Stupore e mistero,
la scienza di fronte al reale
Mercoledì 25, ore 17.00
Relatori:
Duccio Macchetto,
Astrofisico, Direttore Hubble Space Telescope
Marco Bersanelli,
Astrofisico, Ricercatore CNR
Marco Pierotti,
Direttore della Ricerca dell’Istituto dei Tumori di Milano
Moderatore:
Mario Gargantini
Gargantini: Nell’opinione più diffusa, la scienza rappresenta la massima sfida dell’uomo all’ignoto, ai segreti nascosti nelle pieghe della natura, nei fenomeni fisici, chimici e biologici, una sfida che viene considerata vinta in partenza, almeno da quando – più o meno con Galileo – è stato inaugurato un metodo, il cosiddetto metodo scientifico, ritenuto in grado di svelare l’ignoto, e quindi di allontanare la paura. In effetti, i successi conseguiti in questi secoli sono stati notevoli, tanto da far pensare a molti che la scienza sia l’unico modo adeguato di conoscere la realtà, e che agli altri approcci – quello filosofico, artistico, religioso – resti solo lo spazio residuo di ciò che la scienza non riesce ancora ad afferrare, ed è uno spazio che tende a ridursi sempre più.
Questa è la visione prevalente, sostenuta da chi parla della scienza, ed è una visione che, di fronte alle crisi più acute delle scienze – molte di queste collegate anche alle paure di fine millennio – va in corto circuito. A noi sembra più interessante – ed è anche, forse, la strada per uscire dal corto circuito – incontrare l’esperienza di chi fa scienza: ci interessa capire quale rapporto con il reale si manifesta nell’esperienza della ricerca, che cosa muove il singolo ricercatore, e che cosa mantiene viva e aperta la sua curiosità.
Vorrei provocare i partecipanti a questo incontro – scienziati ai massimi livelli – suggerendo delle parole, e chiedendo loro di paragonarle con la loro esperienza quotidiana di ricerca. La prima parola è la parola "dato": lo scienziato incontra la realtà attraverso i dati, che egli osserva, che misura, che elabora. Cosa significa per lo scienziato doversi confrontare continuamente con i dati della realtà?
Macchetto: Voglio premettere che l’astronomia è una scienza diversa da quasi tutte le altre scienze, nel senso che noi astronomi possiamo misurare e osservare, ma non possiamo interferire con le cose che osserviamo, contrariamente a quello che possono fare i fisici, i biologi, i chimici: non possiamo prendere due stelle, metterle in laboratorio, schiacciarle e vedere cosa succede; possiamo soltanto osservare, acquisire i dati. Tranne questa grossa differenza, tutte le scienze hanno sostanzialmente lo stesso modo di operare.
Per noi i dati sono fondamentali, come per tutte le scienze: usiamo i dati per costruire delle teorie, con queste teorie facciamo delle previsioni, queste previsioni ci permettono a loro volta di confrontare dei nuovi dati che acquisiamo, per vedere se le teorie sono giuste, e fino a che punto. Quando vediamo che le teorie sono confermate dai dati, le teorie diventano più solide: con il passare degli anni la mole di dati conferma sempre di più queste teorie, e allora diciamo che queste teorie corrispondono alla verità, con la "v" minuscola. Quando invece – ed è molto più divertente – vediamo che i nuovi dati non corrispondono alla teoria, alle nostre aspettative, dobbiamo modificare la teoria, dobbiamo fare dei passi avanti, dobbiamo cambiare quello che sapevamo. Così progredisce la scienza: non tanto confermando quello che già sappiamo, ma cambiando le cose che non sappiamo.
Costruiamo teorie sempre più complesse, a tal punto che alla fine è difficile capire – anche per noi stessi del mestiere – cosa vogliono dire queste teorie. A questo punto viene una persona, ad esempio Einstein, che fa piazza pulita di tutte queste idee confuse, magari barocche, e offre una nuova visione che interpreta gli stessi dati in una maniera più semplice, più coerente e più ovvia per tutti, perlomeno quelli del mestiere.
I dati sono fondamentali appunto per questo: perché ci permettono di confrontare la teoria con la realtà, di migliorare le nostre teorie e di compiere dei progressi.
