Intanto qualcuno costruisce: la carità. Testimonianze

Lunedì 24, ore 15

Relatori:

Felice Colombo

Angelo Bertolotti

Carmelo Di Giovanni

Vincenzo Muccioli

 

Felice Colombo, presidente della cooperativa "Solidarietà e Servizi".

Colombo: Devo parlare di una esperienza che ha preso spunto da un progetto (ABACO) di utilizzo della tecnologia informatica a favore di persone disabili. Parlare di un progetto che così apparentemente sembra fatto tutto di tecnologia, in un ambito di testimonianza di carità e soprattutto di ordinario quotidiano, sembra una cosa fuori tema, però ho la pretesa di dimostrare che non è vero, che la compagnia che viviamo ci aiuta a trasformare queste cose e in un contesto estremamente interessante.

Questo progetto si svolge all’interno dell’esperienza di una cooperativa di Busto Arsizio che si chiama "Solidarietà e servizi" e che si occupa di servizi di accoglienza a favore di persone disabili e di persone anziane non autosufficienti. Dopo un anno e mezzo di lavoro e di ricerca di alcune persone (fra cui io che di professione faccio l’informatico e da 10 anni vivo l’esperienza di questa cooperativa come responsabile), per vedere che cosa vi era di disponibile nel campo dell’informatica e che potesse essere di aiuto a delle persone disabili, l’8 giugno, la mattina, finalmente per noi avveniva un fatto molto importante: iniziava questo intervento di formazione per un gruppo di cinque disabili psichici e fisici abbastanza gravi. Ci trovavamo in un’aula superattrezzata che avevamo realizzato con molta fatica. Per la prima volta mi sono trovato di fronte a questi amici, vivendo personalmente il rapporto con loro. Insieme c’erano anche due familiari, alcuni educatori, alcuni volontari di servizio civile che avevano accompagnato queste persone. Mi sono trovato subito di fronte a questa difficoltà, cioè come iniziare questa esperienza con loro. Ho cominciato a descrivere tutto quello che avevamo fatto e che vedevano nell’aula, ma mi accorgevo che stavo perdendo tempo, fino a che dall’interno mi è nata una domanda che avevo dentro da tempo e che non riuscivo ad esprimere: "Ma secondo voi, ho chiesto, che cos’è la cosa più importante?" Una di queste ragazze disabili, con tutta la fatica sua nell’esprimersi, è riuscita con un gesto della mano molto significativo e con quella voce che riesce ad esprimere, a dire una parola che è stata fondamentale. Attilia, alla mia domanda, dopo un momento di silenzio, ha detto: "Noi".

Ecco, questo fatto ha sostanzialmente dato un’impronta a questo nostro progetto in termini molto significativi. Già sulla carta il progetto aveva avuto ampi apprezzamenti perché per la prima volta, probabilmente, questi studiosi dell’applicazione dell’informatica nel campo dell’aiuto alle persone disabili, vedevano un’esperienza che tendeva a realizzare attraverso questo strumento, uno sviluppo della relazione sociale e della comunicazione tra tutte le persone che con i disabili hanno un rapporto, quindi con i loro famigliari, con i loro educatori se i disabili partecipano al centro, con i loro compagni di lavoro, se i disabili frequentano un’azienda o un laboratorio di lavoro.

Però il rischio in queste cose è sempre di ridurre il problema, di relegarlo al rapporto individuale uomo-macchina-computer-disabile-uomo informatico, come viene chiamato da questi studiosi. E il fatto che noi si avesse la voglia e la pretesa di andare ad affrontare il problema della relazione, della comunicazione, coinvolgendo i famigliari, gli educatori, gli amici e i volontari, questa cosa già sulla carta è apparsa interessante. C’era in noi, comunque, la tentazione di usare la tecnologia per scaricare il disabile, per renderlo più "autonomo", più indipendente. Quel "noi" della nostra amica Attilia ha fatto concretizzare un qualcosa che era ancora a livello di idee, per cui quella che era un’aula immediatamente è diventato un ambito di convivenza. Quella classe, comprese le mamme, compresi gli accompagnatori che da quel momento cambiando i nostri programmi, sono diventati un tutt’uno nell’esperienza stessa, si sono messi loro stessi ad imparare ad usare questi strumenti. Quel gruppo di ragazzi è diventato compagnia. Non ci troviamo solo per imparare ad usare il software e il computer ma ci troviamo anche per altri momenti tutti quanti insieme e questo ci aiuta a superare le enormi difficoltà che comunque ci sono. Quel noi detto dalla nostra amica Attilia, e il metodo pratico con cui stiamo portando avanti le difficoltà di questo progetto, sono strettamente correlati, anzi speculari.

