IL PASSATO CHE E’ PRESENTE: CONDIZIONI
PER L’INSEGNAMENTO DELLA STORIA
Fidel GONZALES
Andrea CASPANI, direttore "Linea Tempo"
Francesco AGNOLI, magistrato
giovedì 27, ore 11.00
Caspani: Un anno e mezzo fa è iniziata la pubblicazione della rivista Linea Tempo, trimestrale, che nasce dall’incontro fra insegnanti, ricercatori e accademici, perché non vogliamo fare né una rivista puramente divulgativa, come ce ne sono tante nel mondo della scuola, né una rivista puramente accademica, ma vogliamo veramente porre a tema il problema della dimensione storica, quale dimensione formativa, essenziale per la maturazione di un giovane, convinti come siamo che l’incontro con il passato offra una possibilità di ricchezza e di approfondimento dello spessore del presente che è ineguagliabile, e che è profondamente dimenticato dal nostro mondo. In questo senso dico subito che siamo stati critici verso le riforme dei programmi scolastici di storia del ministro Berlinguer.
Da qui nasce la mia prima domanda al professor Gonzales, che con questo incontro inizierà una collaborazione con la nostra rivista. C’è un disagio più profondo rispetto ai limiti delle riforme scolastiche per chi affronta la storia, ed è questo: molte volte come insegnanti ci troviamo di fronte a ragazzi che dicono che in fondo la storia è tutta soggettiva, ognuno può dire quello che vuole, oppure la storia è tutta ideologica: a seconda che uno sia di destra o di sinistra le cose appaiono in un modo o nell’altro. Invece già ieri dicevi che il compito dello storico è spalancarsi alla verità delle cose che bisogna raccontare, che bisogna studiare, è cogliere il cuore della realtà che si studia; quindi noi abbiamo notato una profonda fiducia nella possibilità di costruire una storia criticamente oggettiva. Come affrontare le oggettive, inevitabili difficoltà dell’analisi dei documenti, del superamento dei pregiudizi, che fanno parte del lavoro dello storico in quanto tale?
Gonzales: Voglio prima di tutto ricordare un pensiero di un filosofo spagnolo il quale osserva che un popolo che perda la memoria delle sue radici storiche, della sua storia passata - che vive anche nel presente perché determina il temperamento, le modalità, l’espressività di un popolo - piomba in una specie di autodistruzione ed è condannato a rivivere tutte le esperienze drammatiche del passato se vuole recuperare il presente. Un popolo senza la consapevolezza della storia che lo ha fatto e che fa il presente è come un orfano che non si sente identificato con niente. Lo studio della storia non è semplicemente per riempire una lacuna di carattere erudito; rivisitare la storia di un popolo è rendersi conto di chi sono io nel presente, dei propri comportamenti, della propria strada. Per capire le proprie radici bisogna avere degli strumenti che oggettivamente ci portino a conoscere queste radici, che non sono immaginate da me, ma sono fatti che ho davanti e devo scoprire. Io ho trovato nel mio lavoro di metodologia storica un grande aiuto nell’incontro con don Giussani, che, senza mai insegnarmi storia nel senso didattico, mi ha insegnato il modo di affrontare lo studio della storia.
Le note tre premesse del suo libro, Il Senso Religioso, sono gli atteggiamenti più oggettivi e più giusti che aiutano lo storico ad affrontare la tematica che ci occupa e cioè: il realismo (è l’oggetto che impone al soggetto il metodo della ricerca e non viceversa, e qui già è la morte dell’ideologia del preconcetto; è l’oggetto avvicinato in tutte le dimensioni, in tutti i fattori che lo compongono, che ci aiuta ad arrivare ad un criterio di valutazione dell’oggetto, del fatto nel nostro caso); la ragionevolezza (dopo che ha prevalso l’oggetto, ci suggerisce il metodo per avvicinarlo: in questa seconda premessa mette in risalto il soggetto che agisce, l’uomo), "che è la caratteristica dell’uomo, … quell’esperienza comune che anche i filosofi devono usare nei loro rapporti più quotidiani, se vogliono vivere. In questo senso la ragionevolezza coincide con l’attuarsi del valore della ragione nell’agire". Noi applichiamo la ragione totalmente all’oggetto della nostra ricercase ci chiediamo fino in fondo le ragioni per cui gli uomini si muovono in un dato determinato contesto. Questa è l’esigenza strutturale dell’uomo, perché la storia è fatta dagli uomini; infine l’incidenza della moralità sulla dinamica del conoscere. Se la prima premessa insiste sulla necessità del realismo, l’oggetto che impone un metodo al soggetto, secondo la natura del fatto stesso, se la seconda premessa insiste sulla preoccupazione e l’amore ad una razionalità, e questo intende mettere in luce il soggetto dell’operazione, la modalità delle movenze (perché Carlo V si è comportato così in quel contesto, perché ha reagito in questa maniera, perché ha preso questo tipo di decisione, quale era il suo temperamento, la sua educazione, le preoccupazioni del suo cuore, la passione che dominava la sua vita), l’ultima premessa, quella dell’incidenza della moralità nel conoscere (che affidamento ci danno i diversi documenti, le diverse persone, i diversi interventi? Mi posso fidare di una lettera di Carlo V a un suo segretario, dice la verità, esprime totalmente il suo sentimento? non ci troviamo di fronte a un teorema matematico, ma a un mondo assai complesso) è un criterio che lo storico deve avere sempre presente. Se queste tre componenti vanno insieme, esse ci libereranno da ogni soggettivismo, da ogni ideologia, e ci apriranno almeno come desiderio a voler capire il fatto storico del passato nella sua complessità e nella sua incidenza sul presente.
