Il mondo del lavoro: politiche per l’occupazione e futuri scenari
Domenica 22, ore 15
Relatori:
Martini Marco
Florindo D’Aimmo
Moderatore:
Gianmaria Martini
Marco Martini, Docente di Statistica Economica all’Università di Milano
Martini M.: Tutti oggi avvertono, direttamente o indirettamente, la situazione di crisi occupazionale in cui il nostro paese si trova. L’origine di questa crisi si può far risalire a tre distinte cause.
Il primo motivo, che è forse il più evidente, è che, essendoci stata in questi ultimi due anni una depresssione generale del sistema economico mondiale e quindi una depressione della domanda di beni e servizi, ciò ha comportato in tutti i sistemi, compreso quello italiano, una riduzione della domanda di lavoro e quindi una riduzione della capacità del sistema produttivo di assorbire persone, o _ se volete _ un’accelerazione del sistema produttivo nell’espellere persone. A questa situazione generale di tutto il mondo occidentale _ che trova le sue origini nella politica tedesca e americana _ si aggiungono motivi specifici, sempre di carattere congiunturale. Il nostro paese è afflitto da un debito pubblico altissimo, per contenere il quale il governo ha deciso una cura "da cavallo" che si è tradotta in una pressione fiscale molto più forte, che ha significato per tutti una riduzione della possibilità di consumare, la quale non fa altro che aggravare la crisi generale della domanda che affligge il sistema economico.
Oltre a questo, che se volete è il modello di interpretazione della disoccupazione più tradizionale _ meno domanda, meno occupazione _ vorrei sottolineare l’esistenza, sotto queste onde superficiali del sistema economico, di movimenti più profondi e se vogliamo più radicali e meno facilmente percepibili con effetti particolarmente vistosi soprattutto in certe aree del paese. Al di là di questi movimenti ciclici della domanda, noi stiamo vivendo un periodo di trasformazione tecnologica, organizzativa e di mercato che non ha precedenti, soprattutto per la velocità con cui avviene. Il cambiamento tecnologico, organizzativo e di mercato si realizzava di solito con il ricambio generazionale. Il figlio del contadino diventava operaio, il figlio dell’operaio diventava impiegato...: grossi cambiamenti, grossi movimenti, ma contenuti nel tempo.
Uno studio recente sull’innovazione tecnologica, ha mostrato come cambiamenti della stessa portata oggi impiegano non quaranta, ma cinque anni a diffondersi. Un breve calcolo ci aiuta a capire che in media, se fino a poco tempo fa un lavoratore poteva aspettarsi un grande cambiamento nella sua vita lavorativa, oggi mediamente un lavoratore dovrà aspettarsi otto cambiamenti di quel tipo nella sua vita.
Tale cambiamento profondissimo nella struttura dell’occupazione è avvenuto perché le nuove tecnologie consentono di consegnare alla macchina tutti i compiti ripetitivi, che prima invece erano affidati agli uomini. Dovunque c’è qualche cosa che può essere programmato, previsto e quindi prescritto, la macchina è in grado di realizzarlo, in tempi, e spesso con un’affidabilità, più elevati di quelli dell’uomo.
La crisi in cui siamo dipende dal fatto che la velocità con cui i cambiamenti dei contenuti lavorativi avvengono dentro al mondo delle imprese, non è pari alla velocità con cui il sistema demografico e formativo forma persone adatte a questi cambiamenti. Cosicché si verifica un’eccedenza di lavoratori con basso titolo di studio, con difficile adattabilità, i cosiddetti quarantacinquenni, persone che hanno una certa esperienza, che sono entrati in fabbrica da giovani, che non hanno un bagaglio culturale sufficiente per affrontare il cambiamento, e che sono veramente in difficoltà. Il momento di congiuntura difficile accelera l’espulsione di queste persone, che possono essere sostituite da processi automatizzati.
