Baghdad: la guerra e oltre
Lunedì 26, ore 19
Relatori:
Mario Guaraldi
Aldo Brandirali
Roberto Formigoni
Moderatore:
Robi Ronza
Ronza: Il libro Baghdad: la guerra e oltre prende le mosse da uno scambio di corrispondenza fra Brandirali e Formigoni; c’è una seconda parte che riguarda la proposta dell’Associazione per una Nuova Gerusalemme contro le pretese del Nuovo ordine mondiale; e poi c’è il diario di bordo delle missioni politiche di Roberto Formigoni in Medio Oriente, così come sono avvenute e non come sono state raccontate troppo spesso da una stampa molto condizionata, più condizionata di quanto ci si aspetterebbe in un paese democratico.
Guaraldi: Io sono lo stesso editore che, negli anni ‘70, ha pubblicato un libro dal titolo ben diverso: "CL: gli estremisti di centro". Erano anni molto diversi, era il periodo in cui noi vivevamo sogni e davamo valutazioni e giudizi molto diversi. Ma la storia è una cosa strana; il fatto che a distanza di non tantissimi anni, oggi, quello stesso editore sia qui in mezzo a voi a presentare il libro di Roberto, è una delle possibili dimostrazioni che i miracoli esistono.
È davvero un miracolo quello che può produrre un gesto di amicizia. Qualche mese fa, non solo non esisteva il libro, ma non esisteva neanche la casa editrice che oggi lo presenta: questa è la forza di un gesto d’amicizia. Io non potevo proprio sopportare Formigoni, ma, conoscendolo, ho scoperto un’infinità di cose, niente affatto teoriche, niente affatto mediate dalla cultura, ma proprio testimoniate dalla presenza, dall’amicizia concreta, dal lavorare insieme, dal partecipare ad una stessa Speranza, finalmente non più con la esse minuscola, come quella che io possedevo negli anni della grande illusione, ma con la esse maiuscola.
Un piccolo ex editore di sinistra è diventato un piccolissimo editore amico del Movimento. Mi ha colpito il coraggio di Roberto nell’accettare un’avventura di questo tipo: non tanto la provocazione di un libro fatto con un ex piccolo editore di sinistra, non solo la provocazione di scrivere un libro a quattro mani con uno dei principali ex leader di un movimento rivoluzionario degli anni ‘60 e ‘70, ma proprio il gesto di coraggio tipico di chi, effettivamente, riesce a capire che, dentro una situazione grave e drammatica come quella determinatasi con la guerra del Golfo, bisognava dare un segno di qualche cosa di completamente nuovo che stava nascendo. Sarebbe stato molto più facile andare da Mondadori, da Garzanti o da Rizzoli. No, la scelta di Roberto e di Aldo è stata proprio quella di accettare la scommessa del nuovo, che è esattamente la stessa scommessa che stiamo giocando in questi giorni di fronte alle situazioni drammatiche a cui assistiamo nel mondo.
Aldo Brandirali è nato a Milano nel 1941. Operaio, nel 1961 diventa funzionario della CGIL e dirigente della F.G.C.I. Nel 1965 esce dal PCI: nel 1966 costituisce il gruppo Falcemartello. Nell’ottobre del 1968 fonda l’Unione dei Comunisti (marxisti-leninisti) Italiani.
Viene eletto Segretario Nazionale del gruppo e dirige la realizzazione del settimanale "Servire il popolo". Nel ‘72 il gruppo si trasforma in Partito Comunista (marxista-leninista) Italiano.
Nel gennaio del 1976 Brandirali abbandona ogni attività politica nella convinzione di aver imboccato un vicolo cieco senza prospettive. Ridiventa operaio elettricista. Nel 1982 riprende l’attività pubblica focalizzando il suo interesse sull’incontro tra persone di diversa cultura e idealità, laiche e cattoliche. A metà degli anni ‘80 incontra la realtà del Movimento Popolare, del quale diviene militante e membro del Consiglio Nazionale.
All’interno della Compagnia delle Opere coordina le opere di assistenza e di recupero di persone emarginate. Nel gennaio 1991 dà vita all’associazione "Nuova Gerusalemme", costituita da coloro che si sono opposti alla guerra nel Golfo.