Nell’affrontare questi grandi problemi, abbiamo avuto l’aiuto di alcune realtà della Compagnia delle Opere, che insieme alla "Solidarietà e Servizi" si sono messi dentro questo lavoro, facendolo diventare il loro lavoro, il loro progetto e la loro esperienza di Compagnia delle Opere e per la Compagnia delle Opere. Quindi oltre a questa opera di carità vengono messi in gioco con risultati inaspettati da un punto di vista pratico il "Consorzio Scuola e Lavoro" di Milano che si occupa della formazione e preparazione di persone e di giovani per inserirle nel mondo del lavoro. Quindi ha dentro uomini capacità ed esperienze in grado di sostenere ed aiutare questi progetti. Il Consorzio ha ritenuto che il collaborare insieme in questo poteva dare un valore aggiunto notevole e così è stato, perché questo nostro progetto è stato conosciuto da realtà e istituti scientifici molto importanti, tra cui il Politecnico e lo Smau, che ci hanno messo a disposizione tutti i risultati delle loro ricerche. Lo Smau ha messo a disposizione non solo i computers ma ha fatto anche un investimento che ci desse la possibilità di iniziare questo progetto. Tra l’altro siamo stati invitati dallo Smau a fare una relazione sull’andamento di questo progetto in un importantissimo convegno sull’utilizzo dell’informatica a favore delle persone disabili.

Un’altra realtà aderente alla Compagnia delle Opere locale, un’azienda che opera nel campo dell’informatica, ha deciso di inserire tra i suoi obiettivi la collaborazione a questo nostro progetto e di diventare nell’ambito del territorio di sua pertinenza, un punto di riferimento, di consulenza e di aiuto per tutte le persone disabili che, passando attraverso questi corsi di formazione, hanno bisogno di essere seguiti per gli sviluppi che la tecnologia ha attuato in questo settore.

Per noi, risultato in questo momento è già (perché siamo partiti da appena 2 mesi) questa compagnia, questa amicizia di lavoro che siamo riusciti a realizzare, sia nel piccolo di quella ex aula di formazione, che non è più aula di formazione, ma ambito di vita, sia nel contesto più ampio della relazione di diverse imprese che hanno fatto proprio un nostro obiettivo, un nostro intendimento iniziale, potenziandolo enormemente e, a loro volta, potenziando la loro specificità. La Compagnia delle Opere non è solo mettersi insieme per aiutare una realtà a crescere, ma questo fatto, proprio per sua natura, tende a far crescere anche la propria realtà.

Don Angelo Bertolotti, fondatore della cooperativa "Centro di Spiritualità e accoglienza Enrico Manfredini" di Piacenza.

Bertolotti: La nostra storia ha inizio 13 anni fa quando ancora seminarista fui incaricato di seguire una parrocchia del centro storico di Piacenza nel suo lavoro pastorale. E’ nata una piccola comunità di giovincelli con una caratteristica particolare: una strettissima convivenza. Ci trovavamo tutti i giorni per la S. Messa e il vespro. Mi sembrava bello presentare l’esperienza cristiana non con belle chiacchiere isolate dalla vita, ma con gesti precisi e decisi: la preghiera, lo studio insieme, la diffusione della stampa cattolica, i momenti di catechesi, la caritativa e la vacanza. L’esperienza funzionò e la nostra sede fu per parecchio tempo il piazzale della chiesa e questa realtà visibile a tutti provocava ora letizia, ora perplessità. Le mamme sono contente di parcheggiare i loro adolescenti all’ombra del campanile, ma diventano un po’ isteriche quando la fede dei loro figli e figlie continua anche nell’età più adulta, terrorizzate dal fatto che uno va ancora dal prete a 20, 25 anni: "Farà il prete o la suora?". Incuranti degli umori che ci circondavano, seguimmo quel positivo che ci teneva uniti e ci faceva camminare, crescere e lavorare sodo: Cristo, Gesù salvatore. Semplificando, questo vivace contesto, nonostante le ovvie difficoltà e resistenze, si consolidò. Uno dei momenti centrali e più significativi aggreganti, furono le vacanze estive che assomigliavano più ad esercizi spirituali, qualcuno ha detto. Ma a noi risultavano, forse per questo, più vacanze che mai.

