lunedì 27 agosto, ore 21.15
OMAGGIO A DEL NOCE
Partecipano:
Pier Luca Azzaro
Studente universitario
Massimo Borghesi
Ricercatore presso il Dipartimento di Ricerche filosofiche dell’Università di Tor Vergata a Roma e Docente di Etica presso la Pontificia Università S. Bonaventura di Roma
Modera:
Giorgio Vittadini
G. Vittadini:
Chi come me, ha vissuto questi ultimi vent’anni della vita di Comunione e Liberazione, ha sicuramente trovato nel professor Del Noce un punto di riferimento insostituibile. La prima volta che lo abbiamo sentito vicino è stato proprio negli anni Settanta, quando lui solo, testimone solitario, incoraggiava presenze come la nostra ad una testimonianza cristiana, ad una ripresa d’identità; ci dava le ragioni perché quello che vivevamo tutti i giorni, in università, continuasse con vigore. Contrastava un marxismo cattolico che imperversava anche nelle università che cattoliche avrebbero dovuto essere per definizione. Da lui è venuta la testimonianza e l’insegnamento che non un’idea, ma solo una presenza cristiana vissuta nella quotidianità, poteva essere un’alternativa al potere. E, infatti, negli ultimi anni, il rapporto con noi è cresciuto a tal punto che Del Noce ha guidato insieme con noi - se così si può dire - il Consiglio del Movimento Popolare. Traeva indicazioni dai nostri balbettii, costruiva davanti ai nostri occhi l’immagine di una situazione, sapeva leggere nelle nostre posizioni molto di più di quello che noi stessi sapevamo leggere e diventava quindi il punto di riferimento insostituibile, la guida che ha precorso e permesso tutti i passi della nostra presenza in questi anni. E per questo che lascio con piacere la parola a Massimo Borghesi che è stato suo allievo. Aspettiamo dalla sua testimonianza, anche di scienziato, di capire le ragioni per cui il professor Del Noce rimane, per tutto il mondo cattolico, un punto di riferimento insostituibile - anche se non ancora scoperto in tutte le sue valenze - per la lettura della società italiana. Penso che sia poi altrettanto importante ascoltare da Pier Luca Azzaro, uno studente di Tor Vergata, la testimonianza umana del valore di quest’uomo, della sua presenza nella vita dell’università.
M. Borghesi:
Desideriamo ricordare la figura e l’opera d’Augusto Del Noce ripercorrendo il suo pensiero intorno al problema politico del cattolici. E’ questo un aspetto non secondario della sua riflessione costituendone, secondo noi, come un filo rosso che consente di situare, nella sua giusta prospettiva, la stessa produzione filosofica di Del Noce. Sua preoccupazione costante fu, infatti, quella di chiarire le condizioni ideali per una presenza dei cattolici nella società, tale da non essere subordinata, sul piano ideologico e pratico, a posizioni diverse ed opposte; tale cioè da non essere dissolta nell’impatto con la storia "contemporanea" in particolare. Allo scopo egli ha dato prova di un pensiero che, per ampiezza e profondità d’analisi, per le prospettive che dischiude, non ha eguali nel contesto culturale dell’Italia contemporanea. Ciò non di meno, è un fatto che proprio a motivo di tale pensiero Del Noce si è trovato a sperimentare una condizione di profonda solitudine, condizione in cui è avvenuto l’incontro con Comunione e Liberazione. Fino a quell’incontro la caratterizzazione di Del Noce come di un "pensatore solitario" non ha alcuna valenza retorica. Quanto può desumersi da una lunga intervista apparsa su Trenta giorni (aprile 1984), in cui egli, ripercorrendo le principali tappe della sua esistenza, proprio quest’immagine di sé tendeva ad accreditare." Solitario" innanzi tutto per la sua formazione culturale, filosofica in particolare. In un tempo -gli anni Trenta in cui in Italia l’egemonia dell’idealismo gentiliano è pressoché totale egli sceglie i suoi interlocutori e maestri nell’ambito del pensiero cattolico francese, divenendo, idealmente, un "allievo privato della Sorbona". Già in questo si profila una sua traiettoria diversa rispetto a quella di tanta parte dell’intellighenzia italiana. La sua distanza dall’attualismo idealistico si traduce poi (e ciò costituisce un secondo fattore di solitudine) nel rifiuto