Uno storico non deve mai temere la verità. Nel secolo scorso, diversi personaggi accusavano la Chiesa di oscurantismo, di nascondere le cose, di non volere aprire gli archivi vaticani, per scrivere soprattutto la storia dei papi. Leone XIII, con un documento memorabile, che nella storia della Chiesa segna una nuova tappa nel modo di avvicinarsi alla lettura della stessa storia della Chiesa, riprende una frase di Cicerone, affermando che lo storico nell’affrontare i temi della storia, anche i più ardui, non solo deve dire fatti veri, ma deve anche mettere insieme tutti i fatti nella totalità dei fattori che li spiegano, senza nasconderne nessuno. Questo metodo, sul quale allora nell’ambito ecclesiale si è molto insistito, è il metodo che noi applichiamo.
Molti sanno che io lavoro nella commissione storica della congregazione per le cause di canonizzazione. Vorrei mostravi come lavoriamo perché questo fa capire la metodologia storica. Ho portato a caso un mio giudizio in un processo da un punto di vista storico. Per fare questo giudizio ho speso ore di lavoro, mi sono letto non meno di 10.000 pagine di documenti, con tanto di attestazione notarile della loro autenticità. Quali sono le domande che ci indicano un metodo? La prima: si è andati fino in fondo in tutti i luoghi dove ipoteticamente noi possiamo trovare anche un minimo di verità o di referenze su quell’argomento? il metodo con cui noi ci siamo avvicinati a quei documenti è adeguato per capire ciò che il documento dice?
A riguardo della ricerca scientifica, voglio sottolineare l’indicazione precisa delle fonti documentali, cioè un documento che mi viene indicato io devo essere in grado di andare a trovarlo, e leggermelo, se un documento non mi viene indicato per me non esiste, io devo potere verificare ogni cosa. Su questo caso (della donna irlandese di cui ho parlato ieri) mi sono state presentate ricerche in 122 archivi, con materiale attinente al personaggio e ai fatti di cui si parla, 34 giornali dell’epoca - questa donna vive alla fine del ‘700, i giornali non erano come oggi ma ci sono giornali che hanno parlato di lei -, 26 collezioni di opere che trattano gli stessi argomenti che l’hanno visto coinvolta; si vede una ricerca archivistica completa, archivi conventuali, diocesani, della curia romana, legali, civili, pubblici, dell’Irlanda, dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, dell’Australia. Questo è il lavoro di uno storico! I nostri libri invece sono pieni di copiature, si copiano gli uni con gli altri, si trasmettono giudizi, pregiudizi ed errori, senza mai andare alle fonti dirette.
Faccio un altro esempio. Mi trovo a capo di una commissione storica composta da una trentina di storici, antropologi, sociologi, con nomi molto noti nel loro ambito a livello anche mondiale, che sta facendo una ricerca storica importante sui primi passi della storia dell’evangelizzazione nel Messico. E’ ormai dall’86-87 che io sto lavorando su questo argomento, e non penso che sia finito. La prima cosa che abbiamo dovuto fare è stata proprio un setaccio di tutti gli archivi, dove uno ragionevolmente pensa che si potrebbero trovare tracce di documentazione che ci parlano di questi argomenti. A tavolino ho detto: secondo me le tracce bisogna trovarle in varie direzioni: quelle che ci ha lasciato il mondo precortesiano, prima dell’arrivo degli spagnoli; le tracce lasciate dal mondo degli Spagnoli, dal mondo dei conquistadores; i rapporti delle autorità civili o dei conquistador stessi dopo i mandati del Re, la corrispondenza con la Corona, che è assidua, che è mensile, i frati che possono scrivere ai loro superiori, ai loro amici, a Roma. I fiumi per ricomporre una storia ha tanti canali che li alimentano e bisogna percorrerli tutti, senza tralasciarne nessuno. Abbiamo cominciato: "vediamo a Roma che cosa troviamo". "Ma qualche cosa forse è andata a finire a Vienna: andiamo a Vienna, all’archivio di Stato". E così per altri paesi: Svizzera, Germania, senza parlare di Spagna e Messico. Una volta fatta la ricerca, occorre leggere i documenti ed è necessario capire da dove e perché sono nati, chi li ha fatti, la vita dell’autore, per capirne la storia.
