Vicino Oriente anno 2000: spariranno i cristiani?
Venerdì 30, ore 15
Presentazione
della mostra
Relatori:
Nicola Bux
Franco Cardini
Robi Ronza
Carlo Cecchi
Nicola Bux, professore alla Facoltà ecumenica di Bari, studioso di orientalistica e di ecumenismo, vicepresidente dell’ENEC (Europe - Near East Centre "Terrasanta"), un’associazione internazionale che promuove la riscoperta del legame profondo tra mondo della fede di Abramo – il Vicino Oriente, che i medievali chiamavano Terrasanta – e l’Europa. Ha sede in Molfetta, presso l’Ospedale dei Crociati. Il sodalizio sviluppa la sua opera attraverso la cultura, la solidarietà e la missione verso i cristiani, le chiese, i popoli e le nazioni del Vicino Oriente.
Bux: Perché parlare ancora di Medio Oriente dopo una guerra che non ha risolto alcuno dei suoi problemi? Sin dalle prime edizioni il Meeting aveva rivolto la sua attenzione a quell’area, proponendo incontri con personalità dell’ebraismo, del cristianesimo orientale e dell’islamismo. Si riprende ora il filo con una consapevolezza accresciuta dagli eventi e dagli incontri con la drammatica situazione dei cristiani. È soprattutto però il gesto compiuto dal Papa Giovanni Paolo II in marzo, la convocazione dei capi delle antiche chiese d’Oriente, a costituire la traccia di un lavoro.
Perché le vestigia del Mediterraneo non se ne vadano nelle valigie dei cristiani, come è stato scritto, bisogna in primo luogo conoscere e capire il Vicino Oriente, espressione geograficamente più giusta che "medio" anche se è molto più divulgata, a partire dalla ripresa e purificazione della memoria storica. I medievali infatti guardavano alla mezzaluna fertile, comprendente la terra in cui aveva avuto inizio la Rivelazione abramitica e cristiana, come alla Terrasanta tout court. È stato scritto recentemente che la Terrasanta è al suo anno zero, a motivo delle ingiustizie, dell’emarginazione e dell’immigrazione che colpisce i dodici milioni di cristiani, espressione viva dei suoi popoli e delle sue nazioni.
Non fa problema ammettere che se non siamo nell’anno zero, siamo in una situazione analoga a quella dei primi secoli della Chiesa, laddove solo la forza di una esperienza poteva convincere il mondo circostante della novità portata da Cristo. Che forse in Europa la situazione sia diversa? Che cosa chiedono i cristiani di Terrasanta?
Che il mondo comprenda che la Chiesa è minacciata nella sua stessa esistenza. La sua scomparsa sarebbe una grandissima perdita per l’Oriente cui verrebbero a mancare le radici, le proprie fondamenta, senza dire che forse diminuirebbero le possibilità di accesso in quell’area. Dal 1860 più di due milioni di cristiani sono stati martirizzati laggiù, senza contare le vittime libanesi dal 1975 ad oggi.
Parlare della Chiesa, anzi evidenziare la situazione dei cattolici non vuol dire dimenticare la pluriformità apostolica degli antichi patriarcati, quindi appunto la compresenza del mondo non cattolico in particolare quello ortodosso; oppure dimenticare la complessità dei rapporti con i cristiani non cattolici da un lato e con ebrei e musulmani dall’altro, vuol dire invece che vogliamo affemare che soltanto un afflato universalistico è capace di salvare ogni particolare, di valorizzare ogni vero monoteismo: è e deve essere il Cattolicesimo.
Il Santo Padre Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptoris Missio, ha proprio esortato la Chiesa cattolica ad avere questo sguardo verso Oriente ed il Sud del mondo (n. 40). Davvero questa enciclica promulgata durante la crisi del Golfo, addita plasticamente che la presenza cristiana è condizione della pace; per questo bisogna rimettere in movimento la missione.