Brandirali: Generalmente, quando si prende in mano un libro, si pensa di leggere una progressione di cose che si possono capire, imparare; in questo caso, invece, è diverso. Il libro è un gesto. Come una fotografia, un mazzo di fiori, un simbolo. C’è un percorso dentro che non voleva essere organico, né essere una risposta a niente. È un lasciarsi provocare da quello che ha provocato tutti in quei giorni, in quelle notti davanti al televisore, davanti alla violenza di una guerra che appariva proprio nella sua dimensione più tremenda, drammatica, sconvolgente, scontro di un superpotere che, nello stesso tempo, era ordinatore ma anche elemento di disfacimento, fattore scardinatore di tutto un contesto di modi, di forme, di storie, di vicende, di popolo, di nazione, di sforzi di costruzione. Dopo esser stato a Baghdad e aver visto il Paese, come non sentire, davanti a queste notizie di guerra, che sarebbe scomparsa completamente una condizione di vita costruita negli anni, una situazione costruita dal popolo con immense fatiche e infinite presenze, una realtà complessa e interessante, con la presenza di molti lavoratori stranieri?
È nata allora l’esigenza di esprimere questo senso di ingiustizia e il bisogno di gridare contro di essa. Il mio bambino, ad un certo punto, in quei giorni, mi ha detto: "Basta, spegni la televisione, non lo sopporto più, non ne posso più. È così che avviene, perché così sono i potenti!". Era questo ancor più doloroso per me, perché arrabbiarsi, sentire che c’è bisogno di reagire, di agire e di muoversi non vuol dire bruciare e finire o consumarsi davanti all’ingiustizia, vuol dire piuttosto esser vivi, palpitare, piangere, perché piangere è vivere, ed è parte del sapore e del gusto delle cose, è parte della ragione del vivere. E questo gesto, che si esprime nel libro, per me, nella lettera a Roberto, è soprattutto un porgli tutto me stesso, davanti a un avvenimento, dicendo: ecco, io sono in piedi con te, dove andiamo? Ci tendiamo la mano, dove andiamo? Uomini. Ho pensato a incontri di cultura, a dialoghi, a composizioni, a punti mediani di incontro, ma, alla fine, in realtà, il vibrare di un bisogno, di un desiderio, di una necessità di cammino e di ripresa, mi portava oltre questo modo non vero di cercarsi e di accompagnarsi nella vicenda umana. E allora, non incontro di culture, non due tesi sono in questo libro, non due posizioni, non punti mediani; ci sono, invece, proprio persone diverse, come siamo diversi io e Roberto, molto diversi, in questo viaggio che abbiamo fatto insieme, in questa settimana trascorsa in quella bara bianca dell’hotel di superlusso di Baghdad, un luogo che ci schiacciava in un’avventura proprio come se fossimo carnalmente uniti, insieme, davanti a una vicenda.
Queste persone diverse hanno trovato il modo di essere capaci di condividere a fondo una vicenda, un avvenimento, una situazione, una condizione, un istante, valorizzando le diversità e le unicità profonde; proprio la differenza esistente fra me e Roberto si propone come un piatto ricco di possibilità. Roberto è stato molto abile, per esempio, negli incontri con i dirigenti iracheni: ci siamo sentiti raccontare dodici volte sempre la stessa storia, monolitica e precisa. Bisognava dissodare questo monolitismo, riaprirlo, farlo diventare riflessione, apertura di un’ipotesi: Roberto è stato bravissimo in questo, è un ottimo statista, oserei dire. Ma io ero a fianco di Roberto in questa vicenda per qualche cosa che offriva allo statista una possibilità nuova: l’impeto di un forte desiderio umano che le cose fossero fatte e il cambiamento potesse avvenire; che, davanti ai nostri concittadini bloccati in Iraq, si potesse agire, fare qualcosa, modificando quel contesto. Allora, stimolato dalla presenza di un dinamismo di popolo, di opposizione e di critica, lo statista agisce, rende, cambia, può fare. Bisogna veramente combattere assieme: il titolo vero non era: "Baghdad: la guerra e oltre", ma "Altro che protagonismo!".