Florindo D’Aimmo, Sottosegretario di Stato al Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica
D’Aimmo: Come ha già sottolineato il professor Martini, l’innovazione tecnologica produce una contrazione dell’occupazione. Io ho sempre spiegato questa evoluzione storica con la figura e il ruolo dell’uomo nel creato, partendo dalla Bibbia. L’uomo è stato cacciato dal Paradiso terrestre perché doveva, dopo il peccato originale, guadagnarsi la vita col sudore della fronte, ma l’uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio, e con la sua intelligenza trova il modo di affrancarsi dal lavoro duro. Ed è quello che sta accadendo. Infatti abbiamo una forte contrazione nell’occupazione industriale, e l’uomo si riserva per funzioni più nobili che nessuna macchina può fare, soprattutto i servizi civili, la tutela dell’ambiente, cioè funzioni che naturalmente portano ad una elevazione della qualità della vita. Infatti abbiamo assistito ad uno spostamento di occupazione verso il terziario, la pubblica amministrazione e i servizi. Ma bisogna riflettere anche su un altro problema importante: noi stiamo realizzando l’unità europea, il mercato non è quello nazionale, ma è quello europeo, anzi internazionale. In questo quadro le aziende si devono confrontare sul piano della concorrenza, in un mercato molto più vasto, senza nessuna tutela e garanzia. Abbiamo quindi la necessità di un processo di riorganizzazione delle strutture produttive, e sono in crisi interi settori. Le piccole aziende sono in grossissima difficoltà, chiudono, spariscono. Quindi, abbiamo un processo di riorganizzazione delle attività produttive, ma questo processo riguarda anche il terziario e la pubblica amministrazione. Lo stato ha bisogno di riorganizzarsi, i servizi vanno razionalizzati; non è possibile più una politica di assistenza; in questa dimensione europea tutte le attività produttive si riorganizzano. Il pericolo di questa situazione è stato denunciato anche dalla Chiesa, dalla CEI, dal Papa: questo processo di riorganizzazione e di concentrazione capitalistica può realizzare interessi forti in una società in cui è sempre prevalsa la solidarietà sociale. Il governo deve assolutamente impegnarsi in una seria politica economica. Esiste una politica economica che è legata ad una vicenda internazionale, che condiziona anche i comportamenti del nostro paese, ma noi abbiamo anche bisogno di affrontare questo problema dell’emergenza con interventi specifici.
Occorre anzitutto utilizzare i fondi non spesi ma già stanziati per un piano di micro interventi e di manutenzioni: città, ambienti, cultura, infrastrutture, metropolitane... Questo consente una microccupazione, una risposta contingente, ma ugualmente importante, soprattutto nei centri urbani. Un’altra questione essenziale consiste nell’uso della cassa-integrazione, soprattutto straordinaria: questo è un aspetto importante dal punto di vista morale. Il lavoratore sospeso ha l’obbligo di lavorare in attività di utilità pubblica: questo dovrebbe consentire più produttività della spesa assistenziale e stanare alcune situazioni di comodo e il lavoro nero che spesso svolge il cassintegrato. Ancora: la riforma degli organismi del Ministero del Lavoro, che consiste nella proposta di regionalizzare il più possibile le azioni per far incontrare domanda e offerta di lavoro. La formazione è, in questo senso, indispensabile: la scuola d’obbligo potrà essere portata a 18 anni, ma non come area di parcheggio dei giovani, che invece verranno inseriti nel mondo del lavoro mentre sono a scuola, acquistando professionalità attraverso gli stages aziendali. E’ indispensabile il potenziamento dei contratti di formazione e una formazione continua per l’adeguamento rispetto all’evoluzione scientifica e quindi alle esigenze che l’innovazione tecnologica può portare.
Martini G.M.: Cerchiamo ora di analizzare più in dettaglio che cosa deve cambiare, dal punto di vista dell’imprenditorialità e del mondo del lavoro. Certamente il lavoratore non può più permettersi di cominciare una carriera lavorativa e continuare a lavorare per trent’anni facendo sempre la stessa mansione, ma deve essere in grado di riqualificarsi. Come è possibile fare questo, quali sono gli interventi formativi che possono consentire ad un lavoratore di essere sempre aggiornato professionalmente?