A quei tempi, come oggi, l’ente pubblico preposto all’assistenza sociale era solito interpellare le parrocchie e le varie comunità affinché prendessero con sé giovani portatori di handicap più o meno gravi, per il periodo estivo. Così facemmo anche noi. Questa forma particolare di caritativa mi sembrava una benedizione, perché pensavo: "Di solito l’amicizia, quando inizia, va un po’ per simpatia, ed è difficile voler bene ad uno perché c’è e basta, e se c’è è figlio di Dio. La presenza di questi amici particolari ci aiuterà ad essere più attenti a tutte le persone, grazie al loro esplicito ed esigente richiamo". E così per diversi anni. E siccome gli anni passano e i bimbi crescono, arrivò il momento in cui alcuni dei nostri amici particolari, persero i genitori, ormai anziani, e li vedevamo finire o in ospizio, o in istituto o in situazioni disagiate. Fu allora che dissi: "Il Signore ci sta parlando. Stiamo facendo finta di non sentire, di non vedere? Se è vero, come è vero, che il Signore parla attraverso le circostanze, se è vero che la prima parola di Dio è la vita, se la Sua grammatica e il Suo alfabeto sono i volti nella loro realtà, raccogliamo il messaggio. Mettiamo su famiglia per loro". E siccome non credo alle mezze misure anche perché non mi risulta che Gesù abbia detto di fare un po’ di bene o di fare del volontariato, ma di dare la vita, partii subito con una proposta radicale. La casa famiglia doveva essere famiglia, con tutte le conseguenze e senza sconti o ferie di alcun genere. Nacque nel 1988 la cooperativa "Centro di Spiritualità ed Accoglienza Enrico Manfredini". Manfredini fu vescovo a Piacenza per 15 anni, morì arcivescovo a Bologna, e tutti noi lo ricordiamo vivo nella memoria perché ci fu grande guida spirituale nei primi passi. Dunque una casa famiglia per portatori di handicap fisico o psichico adulti orfani. Pasqua, Natale, estate, inverno, lavoro e vacanze, niente part-time, ma una vera famiglia. E così, senza fare 1000 incontri a tavolino, e senza nominare commissioni e sottocommissioni, ci buttammo nell’avventura. Un prete e una cuoca all’inizio, e poi tanti volontari. Ed eccoci qua al compimento del nostro quarto anno di vita che va. Le case famiglia di 6 persone ciascuna sono diventate 2, gli educatori qualificati sono diventati 5, i volontari sono rimasti numerosi. Abbiamo aperto, grazie alla immediata collaborazione e sollecitazione dell’amico Vittadini, una lavanderia a secco, che fa servizio pubblico per l’inserimento al lavoro delle ragazze; successivamente un laboratorio di attività artigianale, per l’assemblaggio per conto terzi di prodotti vari per l’inserimento lavoro dei ragazzi; siamo prossimi all’apertura di un laboratorio di maglieria sempre per le ragazze, e l’apertura, questa è un’altra cosa, di una casa famiglia per le ragazze madri e il pronto intervento dei bambini in affido. Mi sto preoccupando perché la rincorsa presa si è rivelata inarrestabile, ma guai frenare le emozioni dello Spirito, occorre, come qualcuno continua ad insegnarci, lasciarsi trasportare dall’audacia della fede. La cosa bella è che in mezzo all’indifferenza dell’ente pubblico, alle perplessità di molti anche nella Chiesa, e alle comprensibili difficoltà quotidiane, ci sono diverse persone tra i cosiddetti volontari, dedite a questo per vocazione definitiva. Forse questa è la nostra forza per grazia e non per meriti particolari.