Il telescopio Hubble ci ha permesso di osservare dei dati molto particolari: le galassie. Le galassie dell’Universo, in genere, vengono divise in tre categorie fondamentali: galassie ellittiche che hanno forma di pallone – una sorta di pallone da rugby –, galassie a spirale a forma di spirale appunto, e infine galassie irregolari, tutti gli altri tipi di galassie. Ciascuna di queste galassie è un addensamento di circa 100 miliardi di stelle simili alla stella del nostro Sole.
Mediante altre osservazioni, possiamo dedurre un certo numero di proprietà di queste galassie: prima di tutto che le galassie sono più accentrate al centro – questo è ovvio, perché secondo la teoria della gravità le galassie tendono a cadere verso il centro di massa comune –, in secondo luogo possiamo misurare la quantità di luce emessa da queste galassie e, attraverso un’ipotesi di quanta massa corrisponde alla quantità di luce che c’è in ciascuna galassia, possiamo "pesare" le galassie. È impossibile mettere la galassia su una bilancia e sapere quanto pesa: dobbiamo dedurne il peso in un modo indiretto. Vi sono due modi principali di pesare il peso di una galassia: il primo è contando il numero di galassie e la quantità di luce che esse hanno; il secondo è tramite la teoria della relatività, che serve per vedere quanta massa è presente. Il risultato di questa seconda misurazione è che nella galassie è presente una quantità di massa, che non si vede, dieci volte superiore a quella che riusciamo vedere. Questo è importantissimo, perché secondo la teoria globale dell’universo, l’universo si sta espandendo, l’universo è quasi al limite tra l’espandersi continuamente o il ricadere su se stesso. In questo caso, dunque, i dati non si riferiscono soltanto a ciò che è direttamente osservabile, ma è anche a ciò che non possiamo vedere direttamente ma che possiamo dedurre dalle nostre osservazioni.
Un altro fattore importante che emerge dall’osservazione delle galassie è la dimostrazione della teoria della relatività di Einstein. Einstein infatti aveva suggerito, all’inizio del secolo, l’esistenza della "lente gravitazionale": si tratta di un effetto basato sul fatto che, se c’è un oggetto luminoso e una massa (una massa molto grande) davanti all’oggetto, la luce devia quando passa vicino alla massa; se c’è un osservatore dall’altra parte e la luce viene deviata dalla massa, c’è un allineamento perfetto tra l’osservatore, la massa centrale e l’oggetto. Questo allineamento è un cerchio, un anello.
Gargantini: Il termine "osservare" racchiude per voi un’esperienza molto particolare, al punto che costruite strumenti, come il telescopio Hubble, che vi permettono di osservare non nel modo in cui normalmente noi pensiamo lo scienziato, calato sull’oggetto sensibile. Cosa significa dunque osservare, che valore ha per voi?
Macchetto: È un’esperienza molto più ricca ed anche molto più lunga: per dedurre tutto quello che vi ho raccontato in qualche minuto, per dedurre dalle osservazioni i numeri esatti, è necessario circa un anno di lavoro.
Bersanelli: Il dato da cui la ricerca di cui mi occupo parte è l’universo così come doveva essere prima che le galassie si formassero, l’universo in una fase talmente iniziale della sua storia che la sua temperatura era ovunque così alta da non permettere alla materia di essere organizzata. Grazie agli strumenti attuali, è possibile osservare l’universo in questa fase iniziale, e osservare la genesi della ricchezza dell’universo risalendo agli albori della sua storia.
È veramente impressionante che si possa andare a scandagliare le profondità dell’universo e vedere le galassie più distanti, e da una sola immagine, da un solo dato ricavare così tante informazioni su come è fatto il mondo, spingendosi addirittura fino ad un’epoca in cui queste galassie ancora dovevano formarsi. È veramente avventuroso il tipo di rapporto che, nella conoscenza scientifica, si instaura con la realtà, è sorprendente che la realtà si lasci conoscere in questo modo.