Martini M.: E’ evidente che l’esigenza di flessibilità si pone e si porrà sempre di più, ma è altrettanto evidente che il problema è quello di combinare l’esigenza di flessibilità, posta della velocità del cambiamento, con l’altrettanto importante esigenza di continuità che la persona ha, perché la persona deve vivere, deve mangiare, deve mantenere i propri figli. Tutti gli strumenti che noi abbiamo a disposizione, che sono stati prima inventati dalla solidarietà della società civile e poi sono stati assunti in gran parte dallo Stato, sono strumenti nati sul presupposto della stabilità del posto di lavoro. Tutto il nostro regime previdenziale _ chi ha cambiato posto di lavoro lo sa bene _ premia la continuità e invece castiga la mobilità: il Sindacato ha spesso assunto la difesa della continuità come difesa del posto di lavoro, e non poteva fare diversamente. Ma questa strategia può funzionare se i posti di lavoro permangono, se le crisi sono momentanee, se un’inefficiente gestione da parte dell’impresa può essere sostituita da una gestione più efficiente. Ma dove un posto non c’è più, dove il cambiamento è quel cambiamento radicale di cui sopra, come si fa a difendere la continuità? Il problema allora è quello di inventare, di innovare profondamente gli strumenti e qui bisogna avere molto coraggio. Per esempio, il campo dell’informazione è un supporto necessario per garantire la continuità a chi deve cambiare, perché uno che si trova coinvolto in una crisi, se non ha un aiuto vero nel trovare le possibilità alle quali potrebbe accedere, si sente veramente emarginato: un supporto adeguato per queste persone viene dato costruendo nuovi sistemi informativi, basati su un dialogo costante tra chi si prende a cuore il bisogno delle persone e le aziende. Questo dialogo non sarà mai realizzato dalla burocrazia, né dallo Stato, né dalla Regione, né dal Comune; può realizzarlo soltanto l’imprenditore, perché ha un vero motivo per prendersi a cuore un bisogno che prima non c’era. Deve scattare una imprenditorialità. In Italia ci sono molte esperienze in questa direzione, ma lo Stato non se ne è accorto e continua a foraggiare i suoi uffici di collocamento: lo Stato _ mi permetto un timido suggerimento _ deve abolire questo sistema, e deve valorizzare la capacità di innovazione, perché l’innovazione non si può programmare, l’innovazione accade.
Questo vale anche per la formazione: come può una scuola _ i cui programmi vengono decisi da un Parlamento che da 15 anni discute di nuovi programmi _ tenere conto dei bisogni dell’innovazione? Anche qui, mi permetto di suggerire una soluzione: dare totale autonomia alla scuola, garantendo il diritto, per chi deve studiare, di poterlo fare con un supporto assicurativo o finanziario da parte dello Stato, mettendo le scuole in concorrenza. Purtroppo, il nostro sistema si trastulla su innovazioni che sono approvate dopo 15 anni e sono già vecchissime: se passasse la riforma della scuola media superiore, così come è stata pensata dalla Commissione Brocca, la scuola formerebbe gente del tutto inadeguata a quello che sta succedendo nel mondo dell’impresa. Ma la difficoltà è strutturale, perché è impossibile programmare il nuovo: ci si deve velocemente adattare al nuovo, e la velocità di adattamento è proporzionale alla distribuzione dell’autonomia e della responsabilità. Anche qui, un nuovo sistema formativo, che accompagni la persona in difficoltà, sia prima sia durante l’esperienza lavorativa, deve esser affidato alla libera capacità di chi è capace di realizzare cose nuove, mentre lo Stato deve riservarsi il compito di verificare i risultati.
Martini G.M.: La realtà della Compagnia delle Opere è una realtà di piccole e medie imprese, di imprenditorialità, che nello stesso tempo ha come obiettivo la solidarietà sociale. Volevo chiedere all’on. D’Aimmo: come è possibile tutelare questo tipo di esperienza all’interno del nostro Paese per non fare dell’Italia una prateria in cui gli interessi forti possano far scomparire i frutti migliori?