di quel regime di cui l’idealismo era componente ideologica essenziale: il fascismo. Negli anni Trenta Del Noce approda (caso raro tra i cattolici di allora che erano per lo più a-fascisti, ma non propriamente anti-fascisti) ad una chiara opposizione ideale al fascismo. In quanto cattolico, nella Torino del tempo dove l’antifascismo trova il suo referente pressoché univoco nelle idee di Gobetti e nel movimento di "Giustizia e libertà", viene a trovarsi in una singolare posizione. E’ tra i primi lettori italiani, nel 1936, d’Umanesimo integrale di Jacques Maritain, che legge direttamente in francese e che lo interesserà assai più del "primo" Maritain allora circolante in Italia. Approda, a partire dai primi anni Quaranta, ad un cristianesimo di sinistra in un dialogo, serrato, con Felice Balbo e Franco Rodano. Quando una linea di tendenza sembra ormai chiara si ha però una rottura che rimette tutto in discussione. Rottura non solo con le posizioni cattolico-comuniste, ma con lo stesso antifascismo nell'interpretazione ideologica e pratica che veniva dandone la Resistenza. Per essa si perdeva quel significato più autentico "dell’antifascismo" come "non violenza" che stava così a cuore a Del Noce. "Fu come il tradimento di un innamoramento", affermerà in un’intervista rilasciata a Trenta giorni. Quanto egli pensasse allora si documenta chiaramente in un suo articolo del ‘45 in cui si affermava: "Il postfascismo deve essere non un fascismo in senso contrario (antifascismo), ma il contrario del fascismo (dunque libertà e non violenza)" (Il Popolo d’Italia, 30 novembre 1945).Un’indicazione di metodo questa che in lui permarrà costante: non è sufficiente che una posizione sia "anti", in opposizione ad un’altra, per esserne libera. Tutto ciò che si definisce in base all’avversario, che è "reazione" ad esso, ne è anche dipendente. E’ chiaro come una siffatta prospettiva nell’Italia del post ‘45, non poteva né essere compresa né tantomeno accettata. Si chiarisce in tal modo la "peculiarità" della posizione di Del Noce, il suo "paradosso" Egli rompe idealmente con l’antifascismo (senza per questo attenuarsi minimamente il suo no al fascismo) durante la Resistenza, durante il periodo cioè in cui tanti ex fascisti divengono, nella crisi e nel crollo del regime, antifascisti. Come a dire che egli si trova, almeno apparentemente, sempre nel campo sbagliato, nel campo che non gli consente di raccogliere i frutti della sua posizione precedente; quando essa va al potere egli si trova dall’altra parte e quindi necessariamente isolato. La percezione riflessa di questo fatto, portata da una testimonianza ferma e dignitosa, lo rende dolorosamente consapevole di costituire un’eccezione. Scriverà in un appunto del suo diario: "Ho cercato in tutta la mia vita (74 anni e ormai venti giorni) di rifiutare ogni complicità con il male, pur evitando, per ragioni religiose e per nessuna d’ogni altra natura, la via del suicidio. Perciò negli anni venti sono stato l’antifascista assolutamente risoluto, e perciò condannato all’autodistruzione, che non aveva aderito a nessuno dei movimenti che allora esistevano (GI, comunisti, gruppo di Ginzburg o anche quello di Capitini); e l’autodistruzione aumentò quando mi separai dall’antifascismo. Il rifiuto della complicità con il male coincise per me con la "fuga senza fine" davanti a quel che mi appariva il male, la progressiva distruzione di quanto restava del Sacrum Imperium. La fedeltà all’impegno dell’agosto 1916, prima che per me iniziasse la scuola." Nel dopoguerra la percezione di questa condizione di solitudine doveva confermarsi a partire dalla sua critica a quelle posizioni che si erano erette a garanti ed interpreti autentiche dell’antifascismo: quella laicista propria del Partito d’Azione e quella gramsciana propria del PCI. Di fronte ad esse, secondo Del Noce, la debolezza culturale della posizione cattolica era evidente. Gli anni che vanno dal ‘45 al ‘55 rappresentano in Italia, cosi come in parte dell’Europa, un’occasione propizia per la Chiesa. La crisi profonda rappresentata dalla guerra e dal crollo dei regimi totalitari riportava in primo piano un esigenza