Il mistero nella croce dipinta
Martedì 24, ore 16.30
Relatore:
Marco Bona Castellotti, Ricercatore presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
Moderatore:
Giancarlo Cesana
Cesana:
Chaim Potok nel suo libro Il mio nome è Asher Lev racconta la storia di un ragazzo ebreo che ha il dono del disegno e che persegue questo dono contro il giudizio di suo padre e della realtà. Nel desiderio di diventare pittore, prima di tutto si accosta alla figura umana, cominciando a dipingere i nudi, cosa assolutamente non accettabile per gli ebrei, e finendo con il dipingere la croce, perché ritiene che nella sua tradizione non sia mai esistita una descrizione così vibrante e potente dell’angoscia e del dolore dell’uomo. Il suo quadro finale è una crocifissione della madre, che esprime tutta l’angoscia e il dolore della madre: per questo motivo viene espulso dalla comunità e gli viene consigliato di andare in Europa a studiare pittura.Bona Castellotti: Il riferimento al libro di Potok introduce alla perfezione il tema della croce dipinta.
Perché il tema della croce dipinta e del suo mistero? Se mi si chiedesse quale immagine, quale forma d’arte riflette più intensamente il senso del Mistero di Dio, non potrei che rispondere: una croce dipinta, italiana, del dodicesimo secolo. Ma un altro mistero soggiace al tema della croce dipinta, ed è un mistero di carattere culturale. Quali sono le ragioni che dettano il passaggio dell’iconografia del Cristo vivo e trionfante sulla croce a quella del Cristo morto e patiens sulla croce, in Oriente e in Occidente? Intorno alla metà del dodicesimo secolo, la croce viene infatti rappresentata con Cristo nella sua apparente mancanza di espressione di dolore e nella sua evidente espressione di mestizia e di lontananza: prima di arrivare a questo, dobbiamo fare qualche passo indietro, perché il percorso dell’iconografia di Cristo in croce è lungo e complesso.
In una rappresentazione della crocifissione che compare su un codice della biblioteca Laurenziana di Firenze, la raffigurazione del tema è già molto progredita, specialmente nella densità degli elementi che la compongono: Cristo, i due ladroni, a sinistra la Vergine e San Giovanni, in posizione centrale due uomini intenti a mansioni diverse, Stefanato e Longino (Longino è colui che successivamente raccoglierà il sangue sgorgato dal costato di Cristo), i tre soldati che giocano sotto la croce e il gruppo delle pie donne sulla destra estrema. Il codice porta la strana data del 538, data apparentemente troppo precoce e probabilmente posticcia, perché la raffigurazione è troppo completa. È probabile che sia di origine siriaca: la cultura ellenistica, cui dovrebbe appartenere secondo la cronologia, è una cultura estetizzante, laddove invece la cultura siriaca è più marcatamente realista, come tutto il cristianesimo di origine orientale, a differenza di quello di scaturigine greca. Ma è necessario fare ancora un passo indietro, perché, prima di arrivare ad una rappresentazione così ardita della crocifissione, c’è una storia alle spalle che l’aveva completamente negata. Ed è una storia che nasce e si sviluppa all’interno del cristianesimo, non all’interno delle sue eresie.
Per i primi tre secoli l’arte cristiana è completamente aniconica, si basa unicamente su simbologie, e la croce poteva rappresentare, proprio per la sua forma, un simbolo a tutti gli effetti, senza ricorrere a dettagli che potessero invece andare a fondo della storia dell’ultimo momento della vita di Cristo in terra. Penultimo, in realtà: c’è la resurrezione. Dopo questi tre secoli e con l’avvento di Costantino avviene, quasi legato alla figura dell’affermazione del cristianesimo, anche il trionfo della croce: Costantino aveva usato come vessillo della sua vittoria la croce stessa. Nel monogramma di Cristo comincia a comparire la croce con l’alfa e l’omega, e questo monogramma continua anche molto dopo l’epoca costantiniana: ve ne sono tracce fino al VI secolo.