Ma c’è una seconda domanda che ci fanno sempre nei processi di canonizzazione, perché un documento può dire anche una bugia, può travisare la verità, può essere stato fabbricato ad arte. Questo è un lavoro assai delicato: lo storico deve fare un discernimento documentale, attraverso una lettura parallela dei tanti altri documenti che ci conducano veramente a dire: questo è affidabile, questo è affidabile fin qui, questo non è affidabile. Bisogna evitare di piegare la realtà alla propria ideologia, ma se uno ha passione per il reale, per la verità, per la storia ecc… questo pericolo lo evita. Un’onestà, un amore alla realtà, ai fatti come sono sono prerogative di un vero storico, che è aperto alla totalità dei fattori, che a volte non riesce a percepire, che vengono a galla, e che espone perché ha amore alla verità. L’ultima domanda che ci viene posta è se questi documenti sono alla base per poter finalmente mettere un giudizio storico completo sull’argomento che stiamo trattando. Se uno storico risponde a questi tre tipi di domande e usa il metodo adeguato, allora fa storia, altrimenti fa ideologia o fa una pseudofilosofia della storia.
Caspani: C’è una sottile ideologia secondo la quale, non potendo parlare di tutto, si opera una selezione, privilegiando il presente per di più non per coglierlo nelle sue linee fondamentali, quanto per ricavarne esempi per fare un dialogo di educazione civica, per formare i valori della religione civile, del bravo cittadino del duemila. A noi sembra grave che da una parte si tende ad eliminare il senso della tradizione. Per capire il presente è necessario conoscerne le radici; la radice della storia della nostro popolo e della nostra civiltà è almeno una radice europea, quindi una radice millenaria. E non si può quindi pretendere di ridurre la presentazione del periodo della storia dell’età classica o dell’età medioevale in brevissimi medaglioni , come invece diventerà inevitabile nella misura in cui noi insegnanti spontaneamente ci adegueremo al volere del regime. La domanda è questa: ci sono punti di svolta più significativi secondo questa impostazione realistica appena annunciata?
Gonzales: Tre anni fa si è fatto un congresso europeo di storici per aiutare gli storici sovietici a riscrivere la storia di questi Paesi. In questo congresso è emersa questa questione, che è la stessa che tra vent’anni, se andrà così, dovranno fare in Italia se si applica questa riforma. "Noi non siamo più capaci neanche di leggere la nostra storia, le nostre radici, neanche di insegnare la storia perché il popolo russo non è cominciato nel 1917, aiutateci voi". La storia è sempre globale, una tradizione è una vita che perdura. La storia del Novecento bisogna leggerla nelle radici culturali che l’hanno forgiata, nei fenomeni che l’hanno preparata. La storia va a piccoli passi, ma essi non si capiscono senza collocarli in altri cicli più lunghi e nei grandi cicli. Bisogna fare delle grosse sintesi storiche, con il metodo di cui io ho parlato prima, usare testi fondamentali che fanno capire i fenomeni storici e ci aiutano anche da un punto di vista pedagogico a percepire le problematiche essenziali e a presentarle nelle nostre scuole. Quindi non fermarsi all’epidermide delle letture, ma andare in fondo alle cose e aiutare i nostri ragazzi alla lettura ragionata ed intelligente. Io ringrazio il buon Dio di avere avuto grandi maestri fin da piccolo che hanno messo dentro di me una passione per la lettura intelligente, anche nel campo della storia. E la lettura intelligente, guidata, perché un ragazzino deve essere aiutato come in tutte le cose, aiuta veramente a percepire la problematica ed educa mentalmente. Quando ero un ragazzino, ci davano un libro da leggere e ci facevano fare la sintesi per iscritto del libro. Questo mi ha educato ad avere la capacità critica e sintetica, questo è un mio consiglio come docente.
Agnoli: Vorrei presentare un progetto editoriale che mira a fornire dei mezzi e degli strumenti per stabilire la verità, per lo meno per conoscere i fatti su alcuni periodi che riteniamo fondamentali: la rivoluzione francese in Italia, il Risorgimento, ma anche periodi precedenti. Si è pensato ad una collana di testi brevi, di 80/100 pagine, che ad un prezzo estremamente modesto possano servire per conoscere le cose che riteniamo fondamentali, che nei libri di testo non si trovano o si trovano narrati in maniera non esatta, per lo meno per quanto riguarda i fatti. Pensiamo che una serie di libri di questo genere sia utile per riempire quei grandi cicli di cui parlava Gonzales.