religiosa, segnatamente cristiana, nelle forme più diverse. A fronte di questa istanza però, che chiamava in causa una presenza cristiana matura, capace di operare all’interno del nuovo contesto politico caratterizzato dagli ordinamenti democratici, la risposta, al di là delle migliori intenzioni, si rivelava inadeguata. Mentre l’intellighenzia cattolica peccava di astrattezza, disattenta alla problematica sociale e politica e ai suoi riflessi sull’esperienza cristiana, la Dc, da parte sua, si dimostrava molto più concreta e "realista", e però anche estremamente povera a livello della propria consapevolezza ideale. Donde quel suo oscillare, che nel tempo diverrà sempre più significativo, tra un laicismo là, di fatto e un clericalismo nei suoi rapporti con l’istituzione ecclesiastica. In un articolo dedicato a Giacomo Noventa del 1970 Del Noce osserva come la Dc, "per l’assenza di revisione ideale, ha costantemente insieme attenuato il suo carattere cattolico e aumentato il suo carattere clericale. Di principi non vi si parla più, se non qualche volta in termini retorici, in ogni caso in un discorso che deve essere ristretto al minimo, mentre la politica effettuale è svolta in termini di tecniche sociologiche o di tatticismi. E se clericalismo vuol dire politicizzazione del clero coincidente con la debolezza della religione e la perdita d’autorità morale del clero stesso, mai forse il fenomeno si è presentato in forma così accentuata e religiosamente così pericolosa; (…). Ne risulta che dal punto di vista religioso, c’è oggi bisogno come non mai di un anticlericalismo di tipo dantesco" (Giacomo Noventa: dagli errori della cultura alle difficoltà in politica in L’Europa n. 4 del 7/2/1970) Del Noce rovesciava qui la prospettiva propria della prassi democristiana: non laicismo+clericalismo bensì "laicità" della politica, ovvero assunzione consapevole dei rischi della politica da parte dei laici, e, al contempo, consapevolezza di quanto in ciò entri in gioco anche la rilevanza storica della fede. Questo scambio di ruoli e di accenti non era casuale: esso chiamava in causa non solo la carenza di testimonianze cristiane vere, ma l’imporsi di una posizione culturale che avrebbe impedito a quelle testimonianze, laddove fossero esistite, di essere valorizzate. Il limite qui, secondo Del Noce, risiedeva in una particolare interpretazione della storia contemporanea che, germinata in un contesto laico, era assunta acriticamente dai cattolici. Per essa la storia europea del Novecento è la rappresentazione dello scontro tra forze progressiste e forze reazionarie, tra moderno e antimoderno, antifascismo e fascismo, ultimamente tra bene e male. In questa lettura di tipo illuministico, espressa in Italia dal Partito d’Azione e dalla cultura azionista, la Chiesa cattolica come fenomeno "antimoderno" veniva associata al fascismo nel giudizio di condanna. Il suo compromesso col fascismo nel 1929 ne documenterebbe l’affinità, la sua vocazione totalitaria e antiliberale. Accettata, sia pure con taluni distinguo, dai cattolici questa prospettiva non poteva non comportare una visione di tipo autogiustificativo, motivando un chiaro complesso d’inferiorità. Ora il diritto a far parte della "modernità" passava per essi attraverso il rifiuto di un di Chiesa, quella che procede dalla Controriforma in avanti, chiusa al dialogo col mondo moderno e quindi potenziale alleata delle forze "reazionarie". Passava altresì per la distinzione tra cattolici "integralisti" e cattolici "progressisti", antifascisti e democratici i secondi, tendenzialmente fascisti e antidemocratici i primi. Passava ancora per una giustificazione della Democrazia Cristiana non quale partito di cattolici che esprimono la loro identità all’interno di un quadro democratico, bensì quale partito che deve garantire l’assimilazione da parte dei cattolici, sempre tentati di nostalgie reazionarie, del metodo democratico, di per sé laico e, come sistema di regole, neutrale. In un quadro così delineato il nemico "interno" si sostituisce a quello esterno e tutte le energie e gli sforzi del pensiero e della prassi cattolici vengono a concentrarsi nella lotta contro la