Vorrei fare ora qualche considerazione di valore. Prima di tutto, l’importanza della vita di comunità. Condivisione in tutto e per tutto, di sé nella preghiera, nel silenzio, nella fedeltà alle piccole cose, nello spirito di sacrificio, nel tentativo di fuggire quella ricerca di belle parole, senza sudore, o il rischio di costruire dei ruoli dove stare comodamente seduti per sentenziare addosso agli altri: "perché io sono capetto e tu no". Se si prega e si lavora sul serio, passano tutti i pallini, e si è più contenti. Nella nostra struttura, in cappellina, un ex-ufficio portineria, ci sono 2 statue ad altezza naturale, rappresentanti la sacra famiglia. Tutte le mattine, per prima cosa, tanto i ragazzi quanto gli educatori e i volontari, vi entrano per una visita e una preghiera, perché ho detto loro che il Pino, la Mariuccia e il Bimbo, cioè San Giuseppe, la Madonna e Gesù, sono il modello della nostra famiglia ed è con loro che dobbiamo fare i conti, tant’è che per la festa della donna uno dei nostri operatori, senza dire nulla, ha deposto un mazzo di mimose ai piedi di Maria suscitando simpatia e meraviglia in tutti. E’ proprio come se fossero dei nostri, tra noi, come probabilmente è.

Non vorrei presentare un’isola felice fuori dal tempo e dallo spazio, senza fatica e sofferenza. Di fatto, per rendere l’idea, i nostri utenti, uso questo termine per intenderci, sono molto eterogenei e presentano patologie molto diversificate e particolari. Abbiamo una poetessa affetta da tetraplegia spastica, che ci costringe a subire le sue ripetitive poesie; un’insufficiente mentale autistica, con frequenti crisi ansiose, che non recepisce quasi nulla; e un bimbo quattordicenne, l’unico minorenne, con un’alterazione genetica, per cui risulta insufficiente mentale grave (si dovrebbe dire oligofrenico, secondo gli assistenti sociali, ma io evito il termine per non confonderci con l’acqua minerale). Un insufficiente mentale grave a causa della meningite avuta da piccolo e con tendenze pedofile; un maniaco sessuale con tendenze esibizioniste e violente, molto giovane, che ha terrorizzato un piccolo paese, tipo il mostro di Firenze; uno che ha disturbi di personalità, così dicono i professionisti del cervello quando non sanno cosa dire, con manie religiose: ha celebrato una Santa Messa in una città che preferisco non rivelare, con tanto di tonaca da frate, una cosa da notizia giornalistica, da notizia "boom", e noi li abbiamo per casa. Poi schizofrenici, psicotici, con tendenze suicide, un ex carcerato che va e che viene. Alcuni ex tossicodipendenti, un alcolizzato cronico depresso, una ragazza madre i cui figli sono stati dati in affido, qualche malato di aids e chi più ne ha, più ne metta, che noi li abbiamo già.

Voglio dire che siamo un po’ una casa di matti, ma siamo contenti. L’ultima volta che siamo andati durante le vacanze ad uno zoo safari, all’uscita mi è proprio venuto da pensare: "Ma si saranno divertiti di più i nostri ragazzi o gli animali"?