Ogni volta che si giunge a conoscere qualcosa con confidenza, per cui si può dire "le cose stanno così", questo coincide con l’epicentro di nuove domande. Così ad esempio il progetto a cui stiamo lavorando, che si chiama Planck, andrà a tentare di fare il passo successivo, di rispondere alle nuove domande che sono sorte dai nostri risultati.
Il dato reale ci porta ad una situazione paradossale: da una parte è qualcosa che si lascia conoscere da noi, dall’altro è come se continuamente ci rimandasse oltre se stesso. Dice il famoso biologo Beveridge: "Nessuna scoperta scientifica è tanto insignificante da non gettare un po’ di luce oltre se stessa". Questa frase descrive bene la dinamica di quello che accade, sia al livello personale di ciascuno noi che è impegnato, sia guardando i passi della storia scientifica. È l’esistenza stessa della realtà un dato, il dato più sorprendente: il fatto che la realtà stessa è data la rende così interessante, genera un’attrattiva, un desiderio di entrare in rapporto con essa e con il suo significato, prima ancora di conoscerne i dettagli; questo, poi, si traduce in un’osservazione appassionata e attenta, come è stato detto prima.
Gargantini: L’esperienza della ricerca è un esperienza di obbedienza alla realtà, di rispetto della realtà. Rispettare i dati per quello che sono – magari sono diversi da quello che ci aspettavamo – è un vincolo, un limite o è un’ulteriore esperienza di libertà?
Macchetto: Rispettare i dati è il punto di partenza: uno non può non rispettare i dati perché i dati sono parte di questa realtà, sono quello che serve. Per confrontare la nostra idea della verità o della realtà, servono i dati, e la nostra visione cambia nel tempo e negli anni a misura di quanto i nuovi dati ci fanno cambiare e modificare la nostra intuizione. Noi confrontiamo quello che crediamo sia la verità, con la "v" minuscola, nella nostra testa con la realtà che ci sta attorno, e costruiamo questa nostra comprensione, sempre più estesa, sempre più complessa a misura che passa il tempo.
L’errore peggiore che si può fare perciò è ignorare i dati perché se uno ignora la realtà, vuol dire che cerca di mettersi al posto di Dio, e che cerca di costruirsi un suo universo, una Terra diversa da quella che è la realtà. Dio ha fatto la realtà così com’è, e noi possiamo solo osservarla e interpretarla, non possiamo pensare di fare noi la nostra realtà che vada al di fuori di quella che è.
Bersanelli: È come se il primo approccio alla realtà dovesse essere una strana passività, non nel senso di una debolezza nei confronti della natura, ma come disponibilità ad accorgersi di quello che c’è, a seguirne il cenno, anche quando non fosse la cosa più appariscente. Un tempo si parlava di contemplazione, perché è proprio da questo tipo di sguardo che nascono le scoperte più grandi e impreviste.
Gargantini: La seconda parola che volevo sottoporvi, la parola chiave di questo Meeting, è la parola stupore. Una celebre citazione di un padre della Chiesa afferma: "Solo lo stupore conosce". È proprio vero? Per la conoscenza scientifica lo stupore è solo la molla iniziale che fa partire una ricerca (l’uomo, colpito, provocato dalla bellezza, dalla meraviglia dallo spettacolo della natura, sente il desiderio di conoscere) o è anche condizione permanente, rinnovata giorno dopo giorno, di autentica conoscenza?
Bersanelli: Lo stupore non è una specie di fiamma iniziale, dopo la quale la conoscenza prosegue per conto proprio, è invece una dimensione indispensabile perché la ricerca accada. È chiaro che lo stupore è la sorgente di energia, l’inizio continuo di un’attività che intende conoscere il reale per quello che è, ma è un inizio che riaccade nel tempo.