tentazione antimoderna che, di continuo, riemergerebbe in seno al cattolicesimo. Il limite di un’interpretazione siffatta, secondo Del Noce, risiede nel fatto che essa accoglie, acriticamente, una lettura neoilluministica della storia contemporanea dimenticando la lezione del pensiero cattolico tradizionale, pienamente accolta nelle grandi encicliche pontificie del Novecento per la quale il male radicale del nostro tempo non risiede in un fenomeno circoscritto, il fascismo, bensì nel processo di secolarizzazione, in quel processo, cioè, di distruzione del Dio cristiano nel cuore dell’uomo europeo di cui il fascismo, al pari del nazismo e del comunismo, è "una" delle possibili espressioni. Nella formazione del pensiero di Mussolini, faceva notare Del Noce, è dato ritrovare più di un filone del pensiero laico, ma non uno proveniente da quello cattolico. In questo senso il fascismo fu un errore della cultura e non contro la cultura (come voleva Benedetto Croce), di quella cultura "moderna", laica ed immanentista che caratterizza l’Italia post-unitaria. I saggi, acuti e profondi che Del Noce dedicò a colui che fu il massimo pensatore italiano tra le due guerre e, insieme massimo interprete del fascismo: Giovanni Gentile (Appunti sul primo Gentile e la genesi dell’attualismo; Gentile e la poligonia giobertiana, come categoria filosofica in Giovanni Gentile), documentano una chiara continuità, un filo rosso che lega "l'ideologia italiana" nelle sue fasi pre-fascista, fascista, post-fascista. Era quell’ideologia allora, contrassegnata da un deciso no al cattolicesimo, che era chiamata a giustificarsi e non il pensiero cattolico, di per sé estraneo alla genesi e alla formazione del fascismo. Un’incomprensione di questo punto nodale, da parte dei cattolici, consentiva non solo alla cultura laica d’autoassolversi, ma produceva nei primi, proprio nel momento in cui accedevano al potere politico, una decisa subordinazione culturale. Se questa è la prospettiva va detto che il giudizio di Del Noce sulla Dc si articola diversamente nel tempo, e questo non solo in relazione alla politica democristiana e ai suoi leader ma anche e, soprattutto, in rapporto alla sua adeguatezza o meno rispetto ai mutamenti indotti dal processo di secolarizzazione. Nel dopoguerra, sino a tutti gli anni Cinquanta, il Del Noce "politico" si colloca su posizioni degasperiane. Si può affermare che egli presuma di porsi come l’interprete ideale di De Gasperi, il teorico delle motivazioni ideologiche che stanno dietro il pragmatismo degasperiano. Del grande leader Del Noce condivide l'incontro tra il cattolicesimo politico e la parte migliore della tradizione liberale, la chiara opposizione al comunismo. Questo giudizio integralmente positivo su De Gasperi e la sua politica si mantiene inalterato sino al 1963, anno in cui è ribadito nella lunga relazione che egli tiene al III Convegno di Studi della Dc (San Pellegrino Terme), dal titolo: Il problema ideologico nella politica dei cattolici italiani. Nel dicembre 1963 tuttavia, in una postilla ad un articolo già pubblicato su Il Mulino, "Un’intuizione di De Gasperi", (luglio 1957), scriveva: "Non voglio con ciò passare ad una mitizzazione della posizione di De Gasperi, che ripeterebbe puntualmente la mitizzazione di Giolitti operata da Croce Anch'egli era un utopista del passato credendo proprio in ciò di essere un realista". Pensava ad una diretta continuità con la realtà storica prefascista, ottenuta attraverso l’eliminazione da essa di quel contrasto tra "guelfi" e "ghibellini" (quale arcaicità di termini!), che avrebbero reso possibile il fascismo (ma le origini del fascismo sono del tutto diverse anche se seppe inserirsi in quel contrasto, e valersene per i suoi fini).Vagheggiava, insomma, un ritorno a "quell’età dei distinti", di cui mi sembra di aver provato, nella mia comunicazione di San Pellegrino, l’impossibilità. Bisogna quindi distinguere nel degasperismo due facce e l’enucleazione del suo momento positivo non può non accompagnarsi alla rescissione d’altri aspetti"(in: Il problema ideologico nella politica dei cattolici italiani, Bottega d'Erasmo, Torino 1964, Bozze di stampa).