Intorno al 340 si colloca anche la leggenda del ritrovamento della vera croce operata dalla madre di Costantino, sant’Elena. Quindi la croce comincia a tutti gli effetti il suo cammino trionfale. Ma non un cammino iconografico, perché la croce, e specialmente la crocifissione col corpo di Cristo, tarderà molto a comparire nell’iconografia: questo a motivo del fatto che la crocifissione è un supplizio pagano e l’iconografia cristiana tendeva a non rappresentarla proprio perché evocava troppo da vicino il momento del supplizio.
Successivamente la croce, come si vede nel grande mosaico absidale di sant’Apollinare in Classe a Ravenna del VI secolo, ha ancora una valenza simbolica a tutti gli effetti. Un unico elemento richiama Cristo – il medaglione al centro –, tutto il resto è ricondotto a pura geometrizzazione. Quali sono le ragioni? Possono esserci delle ragioni di questa aniconicità o comunque di questa riduzione della croce a puro simbolo? Qui cominciano a infittirsi i misteri collegati all’iconografia della croce, e bisogna sconfinare finché è possibile nel campo della storia della Chiesa, del cristianesimo e delle eresie ad esso connesse.
Una delle eresie più tremende è quella di Eutiche, il quale negava la natura umana di Cristo, lasciando in vita unicamente quella divina. In tal senso tutto ciò che potesse essere rappresentazione corporea di Dio veniva negato. Questa eresia non è la sola – basti pensare all’arianesimo – ma è quella più attinente al nostro problema; si mette ordine in questa eresia piuttosto tardi, nel 692, quando a Costantinopoli si tiene un Concilio nel quale un comma, l’undicesimo comma, esprime chiaramente quella che era la questione. È un comma che commuove moltissimo, molto breve, nel quale si dice che il pittore deve prenderci per mano e condurci alla memoria di Gesù vivente in carne ed ossa, che muore per la nostra salvezza e conquista con la passione la redenzione del mondo. È commovente che questo ruolo così importante sia affidato alla figura del pittore, riconosciuto per la sua grandezza molto più di quanto non sia ora in seno alla stessa cultura cattolica, che è quasi aniconica, per ragioni di debolezza culturale.
Finalmente quindi, con il Concilio di Costantinopoli, si poteva lasciare assoluto spazio alla figurazione anche di Cristo in croce: sotto però determinate condizioni. Quali?
A condizione che fosse rispettata la sua sopravvivenza trionfale oltre la morte: a questo punto il problema, il mistero – il mistero diverso da quello che è il rapporto con Dio – si infittisce e molti hanno cercato di capire perché Cristo è trionfante. Cristo viene rappresentato vivo a tutti gli effetti, inespressivo, non venato da alcuna traccia di dolore sul volto, con gli occhi aperti, incantati e trionfante per la sua solenne calma oltre la morte. È probabile che la spiegazione di Cristo oltre la morte si trovi nella abolizione della teoria eutichiana, che venne promulgata durante il Concilio di Calcedonia, sempre nel V secolo, nel quale si affermò che nell’unica persona di Cristo erano compresenti la natura divina e la natura umana: la compresenza di queste due nature doveva in qualche modo superare il problema del dolore di Cristo morto e anche superare, in una forma onnicomprensiva, sintetica, il concetto della passione. L’iconografia di Cristo vivo in croce, trionfante, dura in Oriente fino all’XI secolo, in Occidente fino ai primi due decenni del XII secolo.