Spesso purtroppo lo stupore viene relegato ad un aspetto secondario o comunque estraneo al lavoro. Questo perché la mentalità comune riduce il soggetto della conoscenza: il protagonista della conoscenza è la ragione, intesa però da questa mentalità come qualche cosa di separato da tutto il resto della persona, non come la persona nel suo insieme. Anche nella esperienza scientifica, come nella esperienza quotidiana, non è possibile estrarre l’intelletto dalla dinamica dell’uomo nel suo complesso. È questo il motivo per cui un fattore affettivo come lo stupore, che fa sentire l’attrattiva della realtà, è parte integrante del soggetto che conosce. Occorre, quindi, ampliare la visione del soggetto della ricerca ed anche dello scopo della ricerca: lo scopo infatti deve servire all’uomo tutto intero, non soltanto ad un aspetto che altrimenti sarebbe discutibile e manipolabile. Infine, voglio sottolineare che lo stupore è anche nei confronti delle idee che ci vengono: ciò che, in qualche modo, capita di capire o di scoprire attraverso noi stessi è forse la cosa che ci stupisce di più.
Macchetto: Chi perde il senso di meraviglia e di stupore rispetto a quello che sta osservando, smette, in realtà, di essere un ricercatore. Penso che chi non si stupisce più ha già un’idea di che cosa dev’essere la realtà e, magari, cerca di soffocare la realtà piuttosto che stupirsi e trovare nuove idee, nuovi concetti.
Nel nostro mestiere, quando osserviamo l’universo, non smettiamo di stupirci, né di quello che vediamo, né di quello che osserviamo, né di quello che pensiamo.
Gargantini: Forse è proprio la mancanza di questo atteggiamento di stupore e di gratitudine, la radice profonda di tanti rischi che la scienza incontra e propone all’uomo. In questo incontro, stiamo dipingendo un’immagine altamente suggestiva, come credo debba essere, della scienza, un’immagine di un’avventura umana interessante e positiva, pienamente vissuta; ma non possiamo negare che incombono sulla scienza e a causa della scienza, rischi per l’umanità. Rischi anche in termini della stessa scienza, rischi di tipo conoscitivo, rischi di tipo applicativo; oggi, peraltro, questo pericolo sembra aggravarsi sempre di più.
Macchetto: Il pericolo è sempre esistito; penso che si aggravi nel senso che la scienza è sempre più a disposizione di tutti, sempre più accessibile a tutti. La scienza di per sé non è né buona né cattiva, è quella che è: noi esseri umani, in un modo o nell’altro, usiamo la nostra scienza o per il bene o per il male. Quando la usiamo per il male è un disastro perché più questa scienza è accessibile a tutti, più questa scienza è facilmente male usata, male interpretata e più facilmente si può fare del male. Il rischio non è posto dalla scienza, ma è posto dall’ignoranza di chi la usa male, a livello politico come a qualsiasi altro livello umano. Il pericolo viene dall’uso che se ne fa, non dalla scienza stessa.
Bersanelli: C’è un modo di intendere la scienza, di insegnarla e di proporla, che non è tanto un’apertura, una possibilità data alla ragione di rendersi conto della realtà, ma una specie di definizione di ciò che la realtà è. In questa prospettiva, ciò che non è in qualche modo definibile secondo le possibilità della scienza o non esiste o è insignificante. Credo che questo sia un altro pericolo che la scienza porta quando non è stupore, quando non nasce tenendo conto di come nasce, quando cresce come se esistesse soltanto ciò che è misurabile, scomponibile ed analizzabile.
Gargantini: Anche dal punto di vista delle scienze biologiche valgono le considerazioni espresse fino ad ora dai nostri due interlocutori?
Pierotti: Il problema di chi come me si occupa di biologia molecolare, e in genere di biologia, è una domanda "cosmica": la domanda sull’origine della vita. Questa domanda a sua volta ne genera altre due: una sul nostro posto nell’universo ("siamo soli nell’universo?"), l’altra sull’evoluzione. Nel tentare di rispondere a queste due domande, bisognerebbe avere il coraggio di ricordare quello che ha evidenziato più volte Einstein, ovvero che la fede non allontana dalla scienza, ma anzi avvicina ad essa. In alcuni casi apparenti incongruenze in un quadro di fede che è in realtà limitato o limitante portano a delle posizioni antiscientifiche.
Volevo infine ricordare il pericolo dell’uso non corretto della scienza: quando non c’è stupore c’è cinismo. Vi sono due grandi personaggi che hanno incarnato questo cinismo con una crudele drammaticità: il premio Nobel Monod, il quale spiega la vita con il caso e la necessità (Dio che gioca con i dadi), e il fisico Hawkings, che per spiegare il problema dei buchi neri afferma non solo che Dio gioca con i dadi, ma che non sa nemmeno dove vanno a finire.