"L’età dei distinti", cui Del Noce fa qui riferimento è il periodo descritto da Croce nella sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915 nel quale ferrea era la distinzione tra politica, filosofia, religione. In un’epoca, quell’attuale, in cui le varie politiche esprimono altrettante "visioni del mondo" questa differenziazione però non può essere mantenuta nei termini codificati dalla tradizione liberale. Come affermerà a San Pellegrino: "Nella storia contemporanea la politica non è un distinto oltre il quale ci sia un'arte fondamentale apolitica, e poi una morale, una religione, eccetera; e il rapporto tra politica e religione si esaurisca in quello dei rapporti giuridici tra Stato e Chiesa". Una "distinzione" siffatta tiene, sul piano formale, sino a quando in una nazione sussiste un patrimonio etico comune, un’identità di valori in cui laici e cattolici possono convenire. Questo è quanto è accaduto in Italia sotto De Gasperi, nel periodo della ricostruzione. Un periodo animato da grandi tensioni ideali in cui i valori cristiani, largamente riconosciuti da tutti (tanto che Croce poteva scrivere il suo "Perché non possiamo non dirci cristiani") costituiscono un chiaro terreno d’intesa al di là d’appartenenze e opzioni ideologiche. Ebbene quel periodo, quando Del Noce esprime il suo giudizio su De Gasperi nel 1963, volgeva ormai alla fine. Il processo di secolarizzazione, non previsto dalla Dc né dall’intellighenzia cattolica, veniva lacerando quel tessuto comune che rendeva possibile anche una politica. Scriverà: "Se si potesse pensare, oggi, all’esistenza di una morale comune in cui convenissero credenti e non credenti, e la divergenza nei partiti, nell’orizzonte di questa morale comune, fosse limitata alla proposta dei mezzi più atti all’elevazione delle masse popolari, la Dc sarebbe un partito pienamente adeguato. Del resto la convergenza in una stessa morale di cattolici, di liberali, di socialdemocratici, di repubblicani, non era l’idea base del centrismo degasperiano? Ma se in De Gasperi ammiriamo l’unità tra la capacità dello statista, la fede religiosa e l’alta moralità, non ci sentiremmo di affermare fosse particolarmente sensibile a ciò che si muoveva nel sottosuolo delle coscienze europee e che poi esplose. Il margine di morale comune si è ormai estremamente ristretto: piuttosto che di morale si dovrebbe parlare di sociologia. Abbreviando, si dovrebbe parlare per la società presente di un’assolutizzazione del momento economico, in cui tendono a scomparire le nozioni del bene e del male per essere sostituite da quelle del successo e dello scacco. Si sta formando la società più sconsacrata che la storia abbia mai conosciuto" ("L’ora di una nuova laicità", Il Sabato 25/10/1986).Ora di questo processo il partito dei cattolici, a motivo del limite culturale sopra indicato, veniva ad essere, in una certa misura, corresponsabile. L’interpretazione della storia contemporanea univocamente letta a partire dal conflitto democrazia-totalitarismo, fascismo-antifascismo, conduceva, infatti, a sottovalutare e a ritenere marginale la dimensione religiosa del conflitto. Per Del Noce, viceversa, come affermava a San Pellegrino: "I termini sul piano mondiale della contesa politica attuale non sono semplicemente quelli di concezione autoritaria e di concezione democratica, ma quelli di teismo e d’ateismo politico, essendo questo un termine che con maggior rigore definisce quello che comunemente si dice comunismo". La dimostrazione di questa