D’Aimmo: Questo processo capitalistico, di concentrazione, non riguarda solamente il nostro Paese, ma riguarda tutta l’Europa e anche il mondo. La dimensione del mercato internazione ed europeo porta a realizzare concentrazioni per economie di scala, con il fine di ridurre i costi e quindi di aumentare la competitività.
Per capire la situazione, è sufficiente pensare a quanti centri commerciali piccoli, quante botteghe stanno chiudendo: oggi la stragrande maggioranza dell’offerta _ prodotti alimentari, commerciali... _ viene venduta attraverso grossi centri, che hanno dimensioni internazionali. Tutto questo richiede ingentissimi capitali, ma realizza una presenza che elimina completamente tutta la piccola attività ed i piccoli centri. E’ evidente che non possiamo assistere passivamente a questo scenario che consiste nel concentrarsi dell’offerta in poche aziende, presenti su tutto il territorio che impongono le loro condizioni ed i loro interessi, e _ come conseguenza _ nell’eliminazione di tutte le piccole attività commerciali, artigianali che non riescono a reggere il confronto.
Questo problema è particolarmente presente nelle aree svantaggiate, nei territori interni, collinari, di montagna, che rischiano di essere abbandonati, perché la gente si trasferisce: è quindi un problema di civiltà, perché se l’uomo abbandona la terra, il territorio degrada. Per questo, è necessaria un’organizzazione che punti sulle radici culturali, sulla qualità dei prodotti. Anche le grandi organizzazioni sociali devono puntare a organizzare questo tipo di produzione, soprattutto nel momento in cui si eleva la qualità della vita e aumenta il reddito per abitante. L’esigenza di queste risposte di natura culturale e sociale, come il turismo, l’agriturismo, itinerari turistico-culturali, le risorse storiche, rappresenta un valore che richiede una organizzazione specifica e quindi la necessità di valorizzare le radici storiche delle nostre comunità, delle nostre zone, dei nostri ambienti. Solo così sopravviverà anche il mercato delle piccole aziende e delle società di piccoli produttori che puntano sulla qualità. Questa politica deve impegnare non solo lo Stato centrale _ attraverso leggi, programmi, indirizzi _ ma anche le istituzioni periferiche e le organizzazioni sociali, che devono impegnarsi per elevare la qualità della cultura, del popolo. Credo che una organizzazione, che non ha obiettivi politici, ma sociali, in termini di solidarietà e di sostegno, può benissimo trovare spazio notevole per la valorizzazione di queste radici culturali delle nostre comunità, del nostro popolo e della nostra storia.
Martini M.: Un ambiente che non è favorevole alla piccola impresa, è un ambiente da eutanasia economica, perché uccide l’imprenditorialità tout court: la grande dimensione non fa nascere impresa, compera e vende azioni e spesso sbaglia. E’ soltanto nel piccolo che nasce la vera imprenditorialità. Affinché la piccola impresa possa vivere, crescere, competere, è necessario uno Stato che abbatta, per esempio, tutte le barriere agli ingressi, mentre noi oggi abbiamo uno Stato che costruisce barriere.
Lo Stato deve garantire gli utenti delle caratteristiche professionali, deve dare la patente: ma questa giusta esigenza è stata usata per costruire un reticolato di difese protezionistiche intorno alle diverse professioni. Come mai l’Italia è un paese in cui c’è un surplus di medici e nello stesso tempo è il Paese dove la visita medica costa in assoluto di più, contrariamente a tutte le ragioni di mercato? Perché c’è una difesa corporativa pesantissima. Lo Stato dovrebbe invece intervenire soltanto per garantire l’utenza che chi esercita la professione medica sia davvero un medico, ma non deve difendere chi si è installato in un posto per avere stipendio assicurato e rendita di posizione. Modigliani, premio Nobel per l’economia, recentemente ha detto: "La prima cosa da fare in Italia sarebbe di abolire il regime delle licenze".
Proprio per questa situazione, in Italia non c’è un vero mercato concorrenziale, perché non esiste la possibilità di ingresso nel mercato, quindi la piccola impresa fatica, ansima. In questo settore, dunque, l’innovazione delle regole deve essere radicale.