia e cultura "L’Uomo, un segno" e dirige varie collane editoriali. Collabora a vari quotidiani e periodici ed è autore di numerose opere.
Sini: L’omologazione e le etichette, Antigone. Quello che io cercherò di fare è un lavoro complementare, di scavo, che non sarà facile, e quindi io vi chiedo scusa di qualche oscurità. Non è facile perché quando noi parliamo delle nostre contraddizioni, sappiamo di cosa parliamo, ma non sappiamo da dove vengono e se mai se ne possa venire a capo e cadiamo nella illusione, così comune, così umana, di pensare che gli uomini siano sempre stati come siamo noi, che noi siamo l’Uomo e l’Uomo sia queste nostre facce, queste nostre parole, queste nostre pratiche di vita, di cultura, religiose, ma non è così. Questo è la prima arroganza dalla quale noi ci dobbiamo guardare. Dobbiamo dubitare delle categorie con le quali giudichiamo i nostri stessi problemi, perché non sappiamo da dove vengono; noi le usiamo come se fossero ovvie, ma non sono ovvie.
Antigone è una buona chiave per penetrare in problemi di questo genere mediante questo gioco molto bello che fa il Meeting quest’anno con la figura di Antigone che ci invita ad una antichità ancestrale e nello stesso tempo la riporta nella attualità più bruciante.
Entriamo insieme in questo gioco e chiediamoci: "Ma Antigone che cosa rappresenta? Siamo noi in grado di esaurire il significato di Antigone? Al di là della erudizione, al di là della cultura, siamo noi in grado di accoglierla davvero nel suo messaggio, siamo all’altezza di questo messaggio?". Sì, no, forse; le risposte possono essere molte ma io vorrei concentrarmi su un aspetto soltanto. Antigone è colei che difende una legge non scritta, che sta nel più profondo del cuore umano. Questo vuole forse dire che Antigone difende una legge eterna, universale, umanamente sovrumana? Io non credo che si debba battere questa via che ritengo pericolosa. Dirò di più, questo è l’aspetto pericoloso del volto di Antigone.
Che cosa significa che Antigone difende una legge non scritta? Per centinaia di secoli l’uomo non ha conosciuto la scrittura, era un uomo della parola, della trasmissione orale, ed erreremmo parecchio se lo giudicassimo incivile o poco civile. Era un uomo che pur senza la nostra scrittura alfabetica ha edificato cose meravigliose; ha edificato le basi dell’umano solo parlando, solo trasmettendo la legge non scritta. Noi possiamo vedere in Antigone colei che ci ricorda questo evento ancestrale, che c’è un’umanità che non scrive e in cui la forza della legge è detta dalla parola, come Vico intuiva bene, dalla parola poetica, dalla parola religiosa (ai primordi è la stessa cosa). Antigone difende questa legge, e nella misura in cui la difende di fronte al potere della scrittura delle leggi scritte, Antigone è tuttora un luogo d’incontro, perché uno dei grandi problemi del nostro mondo è l’incontro tra la nostra civiltà occidentale, civiltà della scrittura, e le altre civiltà. Ma se il vecchio immigrato è uno di costoro, Antigone è il luogo in cui si giocano i destini di questo dialogo tra la nostra civiltà della scrittura e un’immensa civiltà della non scrittura, della parola e della tradizione vivente. Certo, Antigone incarna una verità che va al di là di questo evento, e la tragedia greca lo aveva intuito benissimo; la parola vivente di cui Antigone porta la legge e rivendica la legge è quella parola che fonda l’evento essenziale dell’umano, la capacità dell’uomo di vedere il morto, il cadavere e di distinguere dal cadavere l’altro, di vedere i resti, ciò che l’animale non può vedere, perché per l’animale non c’è l’altro dai resti, che è appunto il nome, la parola che nomina, che dice: "Tu, Antigone", e che non dice Antigone per Antigone, perché la parola non dice per me, ma dice per tutti. Questa è la forza eterna della parola, che nella parola non sono io che parlo. La parola rimbalza per tutti e costituisce i tutti accomunati nella parola, ciò che la tradizione chiama anima, ciò che non può morire, ciò che rimane nella memoria collettiva e che è la legge della costituzione della memoria collettiva, quello che Calabrese appunto chiamava "problema dell’identità e della memoria". Antigone è la portatrice di questa legge, di una parola che, in quanto onora il cadavere del morto, è l’atto istitutorio della società umana, dell’uomo in quanto tale. A questa legge non si può contravvenire, perché questa è la legge dell’uomo.