tesi era affidata ai saggi, densi quanto penetranti, raccolti ne Il problema dell’ateismo (Il Mulino, Bologna 1964, II edizione 1990), in cui da un lato è riconosciuta la "potenza filosofica" del marxismo, la connessione organica che si stabilisce in Marx tra ateismo e rivoluzione; dall’altro l’esito conseguentemente totalitario di quest’ateismo politico che rappresenta, insieme, il successo storico del marxismo, nell’Est europeo, e il suo fallimento, quale sconfessione della sua promessa di liberazione. Ora il mancato riconoscimento, da parte della Dc, dell’essenza propria del comunismo si rifletteva nel modo errato mediante cui esso era avversato. L’illusione era che alla sua estinzione fosse sufficiente il semplice diffondersi del benessere. Non ci si avvedeva in tal modo, secondo Del Noce, come l’affermarsi della "società opulenta" eliminava sì la miseria ma, al contempo, veniva dando luogo ad un’estraneità e solitudine tra gli uomini non esistente in precedenza. "Per questa coincidenza tra abolizione della miseria ed estensione dell’alienazione, la società opulenta si trova minata dall’interno, da una letteratura dell’alienazione che la mostra appunto come invivibile e tale da dover essere trasformata e che quindi svolge, di fatto, una funzione pro-comunista" (San Pellegrino 1963).Non solo quindi il mezzo (la società opulenta) non era adeguato al fine (l’estinzione del comunismo), ma essa, come società borghese allo stato puro, realizzava anche la completa dissoluzione di quei presupposti religiosi su cui la stessa cultura Dc si fondava. Infatti "la società opulenta combatte il comunismo nel suo aspetto di religione anziché in quello d’ateismo anche se, in ragione del comune avversario, si avvale del concorso di forze religiose o concede anche il governo di Stati ai rappresentanti politici di queste forze" (San Pellegrino 1963). Il limite culturale dei cattolici era qui pagato con una strumentalità del cattolicesimo politico ad una costruzione sociale che rendeva del tutto estranea ed obsoleta la realtà cristiana. Questo processo di "estraniazione" non era frutto di un processo cruento di una lotta aperta contro il cristianesimo, bensì di una critica indiretta, sottile, operante sui presupposti antropologici della fede. In due articoli del 1973, comparsi su Il Giornale d’Italia (31/8 - 1/9- 5/9 - 6/9) e dedicati a La pace religiosa, Del Noce interpretava la situazione con grand’acutezza. "L’Occidente –scriveva- dal Sessanta in poi, conosce il massimo della persecuzione incruenta della religione al punto che conviene alla realtà di oggi il termine di guerra religiosa fredda". Di fronte a questo fatto è straordinario osservare come anche uomini d’indubbia cultura asseriscano che non c'è persecuzione perché manca la coercizione fisica e, in apparenza, anche quella morale. E’ da rispondere che la persecuzione contro la religione non può essere realmente efficace se non lascia al soggetto l’impressione d'aver scelto liberamente. E’ quel che aveva già perfettamente inteso l’imperatore Giuliano l’Apostata. La vera persecuzione contro la religione deve perciò appoggiarsi sulla "persuasione"; s’intende, su una persuasione disgiunta dall’evidenza Una persuasione disgiunta cioè dall’idea di verità, in modo tale che la stessa distinzione tra "persuasione" e "violenza" diventa impossibile. Viene così illuminato "il carattere veramente nuovo della situazione presente", tale per cui "la persecuzione psicologica della religione si è fatta inscindibile dalla