Formigoni: Sì, "Altro che protagonismo!", perché il protagonismo è stata una delle accuse, forse quella principale, che ci siamo sentiti rivolgere nei giorni in cui eravamo a Baghdad ai primi di dicembre per la liberazione degli ostaggi e, poi, tutti i mesi successivi. Impressionante questo fatto! Come l’altro fatto terribile: che nessuno abbia detto che a Baghdad non sono andato da solo, eravamo in nove, c’era Aldo e ce n’erano altri sette; tutti però han parlato di Formigoni e basta. L’importante era isolare, tagliare, far vedere l’uomo solo, perché un uomo solo è più facilmente distruggibile, una compagnia no. Però, a Baghdad ci siamo andati perché eravamo compagnia, perché eravamo un gruppo di amici, noi nove, e dietro di noi c’è un altro gruppo di amici ancora più potente, che ci ha dato le ragioni dell’andare. Questo è stato forse l’aspetto più splendido, più umanamente gratificante della vicenda, perché vi assicuro che a Baghdad, a fine novembre del 1990, ci siamo andati realmente contro il parere e il consiglio di tutti, amici, avversari, parenti, conoscenti.
Che cosa è stato allora che ci ha convinto a partire? Non un gesto di presunzione personale, non una voglia di protagonismo, come poi ci avrebbero accusato di avere, ma la percezione chiara che la compagnia, l’amicizia dentro la quale eravamo Aldo ed io e gli altri che sono venuti con noi, in quel momento lì, sfidando tutto e tutti, esprimeva sulla situazione storico-politica un giudizio diverso da quello condiviso dalla maggior parte della gente. Aldo ricorderà certamente la prima volta, "la" volta che ne abbiamo parlato con gli amici più cari e più responsabili a cui facciamo riferimento: abbiamo cominciato a parlare di ciò che stava succedendo nel mondo, della possibilità concreta che, dopo quarantacinque anni di retorica su pace, democrazia, diritto dei popoli, questa pace si rompesse e i nostri Paesi scendessero in guerra. Non c’è stato bisogno di molte parole, è scattata un’intesa. Era chiaro che dovevamo fare, o almeno, tentare qualche cosa di differente; dovevamo andare là a Baghdad perché là il bisogno dell’uomo ci chiamava, perché là c’erano dei nostri fratelli, che non conoscevamo evidentemente, ma che erano in pericolo e che si aspettavano un gesto di solidarietà concreto, al di là della retorica con cui in tutti quei mesi si era parlato di solidarietà internazionale e di rispetto per i diritti umani. Hanno cercato di violentare, di massacrare questa nostra posizione in tutti i modi, accusandoci di essere dalla parte dell’invasore, di approvare l’occupazione e l’annessione del Kuwait, di essere i traditori della patria, di esserci venduti, di aver portato il cervello all’ammasso. A casa nostra, i nostri sapevano perché eravamo andati e sapevano che si doveva andare. Ha ragione Mario Guaraldi quando dice che il libro è un gesto di coraggio. È un gesto di coraggio il libro nello stesso modo con cui è stato un gesto di coraggio l’andare. Un gesto di coraggio o un gesto di incoscienza, dipende da che parte la si guarda. Coraggio e incoscienza per il vice presidente democristiano al Parlamento europeo che si mette assieme a un ex mezzo terrorista; Aldo, lo sappiamo, non ha fatto male a una mosca ma certi facitori di opinione pubblica han cercato di sfruttare fino in fondo questo. Coraggio e incoscienza anche per questo figlio della sinistra milanese che s’è messo insieme a un leader democristiano.
Questo libro vale per le prime venti pagine, per la lettera che Aldo mi scrive che è un capolavoro. Il resto poteva esser fatto in mille modi diversi, l’abbiamo improvvisato in trenta giorni. Il libro, insomma, vale perché c’è questa forza umana che Aldo manifesta, questo incontro fra diversi, questa sfida, in una società che ci vuole irreggimentare. Aldo fa venir fuori tutta questa forza di rottura degli schemi dentro cui vorrebbero irreggimentarci.
L’aspetto drammatico, ma anche più bello, di quelle settimane è che, di fatto, la nostra azione rompeva le gabbie, almeno alcune di queste; metteva in discussione il sistema con cui è fatto questo mondo. E teorizzava, anzi, molto di più, costruiva un luogo più ampio dentro il quale alcuni animaletti che prima stavano nella loro gabbietta, ognuno per proprio conto, si incontravano. Ricordate lo scandalo a piazza San Pietro, l’Angelus del 13 gennaio, quando Aldo e io e altri ci incontrammo con alcuni militanti di sinistra ad ascoltare le parole del Papa?