Un altro episodio molto importante per cogliere i cambiamenti iconografici è il grande movimento iconoclasta, che si colloca fra il 730 e l’840 all’incirca, e dura più di un secolo: questo movimento aveva dato vita ad una vera e propria guerra culturale e di religione contro tutto ciò che potesse essere immagine del Redentore. Da che cosa nasceva questo movimento, appoggiato fondamentalmente dal Basileo e da tutti quanti gli ambienti intellettuali che si muovevano intorno alla corte? Dal fatto che il realismo di una certa pittura popolare era considerato peccaminoso a tutti gli effetti. Il movimento iconoclasta nacque da un giudizio morale che immediatamente si convertì in un giudizio culturale di portata inaudita; fu una rivoluzione che portò a eccidi, addirittura ad esecuzioni di massa. Alle origini del movimento ci fu una influenza islamica – l’arte islamica è aniconica, è pura decorazione –, ma fu proprio la base di elementi popolari e gli ambienti monastici dell’Oriente cristiano a cercare di recuperare e di custodire una iconografia sacra, che fosse realistica, perché gli ambienti popolari volevano una immagine davanti a sé, non un’idea. Durante il movimento iconoclasta venne distrutta, ad esempio, la grande croce, tempestata di gemme, che era stata collocata da Costantino nel palazzo di Costantinopoli. Vi fu una vera e propria guerra dell’iconoclasmo, che si concluse nell’840 con il ristabilirsi della situazione e con il trionfo del movimento che si opponeva agli iconoclasti: è molto interessante il fatto che furono proprio gli elementi popolari a voler vedere qualcosa di tangibile davanti a sé, e a non perdersi unicamente nel mondo delle idee e delle apparenze simboliche. Giovanni Damasceno dice: "Se un pagano ti si avvicina e ti chiede di mostrargli la tua fede, conducilo in Chiesa al cospetto delle sacre immagini". Questo desiderio di immagine, che è invocabile anche oggi, era tradito dall’iconoclasmo.
Mentre in Occidente la raffigurazione di Cristo vivo in croce perdura fino al XIII secolo, e quello che fa scattare la svolta di dimensioni straordinariamente ampie fu un fenomeno di portata europea, quanto invece accade in Oriente ben due secoli prima è ancora avvolto dal mistero. Per quale ragione nei primi due decenni del Mille, intorno al 1020, compare un codice, pubblicato e minato nel Monastero di Studios a Costantinopoli, in una delle quali miniature Cristo viene raffigurato in croce morto? Per quale ragione nel mosaico, stupefacente, di Dafni, Cristo ha reclinato il capo, il suo corpo si è arcuato, ha perso quella fermezza, quel tipo di ieraticità, di fissità che invece aveva fino a quel momento? Poiché dopo secoli di tradizione, il passaggio avviene rapidamente, è più probabile che questo passaggio sia localizzabile in un punto fermo della cultura: non è facile, però, identificare questo punto fermo. Fra le miriadi di ipotesi che si sono susseguite negli studi moderni, la più attendibile è di natura teologica. Proprio nel monastero di Studios, verso la fine del X secolo, un monaco, filosofo, Michetas Stetatos (?) aveva cercato di mettere ordine nel tremendo problema, tremendo anche nei suoi risvolti figurativi, artistici ed espressivi, di come giustificare che Dio potesse morire in croce, e di conseguenza di come potesse un abile pittore osare raffigurare la morte di Dio in croce, che doveva essere in qualche modo una morte corporalmente diversa da quella dei due ladroni e mantenere intatta la divinità di Cristo pur da morto. Stetatos era arrivato a questa soluzione teologica: che Cristo morì in croce, il suo corpo morì, ma lo Spirito Santo rimase in lui, quasi a sua custodia, in maniera tale che, pur morto, viveva nello Spirito. Ciò toglieva ormai tutti gli ostacoli alla rappresentazione di Cristo morto e il fedele poteva ancora continuare a confidare nella vita di Dio, pur avendo di fronte a sé l’immagine di un corpo abbandonato nella morte, di una morte quasi incorporea.
Ma perché il fedele potesse essere ancora più certo che in un corpo morto, nel corpo morto di Cristo la vita ancora proseguiva, venne raffigurato per la prima volta in assoluto il fiotto di sangue che sgorga dal costato, segno ma non simbolo, segno a tutti gli effetti del fatto che ancora una vita si custodiva in quel corpo, perché un corpo morto non può gettare sangue.