persecuzione della ragione". In un articolo, posteriore di un decennio, Del Noce citava, a conferma dell'estinzione indolore del cristianesimo nel mondo contemporaneo, una frase di Gramsci: "Tutti hanno la vaga intuizione che facendo del cattolicesimo una norma di vita sbagliano, tanto è vero che nessuno si attiene al cattolicesimo come norma di vita, pur dichiarandosi cattolico. Un cattolico integrale, che in pratica applicasse in ogni atto della vita le norme cattoliche sembrerebbe un mostro, ciò che è, a pensarci, la critica più rigorosa del cattolicesimo e la più perentoria". Le parole di Gramsci, secondo Del Noce, apparivano "verificate dalla forma del processo di scristianizzazione degli ultimi decenni, processo che è avvenuto, senza odio anticristiano. Il cristianesimo è sembrato condannato non dalla scienza, ma dalla storia. Si conviene che è stato vero (nel senso storicistico della verità) in passati periodi della storia; oggi non lo è più. La storia, nel cui processo di funzione ha avuto una funzione essenziale, lo ha oltrepassato. La vita dei cattolici, anche di coloro che più sinceramente sono persuasi di esserlo, è in partita doppia; è confinata nella sfera di un privato, i cui termini sempre più si restringono; i cattolici non sono tali perché non possono esserlo, in quanto soggetti attivi della storia" ("I nuovi e i vecchi zar al capolinea dell'ateismo", Il Sabato 18/6/1983). Quest’impossibilità di agire, d’essere presenti come cattolici dentro la storia dipende "dall’attitudine che direi separatistica che si esplica in varie forme e che non dipende da assenza di fervore religioso, ma da un’interpretazione della storia. Separatismo che s’intende spesso superare, ma non ci si riesce" Le interpretazioni della storia circolanti in seno al cattolicesimo odierno potevano, secondo Del Noce, ricondursi sostanzialmente a tre. La prima, minoritaria, "dell’utopia archeologica", procedente da un’idealizzazione romantica del Medioevo, la quale però, data la sua inattuabilità concreta, è costretta a vivere in una sorta di nascondimento. La seconda, esatto rovesciamento di quella tradizionalista, è data "dall'utopia del futuro" propria della posizione progressista che accetta come del tutto positivo il processo della secolarizzazione moderna. La terza infine la più diffusa, che in nome del pragmatismo e della "deideologizzazione della politica" si muove in un separatismo di fatto, a partire da un silenzio sul fine ultimo, in nome di pretesi "valori comuni". In tutte e tre queste posizioni si consuma, ora a partire da una tendenza antimoderna, ora modernista, ora di compromesso, una profonda separazione tra fede e ragione, fede e storia, natura e grazia, tipica, questa sì, di tanta parte del cristianesimo moderno. Del Noce, che concepiva il rapporto tra cristianesimo e modernità non in termini d’antitesi ma di sfida, aveva indagato in un testo fondamentale, Riforma cattolica e filosofia moderna, vol. I Cartesio (11 Mulino, Bologna 1965), l’emergere del separatismo nel primo grande filosofo moderno: Cartesio. "La definizione esatta del separatismo cartesiano -scriveva- è il problema centrale del pensiero cattolico contemporaneo" (pag. 427). Questa definizione vede il pensiero cartesiano come agostinismo sommato a pelagianesimo, vale a dire come l’unione (a prima vista paradossale data l’opposizione di sant’Agostino e Pelagio) di un agostinismo dell’interiorità, privato della grazia, con un naturalismo di fatto, in cui è più traccia di peccato.