Antigone, dicevo, ha però anche un aspetto preoccupante. Antigone si contrappone a Creonte. Facciamo finta, per comodità di discorso, anche se nella tragedia non è così, che Creonte sia quel potere che nasce dal mondo della scrittura, dalla politica (la politica, la democrazia l’abbiamo inventata noi, con la scrittura; non c’è democrazia dove non c’è scrittura). La democrazia comincia là dove si dice: "Scriviamo le leggi perché una volta scritte, nessuno se ne può approfittare, tutti sono uguali davanti alla legge". Questa non è la legge di Antigone, che invece non si può scrivere; la parola non si può scrivere, o meglio, si può scrivere, ma non senza prezzo. Nel momento in cui una civiltà ha scritto la legge dell’uomo, in quel momento questa civiltà ha imboccato una strada senza ritorno, piena di grandi conquiste e piena di grandi pericoli. Proprio dalla scrittura viene che il nostro destino sia di essere sempre più incamminati verso una civiltà, una cultura, una società di distintivi senza sostanza, di segni senza simbolo, di conformismo, di omologazione. Per la prima volta abbiamo inventato puri segni convenzionali, con i quali trascrivere la voce, la parola piena di senso, evocativa, poetica, religiosa, profetica. In quanto abbiamo esercitata quella pratica su di noi, sui nostri ragazzi, per millenni e millenni abbiamo creato il lettore universale, la cultura universale, l’uomo universale, dove universale vuol dire astratto, capace di tutto, inserito in nulla, un uomo che ha tradotto i segni della sua cultura in strumentalità, in strumenti potentissimi. Quale diffusione può avere la cultura se non attraverso la scrittura, ma il prezzo di questa diffusione è la perdita della parola vivente. È indubbiamente la perdita della legge originaria, che nessuno ha detto, che risuona nella voce, per entrare nel mondo della convenzionalità, del "si dice", del "si fa così", del "è più logico procedere in questo modo".
Non è molto efficace, a mio giudizio, scandalizzarsi moralisticamente che noi oggi siamo nella omologazione, costantemente minacciati da una sorta di conformismo sociale, politico, culturale; è nella natura delle cose, e noi non lo eviteremo per il fatto che ce ne lamentiamo, perché quel problema sarà qui, come ovunque; noi che lo diciamo, noi stessi corriamo il pericolo del sottinteso, della regola non scritta, come diceva Abbruzzese, del dover per forza applaudire, del dover per forza essere unanimemente d’accordo, del dover per forza celebrare, di dover per forza essere contenti di quello che facciamo, perché questo è nella natura del nostro partecipare alle cose, attraverso una cultura che ci ha reso critici, distaccati, uomini della ragione fredda che leggono e scrivono, e che tengono a bada, e sotto controllo, le cose. Non è una critica, la mia, è una constatazione. Grandi uomini stanno guadagnando il pianeta, ma uomini che pagano un prezzo, il prezzo di Antigone.
A questo punto il nostro discorso si trova di fronte ad una antitesi inquietante: che cosa si deve fare, al di là del prendere coscienza che noi non siamo l’Uomo, ma un uomo tra tante umanità, che la nostra cultura non è la cultura, ma una cultura tra tante culture, che i nostri sistemi di simbolizzazione, di segni, di scrittura, il modo in cui scriviamo le cose, in cui costruiamo le cose, produciamo le cose, i fast-food, tutto questo è un modo che ci deriva da una tradizione antichissima, nella quale siamo inseriti? dobbiamo forse tornare ad Antigone o dobbiamo arrenderci a Creonte, preso qui come la inevitabilità del potere, quale oggi noi lo viviamo nella sua mancanza di identità culturale, di profondità metafisica, certo, perché la scrittura rompe le profondità metafisiche, rende tutto pragmatico, tutto strumentale? Dobbiamo scegliere tra queste due facce? No, io credo che dobbiamo stare nel luogo della contraddizione, guardarla bene in faccia e non farci troppo incantare dalla nostalgia di Antigone, di una identità forte, di una radicale metafisica capacità di autoidentificazione. Così come non dobbiamo certo farci travolgere dal conformismo dell’ottimismo a tutti i costi, del "Va bene così" o peggio ancora, "Non andrà bene ma è meglio così; noi in Occidente saremo certamente pieni di difetti, ma guardate gli altri!": questo è il conformismo più pericoloso! Che cosa c’è di pericoloso in questa antitesi? il fatto (è la mia proposta, ve la sottometto con grande umiltà) che noi non abbiamo capito bene che la maschera di Antigone e quella di Creonte sono un’unica maschera, sono interscambiabili. È facile scegliere Antigone contro Creonte; delittuoso, quasi provocatorio, sarebbe scegliere Creonte contro Antigone. Il problema è che non si tratta di scegliere. Il problema, impostato così, rende tutto moralistico, giaculatorio e conduce ad una facile esaltazione dei valori perenni.