Nessuno si allarmi. Non si vuole assolutamente rubare il gregge altrui, innanzittutto in casa cristiana, dato che l’annuncio di Cristo deve rivolgersi a chi non lo conosce. Ma non si dica che non bisogna fare proselitismo, quale comoda copertura di un immobilismo ecclesiastico, ultimamente clericale. Negli Atti degli Apostoli si trova già questa parola. Proselitismo significa coloro che accolgono, evidentemente in modo libero, di seguire la Fede; in questo caso la Fede cristiana.
Se, come ha detto nella scorsa edizione del Meeting il Card. Ratzinger, "la Chiesa deve essere una compagnia sempre riformanda", c’è solo spazio per una fede che voglia farsi opera per il bene dell’uomo. Nessuno, pertanto, cattolico o ortodosso, creda di stare in piedi in forza di una eredità mummificata che riduce a un nome la identità cristiana.
Il Meeting, con questa mostra, rende omaggio alle Chiese Cattoliche orientali a cui il Concilio Ecumenico ha dedicato un documento che si chiama appunto "Le Chiese Cattoliche orientali". Queste chiese da mille anni hanno elaborato una teologia atta al confronto e all’incontro con l’Islam ed indicano pertanto la vera strada della vera unità dei cristiani che non sia politica o diplomatica. Essa è il riconoscersi chiese particolari in comunione con la Chiesa universale.
Franco Cardini, professore all’Università di Firenze, studioso del Medioevo e delle Crociate, membro del Comitato Esecutivo dell’ENEC.
Cardini: Uno degli scopi fondamentali della mostra è far conoscere la realtà dell’esistenza di comunità cristiane diffuse in tutta l’area del Vicino Oriente; i loro problemi, le loro prospettive di crisi o di sopravvivenza, i rapporti fra loro e di tutte loro nel loro insieme e nei confronti dell’Islam e dell’Ebraismo.
L’area da noi individuata come Vicino Oriente (Proche Orient, Near East), corrisponde a un quadrilatero irregolare i cui vertici potrebbero essere posti a Istanbul, al delta del Nilo, al Caucaso e al corso del Tigri. Si tratta quindi dell’area il centro della quale è costituito dalla cosiddetta "fertile mezzaluna" che comprende l’intero corso del Tigri e dell’Eufrate nonché la costa siro-libano-palestinese del Mar di Levante.
Tale area è una delle non molte zone del mondo privilegiata dal sorgere di civiltà superiori.
È una zona di antichi scambi marittimi e carovanieri e di altissime tradizioni religiose. È l’area nella quale è nata la fede in un Dio unico, personale, Creatore onnipotente. Ma essa è stata, nei secoli, anche terra di guerre e di invasioni. Le une e le altre ne hanno spesso modificato il tessuto etnico, sociale, culturale, non senza però che, fino ai giorni nostri, sopravvivessero comunque al suo interno genti di stirpe semitica o indoeuropea (è il caso degli Armeni) caratterizzate da tradizioni nomadiche o stanziali, che molto presto si sono fatte portatrici di un nuovo credo religioso e anche, nel loro insieme, di un nuovo modo di attrezzare la società in rapporto coerente con tale credo.
L’ebraismo è stato, senza dubbio, il lievito immesso nella pasta della nuova fede. E talune comunità ebraiche hanno resistito alla diaspora avvenuta fra I e II secolo dopo Cristo restando in quella Palestina nella quale erano giunti i loro padri attorno al XII secolo avanti Cristo, al seguito del profeta Mosè.