È che noi avvertivamo più lucidamente e prima di altri il cambiamento che era intervenuto nel mondo. Lo dico senza presunzione, ma con coscienza piena. L’educazione, la storia, quello di cui ci siamo innamorati nella nostra vita, ci ha insegnato, forse prima e più acutamente di altri, a percepire il cambiamento storico che era intervenuto. Rotta la fondamentale divisione in gabbie del mondo, quella tra Est e Ovest che ha dominato e terrorizzato il mondo per 45 anni, ci siamo resi conto che era arrivato il momento di mettere in discussione questa parte del mondo in cui vivevamo. Provo una certa umoristica compassione ad ascoltare tanti che oggi ci fanno la predica sul comunismo e le sue malefatte. Dov’erano questi signori quando la battaglia per la libertà noi la facevamo concretamente? È molto comodo parlar male del Partito Comunista sovietico o italiano adesso che non ci sono più. Ma quando la battaglia vera era da fare noi eravamo in prima linea, a dire liberamente, magari talvolta anche esagerando, quello che vedevamo di male dentro i sistemi dell’Est europeo. Chi ha portato in Italia il dissenso, chi lo ha fatto conoscere, chi ha pubblicato i primi testi di persone come Lech Walesa, Vaclav Havel e tanti altri? Russia Cristiana, Cseo. Chiamati a scegliere, secondo quelle false scelte che tante volte bisogna fare (stai col comunismo o stai col capitalismo?), abbiamo scelto di stare nel sistema occidentale e siamo e ci sentiamo figli dell’occidente. Ma Papa Wojtyla, per non parlar di noi che siamo umili discepoli, non ha fatto la battaglia contro il comunismo per far trionfare un altro sistema ideologico; ha lottato contro i sistemi dell’Est per l’uomo e per la libertà concreta dell’uomo. E allora, crollato il comunismo, oggi è il momento di continuare questa battaglia.
Oggi si è aperta un’altra epoca storica con la caduta del muro, forse più scomoda dal punto di vista politico e culturale. Occorre sostenere le ragioni della pace, del dialogo, non la difesa dell’ingiustizia e della violazione. Sono stato il primo a muovermi nel Parlamento europeo proprio nei giorni del Meeting dell’anno scorso che lasciai il prima per andare a capitanare una delegazione ufficiale nei Paesi del Golfo. Il problema non era quello di difendere un’ingiustizia, ma di ricercare in un altro modo, attraverso le vie del dialogo a tutti i costi e della soluzione pacifica, la soluzione al problema.
Questo non è un libro antioccidentale o antiamericano, come la nostra non fu e non riuscirono a dimostrare che era una posizione antioccidentale e antiamericana: era una posizione che criticava alcune storture dell’Occidente e degli Stati Uniti d’America. Oggi il dibattito riguarda il nostro sistema. Ho sempre difeso la scelta di campo filoamericana del nostro Paese, ma il problema è a che condizioni, in quale modo star dentro questa alleanza. È stato un rinnegamento delle più autentiche linee della cultura occidentale ed europea la scelta della soluzione violenta e non è un caso, d’altra parte, che in quei terribili quaranta giorni di guerra abbiano tentato in tutti i modi di dimostrarci che non era guerra, che era "un’operazione chirurgica" che si usavano "le bombe intelligenti". E noi ci permettevamo di obiettare, ci permettevamo di dire che in ventotto giorni di bombardamenti sull’Iraq erano state rovesciate centodiecimila tonnellate di bombe, cioè più di tutto il quantitativo di bombe che fu rovesciato sull’intera Germania nazista in cinque anni di guerra. E per questo eravamo accusati di essere amici del dittatore, di essere antioccidentali. Poi, sono passati quarantacinque giorni ed è stato riconosciuto che almeno il settanta per cento delle bombe non hanno colpito il loro obiettivo, ma altri. Questa guerra è stata fondata sull’inganno, perché, appunto, si capiva che la coscienza dell’uomo libero, cristiano o laico che fosse, occidentale, europeo, non poteva ammettere il ricorso a un tale strumento per risolvere i conflitti.
Oggi noi siamo ancora dentro questo dibattito, fortunatamente non più quello specifico della guerra, ma dentro il dibattito sul modo con cui vogliamo costruire questo nostro essere europei, questo nostro essere inseriti nella Cee con rapporti internazionali. Il Nuovo ordine mondiale è un tema alla cui costruzione vogliamo partecipare. Non crediamo che ci debba essere discriminazione o che debbano essere aumentate le distanze tra mondo occidentale e mondo arabo, tra mondo cristiano e mondo musulmano. Vogliamo costruire, invece, una situazione dentro la quale uomini diversi per cultura, per tradizione, per religione, riprendano a parlarsi, a collaborare.