Che cosa accomuna Antigone e Creonte? Io direi una situazione profonda dell’uomo, che concerne il tema della libertà. Certamente Antigone è l’eroina della libertà, quella che difende il gesto umano, chiedendo perché un’azione autenticamente umana debba essere giudicata una colpa. Ma la questione sta tutta lì: esiste un’azione umana che non sia una colpa? Questo è il punto: è veramente indenne da colpa, Antigone? Certo, nel momento in cui Antigone rivendica il suo diritto ad appellarsi alla voce originaria che dice il nome del morto, senza del quale non ci sono gli uomini vivi, tutti noi siamo con lei, soprattutto perché Antigone rivendica questa libertà contro qualcosa che gliela vuole impedire. Ma immaginatevi che la situazione andasse diversamente da come la tragedia ce la racconta, che Antigone convincesse Creonte e che Creonte ammettesse di aver sbagliato e verso la fine gli venisse qualche dubbio. Povero Creonte se dicesse: "Vieni al mio fianco, stabilisci tu allora la legge e le norme!". Voi credete che la libertà in nome della quale Antigone si muove possa essere scritta, possa tradursi in norme positive, possa diventare un potere legittimo? Non può: è questo che dobbiamo capire!
Nel momento stesso in cui l’uomo porta la voce all’espressione, il simbolo al segno, la libertà all’effettualità, perde tutto questo. L’uomo è il testimone di questo evento, non può far altro che tradurlo nella realtà, ma nel momento in cui questi atti liberi diventano quegli atti che sono, questi non sono più liberi, prendono la fisionomia di Creonte; Antigone diventa stranamente, incredibilmente Creonte. Il luogo dove l’uomo testimonia della sua identità è là dove non viene detto il significato dell’uomo, ma il suo evento, o, se preferite, là dove viene detto l’evento di ogni significato. Nel momento in cui tu identifichi la libertà in un connotato, in un distintivo, fosse il più nobile, il più alto, con le migliori intenzioni, lì corri il rischio, perché tu sei testimone dell’evento e non del significato, tu sei testimone del momento in cui il nome è risuonato e risuonando il nome l’uomo si è riconosciuto. Ma noi non abbiamo il potere di evitare l’incarnazione del nome, non abbiamo il potere di farlo perché questa è la colpa che ci caratterizza (ma non so più se si debba chiamare colpa o strutturale condizione dell’esperienza della libertà e della verità umana) a cui non possiamo sottrarci, e nello stesso tempo noi non possiamo dimenticare che dobbiamo sempre espiare questa colpa, che Antigone diventa sempre Creonte, che ha bisogno di un’altra Antigone, e che noi diventiamo Creonte a noi stessi, quando ci chiudiamo nei nostri segni, nei nostri distintivi, nelle nostre certezze.
La società nella quale viviamo ha posto l’uomo di fronte a questo interrogativo con una radicalità mai sperimentata prima. Qui non si torna indietro alla terra del padre; non c’è più la terra del padre, c’è il mondo della tecnica, del fast-food, il mondo in cui le cose si fanno così perché le abbiamo scritte così, e non siamo in grado di tornare indietro alla voce senza scrittura, alla tradizione orale, alla virtù profetica della parola.