P. Azzaro:
Conobbi personalmente il professor Del Noce da studente liceale. Allora, in piena celebrazione del bicentenario della Rivoluzione Francese, mi colpì un articolo dove Del Noce, citando Simone Veil, parlava della contraddizione della Rivoluzione Francese come contraddizione dell’uomo moderno. Solo in seguito capii cosa intendeva. Dato che ci legava un’amicizia familiare intensa, cominciai a frequentarlo sempre più spesso. Man mano che questi incontri si susseguivano era evidente per me che desideravo incontrarmi con lui non tanto per le sue idee o per quello che diceva (che tra l’altro, mi risultava quasi del tutto incomprensibile), ma sempre più per la sua persona. La sera che seppi della sua morte, avvenuta un’ora dopo che io ero uscito da casa sua, provai un grosso dolore perché non riuscivo a dissociare la sua scomparsa dalla concreta fine di quello che avevo vissuto nei giorni trascorsi con lui. All’inizio di questa primavera, però, dopo sei mesi che frequentavo l’università, ho avuto il grande dono di accorgermi che la stessa gioia provata con Del Noce era presente in un gruppo di persone e anch’io la riprovavo stando con alcuni di loro. Ancora una volta la stessa libertà: niente e nessuno mi costringono a frequentare questo gruppo quando me n’è data l’occasione. E ribadisco che ciò che mi attira non è tanto quello di cui si parla, ma il contatto umano che è capace di togliere lo squallore e la monotonia della vita universitaria. Ricordo che il professor Del Noce non parlava mai d’idee che lo avevano colpito ma di persone e se ripenso a quello che mi diceva, non posso che costatare che tutto era frutto di una gioia che lo ha accompagnato da un preciso momento della sua vita in poi. Anch’io ora, vedendo quegli stessi volti in università, capisco molto di più le cose che Del Noce mi ha detto in un colloquio telefonico la sera prima di morire e in un’altra conversazione avvenuta nel suo salotto poche ore prima della sua scomparsa. La sera della sua morte io e mia madre eravamo in compagnia del professore e di sua moglie e parlavamo dei paesi dell’Est. Ad un certo punto Del Noce disse: "In Polonia il cattolicesimo sta crollando perché manca l’elemento di persecuzione e di resistenza. La libertà di religione è più pericolosa della persecuzione, è lo svuotamento del cristianesimo come presenza nella vita pratica". E prima di accomiatarci mi disse: "Io scrivo, scrivo, ma i miei articoli non fanno effetto". Io gli risposi: "Non devo certo dirle io che i massmedia che tentano di distruggerla sono molto potenti". Dopo una breve pausa ribatté, con una voce che raramente avevo sentito così decisa: "Ma allora bisogna organizzare la resistenza cattolica in Europa e deve partire proprio da Roma!". Nel colloquio telefonico della sera precedente, rispondendo ad alcune mie domande a proposito di articoli e titoli di giornale sulla venuta di Gorbaciov a Roma, mi disse: "L’Europa casa comune fa paura. Il comunismo si presenterebbe come centro della sinistra europea, quindi lascerebbe da parte gli aspetti staliniani rivoluzionari e s’impadronirebbe di tutti gli strumenti culturali. Si avrebbe un nuovo totalitarismo che si fonderebbe non più sui campi di sterminio, ma sul dominio completo dei mezzi di comunicazione. Questo rappresenta un addormentamento del mondo cattolico, pericolo, questo, grave ed imminente". E ancora: "Il comunismo per non arrendersi si allea con il neocapitalismo c’è chi appoggia questa linea nel mondo cattolico. I giornali hanno scritto che Gorbaciov sta conquistando Roma; questo significa che c’è già in atto un’alleanza tra Gorbaciov e le grandi potenze economiche. Da una parte Gorbaciov punta su quest’alleanza e dall’altra, sull’alleanza cattolica. Il suo ingresso a Roma mi ha dato il trauma di un’invasione militare, anche se non lo è stata". E infine grande è stata per me la commozione quando lo storico tedesco Nolte mi ha scritto una lettera dove diceva: "Ti ringrazio tanto per avermi mandato i ricordi di Del Noce con la sua immagine. Quel volto corrisponde esattamente all’impressione che soprattutto ebbi quando venni a trovarlo a Roma. Uno sguardo così ultraterreno da rendere evidente il suo concreto rapporto col Sovrumano, serenamente libero per quegli ultimi giorni di permanenza su questa terra".
G. Vittadini:
Penso che sia chiaro a tutti che il momento di questa sera non è una rievocazione di qualcosa che è accaduto e che non c’è più; è piuttosto un inizio, l’inizio di una presenza del professor Del Noce tra noi ancora più profonda e più importante per la nostra vita. Il compito con cui ci lasciamo è quello di proseguire lo studio di questo grande pensatore perché, probabilmente, nel corso degli anni si capiranno appieno la profondità e la portata profetica del suo pensiero. Per tutti noi, per coloro che non sono studiosi, l’eredità del professore consiste nell’attuare il suo insegnamento, nel comprendere che il cristianesimo si rende vivo dandone ragione nella storia, nella quotidianità, nella scoperta della sua capacità di liberazione della realtà anche politica.
Grazie.