Questo libro si conclude accennando ad uno dei viaggi successivi compiuti in Medio Oriente dopo la fine della guerra. Voglio che ci si riporti con la mente al mese di marzo, perché dobbiamo aver presente come la vicenda dei curdi fosse utilizzata ancora per un’operazione di tipo ideologico e politicante nel senso deteriore del termine. I curdi furono utilizzati come arma finale contro i pacifisti. I pacifisti li si era bombardati con le colonne di piombo e dagli schermi delle televisioni nei quarantaquattro giorni di guerra. I pochi scampati si cercò di farli fuori definitivamente usando l’arma dei curdi. E li sentimmo, questi signori della politica e della cultura pontificare: "Dove sono i pacifisti, quelli che hanno sfilato nelle strade contro la guerra in Iraq, adesso che i curdi sono calpestati? dove sono? non hanno il coraggio di parlare?".
Appena è stato possibile, Ronza, io e alcuni amici siamo andati in Kurdistan e ci siamo tornati altre volte, e ancora oggi quindici nostri amici sono presenti ad Arbil, a Suleimanye, a Kirkuk nelle città del Kurdistan iracheno e sono loro e noi gli unici occidentali, dalla fine della guerra del Golfo ad oggi, ad aver messo piede in quelle aree. Tanta retorica e tanta commozione, ma, concretamente, che cosa fu fatto? Qualche tenda e qualche ospedale da campo al nord, in territorio iracheno e in territorio iraniano, poi quell’operazione vergognosa – lasciatemi usare il termine – che furono gli aiuti aviolanciati: le casse da quintali o da una tonnellata di viveri, lanciate dagli aerei col paracadute. Perché dico operazione vergognosa? Perché qualunque manuale militare o di protezione civile sa quali sono le conseguenze inevitabili, matematiche, degli aiuti aviolanciati su una popolazione affamata. E lì era una popolazione affamata, indebolita da giorni di digiuno, infreddolita dal gelo delle montagne. È matematico che la gente si raduni sotto e che queste casse pesanti quintali, precipitino e si fracassino sulla testa della gente. Un rapporto dell’Onu parla di diverse centinaia di curdi massacrati e uccisi – un rapporto parla addirittura di più di mille persone uccise da questo. E non è stata una fatalità. Ripeto: i manuali di tecnica militare sanno che l’aviolancio si usa in altri casi, non quando una popolazione allo stremo, di fronte alla fame, diventa incontrollata.
Comunque, questo libro, e soprattutto quello che lo ha generato, è importante e bello per la novità che sta nascendo. La cosa più bella è la speranza che è nata dall’incontro con alcuni uomini e con alcune persone, come Aldo, come Fausto Lupetti, come Elio Marotta, Mario Guaraldi stesso e tanti altri loro amici, quelli che, con un linguaggio tecnico, sono chiamati gli esponenti della cultura laica e di sinistra. È stato chiaro che siamo stati insieme contro la guerra per qualche cosa che veniva prima della nostra stessa opposizione alla guerra. Per una percezione dell’umano e per un gusto della solidarietà tra gli uomini che ha, probabilmente, radici diverse tra di noi, ma tende, forse, verso un unico obiettivo: la Nuova Gerusalemme di cui parla il libro. La Nuova Gerusalemme, associazione nata a Milano con ramificazioni in tutta Italia, mette insieme degli uomini, delle persone, ognuna delle quali ha una sua traiettoria, una cultura, una faccia, una sua passione e un suo amore; l’uomo che vive in Italia è intriso di cultura cattolica e di cultura laica nello stesso tempo; allora, non si tratta più di un incontro tra culture o tra militanti di partito, ma di un momento di incontro tra uomini, che bisognerebbe potenziare. Ecco perché siamo interessati. Non c’entrano le sigle di partito, a me interessano gli uomini, le donne, tutti, ma in particolare, oggi, quelli che hanno creduto in un’utopia, rivelatasi fallace e fallita, che hanno creduto nell’utopia comunista, sbagliando, perché avevano un sentimento della giustizia sociale e della solidarietà che non potevano frenare. Ecco, la speranza è che oggi si possa instaurare un dialogo, una vicinanza su questo, sul desiderio di giustizia sociale, di eguaglianza, di solidarietà, di amore tra gli uomini; la speranza è questa, ma su questo abbiamo bisogno, e lo dico senza retorica, del contributo vostro, di chi ci sta, di chi ci crede; lavoriamoci assieme, questa novità può crescere e può andare avanti.