Il cristianesimo, però, non si radicò soltanto fra gli Ebrei, dando luogo alle celebri comunità ebraico-cristiane o giudaico-cristiane. Esso si diffuse già fino dal II secolo tra i siri, gli armeni, gli arabi dello Higiaz e dello Yemen, gli egizi, i caldei della Mesopotamia e passò sia il Bed el Mandeb a Sud del Mar Rosso, per giungere in Etiopia, dove peraltro arrivò anche attraverso la Nubia, sia il Tigri per radicarsi in Persia, in India, nell’Asia centrale, fino in Cina dove ancora non solo Marco Polo, ma addirittura gli esploratori missionari e scienziati e diplomatici della Compagnia di Gesù, fra XVI e XVII secolo avrebbero trovato tracce consistenti di comunità cristiano-nestoriane, le famose steli cristiane così sbeffeggiate da Voltaire che aveva torto perché non aveva le cognizioni archeologiche di cui noi disponiamo: le steli cristiane cinesi sono autentiche.
Lo stesso Occidente fu evangelizzato da cristiani non solo ebrei ma anche siri, armeni, caldei, egizi. A tali nazioni risultano infatti sovente appartenere vescovi e martiri delle persecuzioni fino al IV secolo(1).
Nel laborioso costituirsi della realtà ecclesiale con la sua teologia e la sua liturgia fra IV e V secolo, quando il cristianesimo divenne religione principale dell’impero prima, soprattutto dell’esercito, religione di stato poi, la normativa cattolica che si affermava nelle comunità latine e in quelle greche o ellenofone comunque, più direttamente soggette al controllo imperiale, e che sarebbe stata poi la base della Chiesa cattolica romana e di quella greca ortodossa, quella normativa non sempre prevalse su altre tendenze, altre tradizioni, altri modi di intendere il messaggio del Cristo, di interpretare il Vangelo, di impostare la Liturgia.
Nel Vicino Oriente si mantennero quindi comunità monofisite (in Egitto, in Siria, in Armenia) o nestoriane (dall’Iraq all’India, alla Cina) che resisterono alle scelte dei concili i quali avevano condannato le corrispondenti dottrine, il nestorianesimo, il monofisismo, o addirittura queste comunità non ne ebbero mai notizia(2).
I conquistatori del Vicino Oriente, durante il VII secolo, persiani prima, musulmani o arabo-musulmani poi, in genere rispettarono e favorirono queste comunità alle quali le varie fasi di conquista parziale e temporale da parte dei cristiani di Bisanzio o dei crociati latini aggiunsero l’esistenza, che a tutt’oggi perdura, di comunità di rito greco (la gente del Malik, del "re", cioè del basileus, dell’imperatore di Costantinopoli) o latino.
Questo patrimonio di fede, di tradizione e di cultura si è mantenuto sostanzialmente intatto fino ad oggi. Esso ha fatto sì che tutto il Vicino Oriente nel suo complesso possa considerarsi come una grande "Terrasanta" nella quale sono nati i primi santuari, è stato fondato il monachesimo, sono state elaborate le basi della teologia e della liturgia, è stata fondata l’arte sacra cristiana.
Oggi, questo straordinario patrimonio di cultura, di fede, di tradizioni, di etnie e di religioni che convivono insieme è, obiettivamente in pericolo. La nostra mostra si propone di avviare una conoscenza, almeno di base, più diffusa, in modo da poter programmare, partendo da una più vasta documentazione, concrete forme di aiuto ai fratelli cristiani delle varie confessioni e impedire che la voce venerabile di chiese antichissime taccia per sempre.
Robi Ronza, giornalista e scrittore, è stato inviato de "Il Sabato" nel Vicino Oriente. È membro del Consiglio di Presidenza dell’ENEC.
Ronza: I medioevali pensavano che Gerusalemme fosse il centro della terra. Se guardate la sostanza della storia dell’uomo vi accorgete che il Levante è proprio il centro della terra e che le due grandi parti del mondo dal cui dialogo, dalla cui interdipendenza, dalla cui complementarietà, principalmente deriva la storia umana, sono l’Asia e l’Europa. Non è strano che il Vicino Oriente sia luogo di tante tensioni perché quando un luogo di così grandi risorse, non solo economiche ma anche culturali, viene abbandonato, diventa immediatamente luogo di grandi tensioni. Dove ci sono grandi potenzialità, se queste non sono usate per il bene vengono usate immediatamente per il male.