Macchetto: Anche l’astrofisica si pone la domanda sulla vita nell’universo; per rispondere, basta fare due calcoli. Ci sono cento miliardi di galassie per cento miliardi di stelle, un numero elevatissimo; se la metà di queste stelle ha dei pianeti, significa che ci sono almeno metà, cinquanta miliardi per cento miliardi di probabilità di avere dei pianeti. Io non so assolutamente come si forma la vita, non so perché ci può essere il pianeta, l’atmosfera, e non so che cosa dà spunto alla formazione della vita. Resta il fatto che, anche se solo uno su un milione di questi pianeti ha la possibilità di avere la vita, vuol dire che c’è sempre cinquanta miliardi diviso un milione – cinquantamila per cento miliardi – di probabilità di vita: una probabilità enorme. Per cui se mi si chiede: "Tu credi che ci sia la vita nell’universo?", io rispondo: "Si, c’è la vita". Se poi mi si chiede se c’è la vita intelligente, rispondere è ancora più difficile e più complesso; ma oso dire che, secondo me, da qualche parte c’è vita intelligente. Questo è uno dei problemi e dei misteri che dovremo risolvere nei prossimi venti anni, e non solo dal punto di vista della fisica, dell’astrofisica, della biologia, ma anche dal punto di vista della fede.
Bersanelli: Noi ci rendiamo conto oggi, dal punto di vista cosmologico e astrofisico, che tanti dettagli dell’universo nel quale viviamo sono ancora poco chiari, ma ci sono anche alcuni aspetti chiari. Un punto chiaro è che l’universo, nella sua globalità, è una realtà evolutiva, una realtà che muta in continuo. È possibile con il macro-background, il fondo di radiazione cosmica, studiare addirittura l’origine delle galassie; osservando la situazione prima che le galassie si formassero, è possibile studiare attraverso le fluttuazioni di temperatura le condizioni iniziali dell’universo dalle quali si sono prodotte le galassie; per il fatto che le galassie si sono scomposte nelle varie stelle, è stata possibile nell’universo un’evoluzione chimica, evoluzione che ha arricchito la materia dei costituenti della vita.
C’è una catena ininterrotta di avvenimenti nella storia dell’universo che lega la nostra esistenza; noi non sappiamo rispondere a tutte le domande, ma c’è un fatto sorprendente, gratuito: il fatto che noi ci siamo. Questo nostro esserci è evidentemente legato attraverso una trama profonda a tutta quanta la storia dell’universo. È difficilissimo cambiare qualcosa di questo Universo senza compromettere la possibilità della vita al suo interno, e quindi la nostra esistenza. C’è una sorta di legame viscerale tra il nostro esistere e l’esistere di tutto l’universo, legame che passa attraverso una storia, una evoluzione.
Tutta la catena evolutiva è un dispiegarsi di novità nell’universo, fino all’emergere dell’io, della creatura cosciente. Studiando la cosmologia è difficile resistere a questa vertigine, ci si rende conto che l’universo è stato capace di accogliere in sé dei soggetti, dei punti che fisicamente sono insignificanti, ma la cui complessità richiede la storia cosmica intera per poter essere dei soggetti che ospitano un livello diverso di realtà che è quello della coscienza, irriducibile alla materia di cui sono fatti. Ciascuno di noi, l’io di ciascuno di noi, è uno di questi punti singolari dell’universo.
Non sappiamo se esista vita altrove, tanto meno vita cosciente. Ma questo non tocca la vertigine, cioè il fatto che esistiamo. Potrebbe essere stato per un solo essere umano, per un solo essere cosciente ma se nell’universo esiste un punto di coscienza, quello è il punto in cui tutto l’universo diventa cosciente di sé. Questo è il punto di arrivo di una storia: noi con stupore ci riconosciamo come vertice di questa grande realtà, come vertice del reale, come quel punto che si pone con consapevolezza di fronte a ciò che è domanda un significato, un senso. In questa domanda di senso, niente di ciò che esiste è lasciato fuori.