Noi dobbiamo continuare per questa strada, che se ha un suo punto di riscatto, una sua forza, una sua grandezza, è precisamente in questo, che richiama l’uomo al suo evento e alla eternità del suo evento, e alla necessità della sua reinterpretazione nella certezza che quella è un’esperienza di verità, di libertà, ma sempre soggetta alla caduta, all’errore, poiché nell’uomo non c’è differenza tra l’essere nell’esperienza della verità e l’essere in errore. Questa è la sua grandezza e non la sua finitudine piccola, di cui noi avremmo da lamentarci. La sua dignità è che custodisce questo luogo dove a lui è affidata l’interpretazione, ma non l’evento. L’evento è più grande di lui, l’evento è ciò che lo fa parlare, che lo fa agire, di fronte al quale si confronta, di cui non avrà mai la misura, che non potrà mai ridurre ad una convenzione, ad un ordine mondiale, ad una omologazione. L’evento è più grande di lui, suo compito è tradurlo, ricordarsi che la traduzione accade in errore e la sua dignità è nel guardare questo stesso errore, nel sapersene sottrarre, nel sapere che la caduta nel segno del suo evento simbolico è la sua fatalità e che la sua salvezza è nel riscattarsi ogni volta da ciò.
Il mondo della tecnica ci mette di fronte a questo futuro in maniera ineluttabile: o noi diventiamo totalmente proni ad esso, e questo vorrà dire probabilmente che noi non saremo più in grado in alcun modo di governare gli eventi di quel mondo, come sta cominciando a succedere da tempo, come tutti paventiamo, oppure noi riusciremo ad abitare questo sterramento delle radici, questa cancellazione dell’identità originaria, questa rottura con la tradizione, questa distruzione totale della terra come provocazione ad un nuovo soggetto, ad un nuovo modo di abitare, come capacità di identificare la patria, la terra, l’abitare, in qualcosa di più alto che non la terra del padre, quella definita terra, quella piccola terra cui ognuno di noi può arrivare. Allora l’universalità della tecnica, invece di essere quella astrazione del lettore universale che legge tutto e non capisce nulla, diventa una provocazione ad essere soggetti che incarnano la voce di tutti, nell’affinitudine del loro luogo d’errore.
Accettare questo è cominciare ad accettare l’universalità dell’evento. Lì si crea un luogo in cui le civiltà della tradizione orale e la civiltà della scrittura, quale noi siamo, possono dialogare, possono incontrarsi, possono collaborare nella diversità di un mondo comune. E se non accettano l’errore da una parte e dall’altra, profondamente, sinceramente, genuinamente, non si crea quell’unità di cui parlava così bene Abbruzzese, quell’unità senza la quale non c’è vero dialogo, c’è solo il sottinteso della potenza, il sottinteso della violenza.
In questo modo di leggere attualizzando, con tutti i rischi di una cosa del genere, Antigone e Creonte, sta la chiave di quello che in questo Meeting è stato proposto come tema di una libertà che non si lasci omologare. Vorrei concludere con una riflessione. È facile combattere ciò che sta fuori. Ciò che sta fuori è sempre l’altro, ha sempre la faccia di Creonte, appunto. Si trova facilmente l’unità verso ciò che sta fuori, e tutto questo è necessario, per creare quell’humus culturale, umano, di simpatia, ciò per cui io sono qui e tanti altri. Tutto questo è importante, ma voi siete cresciuti parecchio, mi pare, in tutti questi anni. Queste due figure vanno riportate dentro, cioè al problema più nobile, più alto. La sfida più grande di fronte alla quale è il Movimento che è un movimento di libertà, che offre uno spazio di libertà (e lo dico io che sono qui, sono il primo testimone, felice di testimoniarlo), la provocazione più alta è di comprendere che se è facile combattere fuori, più difficile è combattere dentro, cioè porre dentro la questione fin dove Antigone e Creonte si scambiano i ruoli, fin dove noi corriamo il rischio dell’etichetta, della caduta dell’intenzionalità, come diceva un grande filosofo del ‘900, dove e fin dove la scrittura, nel senso della morta scrittura, si sostituisce all’esperienza vivente della voce, dove e sin dove è portata l’esperienza del non aver radici, e quindi del dovere traslocare più in alto, del dover andare ad abitare in un luogo dell’umano più nobile, più pieno di speranza.
NOTE
(1) Ciò che è decisivo in questo processo in cui Michele beve il Glen Grant insieme ai suoi amici mentre invece quelli che vanno in barca bevono il Johnnie Walker non è chiaro perché è la costituzione di uno scenario di finzione permanente nel quale i tipi di esistenza sociale non sono reali ma sono degli stereotipi immaginari.