La crisi del Levante (nome italico prima di quello inglese: Vicino Medio Oriente) è iniziata con lo spostamento dei commerci sugli Oceani. Con la fine dell’età moderna e l’inizio di un’altra età che va delineandosi, riacquistano importanza i grandi itinerari terrestri e nazioni poste sull’antica "via della seta".
In questo contesto si situa la nostra attenzione per il Levante, per i cristiani nel mondo arabo (o cristiani arabi), gli eredi delle grandi tradizioni dei patriarcati di Antiochia, di Alessandria d’Egitto e poi di Gerusalemme. È una presenza che resiste nonostante difficoltà notevolissime perché nel mondo arabo i cristiani sono fortemente discriminati e questo provoca una costante pressione verso l’emigrazione. Così declina una presenza cristiana fondamentale e vengono meno delle forze che possono essere all’avanguardia nelle relazioni fra il mondo arabo e noi. Noi abbiamo tutto l’interesse affinché restino là con tranquillità, possano servire i loro paesi attivamente e possano essere ponte di relazioni con noi così come i musulmani d’Europa dovrebbero essere ponte di relazione nel senso opposto.
Carlo Cecchi, professore di statistica all’Università di Bari, membro del Centro di documentazione dell’ENEC.
Cecchi: Quando si comincia a parlare di "Presenza di cristiani nel Vicino Oriente", uno degli elementi del problema è quello di avere anche una dimensione quantitativa di questa presenza sia riguardo alla consistenza attuale e passata, sia per quanto riguardano gli elementi che hanno fatto modificare spesso questa presenza; parlo segnatamente dell’emigrazione sia in entrata che in uscita.
Questi dati, tranne qualche caso isolato, sono completamente assenti, o sono vecchi, o quanto meno lasciano molti dubbi sulla qualità del dato statistico.
Abbiamo iniziato a lavorare reperendo, seppure con spirito critico, quei pochi dati ufficiali che avevano una qualche parvenza di affidabilità e soprattutto ci si è resi conto della necessità di organizzare una nostra indagine.
Per semplicità abbiamo cominciato con l’indirizzarci verso i patriarcati delle chiese cristiane del Vicino Oriente, abbiamo inviato un questionario teso a dare nozioni sugli elementi essenziali delle tematiche delle quali prima vi parlavo; cioè consistenza attuale e passata, alcune caratteristiche dei cristiani, la problematica del movimento migratorio in entrata e in uscita e poi qualche dato sulla eventuale presenza di forme di emarginazione o di persecuzione.
NOTE
(1) In altri termini, dall’area del Vicino Oriente si è irradiato il cristianesimo e attraverso il cristianesimo si è irradiata questa originale creazione ebraica del Dio unico sia verso Oriente, fino alla Cina – solo il Giappone è rimasto intoccato fino al 500 – sia a Occidente, fino a quella che a quel tempo era la finis terrae, in attesa di spiccare poi il volo verso l’America, insieme a Colombo e ai conquistadores: il Vicino Oriente è il padre di tutto questo.
Probabilmente gli Europei dovrebbero pensare un po’ di più a questo tipo di verità prima di proclamarsi con tanta sicurezza e con tanta sicumera e, secondo me, anche con tanta leggerezza, tout court degli occidentali. Queste sono le profonde radici orientali che ci tengono legati a queste terre.
(2) È quanto accade alla grande chiesa copta etiope la quale vive la sua tradizione monofisita, come dimostrano gli ambasciatori etiopi al concilio di Firenze del 1439, in totale non conoscenza di una condanna della dottrina monofisita da parte della chiesa latina e di quella greca, errata obiettivamente ma preziosa sotto il profilo storico e soggettivo di una comunione ancora reale, effettiva, di questa chiesa etiope così appartata rispetto al mondo cristiano euromediterraneo.