Gargantini: Einstein sosteneva che il seme della vera scienza, così come dell’arte, è il senso del mistero. Ma spesso la parola mistero – la terza provocazione da fare reagire con la vostra esperienza di scienziati –, è abbinata alla scienza in modo riduttivo, perché mistero è inteso in senso nichilista, come vuoto, come il nulla, fatto coincidere con l’ignoto. Credo invece che l’esperienza del mistero sia più positiva per uno scienziato.
Come è per voi questa esperienza del mistero? Come il vostro fare scienza contribuisce al vostro personale rapporto con il Mistero?
Macchetto: Chi fa ricerca ha come punto di partenza il mistero. Quello che cerchiamo di fare nella ricerca è di chiarire il mistero, di sapere come funzionano le cose, sapere come il DNA si moltiplica o si divide, perché le stelle hanno certe caratteristiche che osserviamo e soprattutto capire la struttura, l’architettura di tutto l’universo, in tutti i suoi dettagli. L’universo non soltanto dal punto di vista della cosmologia, della formazione ed evoluzione delle galassie e delle stelle, ma anche di tutto quello che contiene. Il mistero è il nostro punto di partenza; nel nostro lavoro cerchiamo di chiarire questo mistero, di fare qualche passo avanti per capirlo meglio e poterlo spiegare agli altri.
Ma il mistero più interessante non è questo, è il mistero che noi come esseri umani cerchiamo il perché, cerchiamo il come, ma il perché non viene dal nostro mestiere, viene dal potere interagire con gli altri in un modo diverso da quello che è il nostro mestiere quotidiano, dal nostro rapporto con la religione, con la fede, dalla ricerca di Dio.
Quello che cerchiamo in definitiva è solo questo: il perché Dio ci ha fatto così come ci ha fatti, perché ha fatto questo universo, questi dettagli che sono le stelle, le galassie, questi dettagli che siamo noi.
Bersanelli: Come l’esperienza scientifica può contribuire a questo rapporto con il mistero? Anche l’avventura scientifica parte da un desiderio, è un’espressione di un desiderio profondo; anch’essa nasce come desiderio di conoscere chi siamo, di conoscere i nostri antecedenti, di conoscere di quale stoffa è tessuta la realtà. La materia è come il vestito dell’essere, è come ciò che veste la realtà. Come è tessuta questa tela e quale è l’ambiente in cui siamo posti? Quali sono le mura della casa in cui noi abitiamo?
La curiosità umana desidera conoscere, ma è sempre una conoscenza in rapporto alla posizione in cui il soggetto umano è stato messo nella realtà. La scienza infatti è un’attività umana. Guardando le mura di una casa ci si può rendere conto della dignità di colui che la abita. È dunque come se indirettamente questo nostro renderci conto, anche attraverso la scienza, della realtà in cui siamo stati posti, ci facesse alzare lo sguardo sulla grandezza per la quale siamo stati fatti. Possiamo intuire la dignità di chi abita quella casa, cioè l’universo, e di chi indossa quel vestito, cioè la materia, proprio andando passo a passo nel rapporto di conoscenza su come le cose sono fatte. E attraverso questo, indirettamente, come segno è possibile percepire la cura di Colui che ha preparato tutto questo per noi. Il Salmo dice: "Che cos’è l’uomo perché tu te ne curi?". Anche la conoscenza scientifica in questo senso può contribuire a dare degli indizi all’uomo che è appassionato al suo destino, all’uomo che si lascia affascinare dal Mistero.
Gargantini: Il volto di una scienza pienamente umana – quale ci è stata mostrata in questo incontro – , una scienza che coinvolge, che tocca tutto il soggetto dell’uomo, tutta la persona nella sua unità, è non solo un contributo importante per gli addetti ai lavori, ma è per tutti un aiuto a vivere un approccio positivo ed affascinante con la realtà, un approccio che sia in grado di riconoscere il Mistero non come un’assenza ma come una Presenza continuamente all’opera. Il Mistero si manifesta nella inesauribilità della natura, nella continua novità che emerge nei segni che ci rimandano ad Altro, novità che alimenta il nostro stupore e che ci sostiene nel dramma dell’esistenza.