La tradizione iconografica del Cristo vivo in croce non solo dura, ma si diffonde anche in ambiente latino, in Spagna, specialmente in Italia: nei dipinti del XII secolo, Cristo ha un’aria quasi spettrale dovuta al fatto che i suoi grandi occhi spalancati, perché è vivo e trionfante, sono di porcellana, porcellana azzurra. Tutto in Cristo cerca di puntare sul tema della sospensione, pur essendo straordinariamente concreto nella sua forza di urto.
Il fatto strano e curioso è che, dopo che in Oriente Cristo muore o comunque si abbandona in qualcosa di molto simile alla morte, in Occidente invece Cristo continua a trionfare fino agli inizi del 1200. L’influenza bizantina – che è sempre molto forte – si deve adattare, entrare nel vivo di una forza di concretezza di immagine che è assolutamente occidentale, italiana in particolare.
Le rappresentazioni più spettacolari sono quelle delle croci trionfali: croci lunghe almeno due metri e cinquanta minimo – vi sono poi quelle che raggiungono i quattro metri –, in cui lo smalto dei colori, che molto spesso si è conservato, è straordinario, proprio perché erano considerate oggetti di culto da sempre e quindi intoccabili. Le croci erano collocate in un fascio di luce che potesse in qualche modo infiammare di impalpabile splendore, quindi in Chiese spesso in penombra; tutto era giocato per suscitare il senso del mistero, anche e specialmente in chi non avesse chiaro che cosa è il mistero. L’aspetto emozionale era fortissimo.
Intorno al 1200, succede qualcosa: Cristo non è più con gli occhi spalancati, non è più vivo ma è morto, viene rappresentato in un abbandono incorporeo, quasi lievitante, quasi sognante. La ragione certa di questa svolta di proporzioni colossali è l’avvento di san Francesco, del suo pensiero e della sua predicazione. Questo perché nel pensiero e nella predicazione di san Francesco l’identificazione con Cristo morto è uno dei cardini assoluti: di riflesso, lo stesso cardine entra in tutta quanta la sua spiritualità, nella pietà, anche sul piano figurativo, iconografico.
La predicazione di San Francesco fu anticipata da movimenti pauperistici oltralpini e probabilmente fu influenzata anche da una certa sensibilità di origine orientale. Jacopone da Todi, in clima francescano, canta: "Voglio me stesso renegar e la croce voglio portar". Sono versi programmatici che si incastonano in una cultura assolutamente nuova, che sconvolge per sempre anche sul piano iconografico tutta la storia dell’arte da qui a seguire: è iniziato il cammino, cui si arriverà soltanto con Giotto, di portare fino all’estremo della sua verità l’umanizzazione del sacro e quindi anche della figura di Cristo.
Verso la fine del 1200 c’è ancora qualcosa di nuovo: nelle rappresentazioni, c’è un alleggerimento delle parti, non da intendersi come una volontà di tornare al passato, nell’impalpabilità della figura, nella riduzione della morte di Cristo in nome di una impalpabilità, ma invece come una volontà faticosa di arrivare a quella umanizzazione del sacro per cui Cristo potesse essere sempre più vero e il Mistero sempre più incarnato. Per arrivare a questo ci vuole un’altra rivoluzione, simile a quella di san Francesco anche se proiettata su un altro piano, una rivoluzione nel campo dell’arte e che avviene proprio nello stesso frangente, nello stesso momento di passaggio tra due secoli. Così come san Francesco è degli ultimi decenni del 1100, verso gli ultimi decenni del secolo successivo si accampa la figura di Giotto. Cosa cambia con Giotto rispetto anche ad un grande artista come Cimabue, la punta più avanzata del cammino artistico precedente? Accade che, proprio in funzione della umanità dichiarata di Cristo, la sua morte è una morte fisica, umana fino in fondo e come tale questa morte può essere anche attraversata da un fremito di vita: Cristo è morto, ma è umano e divino, e la sua concentrazione di umano e divino è definitivamente declamata.