A parte gli scherzi è solo per dire che "cuor contento il ciel l’aiuta". La nostra forza sta nel volerci bene; ho paura ad usare il termine amare, per il divino valore intrinseco che ha questo termine, ma nel caso lo usassi mi comprenderete e lo userò. L’importante è che uno, lì dentro, si possa sentire amato e possa amare. Quando i professionisti che ci contattano chiedono programmi di recupero, strategie e piani particolari, mi sembra sempre di dover pensare agli agenti segreti, che non sanno mai bene cosa fare e rispondo che la nostra casa famiglia non è un reparto di malati psichici, e non li consideriamo tali, ma una casa per viverci, un luogo per amarci, uno spazio per camminare, e tra noi vogliamo che non ci sia differenza di trattamento. Anche per questo noi non abbiamo voluto e non vogliamo convenzioni con l’ente pubblico che in Emilia Romagna pone a volte condizioni insostenibili ed è fazioso. Infatti il nostro criterio non è la territorialità, come del resto come criterio ha anche la Chiesa e i militari, ma la persona e ci riserviamo di accogliere chi vogliamo e da qualsiasi parte venga. Un nostro noto concittadino, don Franco Molinari, lo storico giornalista, morto da poco, ci conobbe più da vicino nelle nostre vacanze, e di noi scrisse in un suo volume, Mille e una ragione per credere (Paoline, 1988). A pag. 86 nel capitolo 4 dal titolo "Amare rischiando", nel paragrafo "L’uomo planetario" (ma non ho capito perché ci ha messi qua all’uomo planetario), dice: "Dio, che è amore, è più forte di tutti gli arsenali e non vuole che l’aborto trionfi. Ho trovato il segno della speranza in un campo scuola di un movimento cattolico alla Certosa di Pesio, Cuneo. 40 giovani e ragazzi, di cui una decina portatori di handicap. Ogni giorno incontrano Cristo leader dell’amore in una riflessione e nella solidarietà fraterna. Non c’è un minimo di differenza tra i sani e gli altri, sono una cosa sola. La via dell’uomo planetario è in una dedizione generosa agli altri". Non ho capito nemmeno se intendeva farci un complimento o dire che non ce ne era uno normale, ma a parte gli scherzi forse lo aveva colpito la nostra compagnia nella sua normalità di vita cioè non le vacanze come esaltazione del riposo e dello svago, ma una continuità di servizio, una normalità di vita serena.

Ora, una riflessione più seria. Noi condividiamo la vita con persone che la croce la portano nel fisico o nella mente, voglio dirvi che tutto ciò è bello. Non è vero che la sofferenza è un castigo o una disgrazia o qualcosa da fuggire. Ma la croce di Cristo guardata in faccia, è verità di vita, è essenzialità, è spogliazione del superfluo e felicità piena. Ciò che ci rende veri non è dimenticare o far finta di non vedere, ma è abbracciare, abbracciare tutto. Salirvi sulla croce, non pensare a come potrebbe essere. Ecco perché abbiamo imparato a non lamentarci mai, ecco perché siamo molto realisti, perché la croce vissuta è scalpello purificatore e perfezionatore di tutte le nostre menate. La vita è veramente bella così. E’ proprio vero che solo la croce salva. Per questi ragazzi che adesso non chiamiamo più particolari, ogni piccola cosa è un problema, un gradino è un problema grosso, un disturbo fisico ancora di più. Il clima è un problema, l’alimentazione è un problema. Per fare una cosa di un minuto ci vogliono 2 ore. Pertanto per noi niente è problema. Loro, nella loro patologia, fuggono la realtà, e tutti noi sappiamo bene che educare è introdurre alla realtà. Di solito di fronte ad un handicappato dicono che è un poverino, a cui darle tutte vinte, o dicono nella migliore delle ipotesi, che sono uno stimolo alla nostra umanità. Il primo caso è da non considerarsi, il secondo caso fa pensare agli handicappati come a dei purganti, la qual cosa non mi sembra molto oggettiva. Noi abbiamo imparato che sono un tu col quale rapportarsi con attenzione come con tutti, è parte di te, è come te, come tutti, è lì perché il Signore lo ama e tu devi fare altrettanto. E’ lì per la tua conversione, lì per la tua santificazione. Diceva san Giovanni Bosco: "I giovani sono più veri, sono se stessi, nel gioco e a tavola; è lì che vengono fuori, lì li devi osservare ed aiutare". E’ proprio vero che occorre agire con fede nella quotidianità della vita per essere concreti ed efficaci. Quando noi ci sediamo a tavola, sembra l’inizio di una guerra. Osservazioni, richiami, rimproveri, castighi: una lotta. Ma perché abbiano ad essere dignitosi di fronte a tutti ed in qualsiasi luogo. Non sopportati, non compatiti, non emarginati o trascurati o considerati scemi, ma amati, amabili e stimabili per quello che sono. La vita di tutti i giorni che sembra banale, è grande perché in quello che uno fa, se lo fa bene per Cristo e per i fratelli, con amore, glorifica Dio. E questo è il fine per cui siamo stati creati. Quando qualcuno sa di questo umile nostro servizio, costante e fedele, si meraviglia e dice: "Che bravi!". E io mi arrabbio e dico che bravo è uno solo, che dà la forza a tutti e che noi siamo peggio di tutti gli altri, così tacciono e riflettono. Per il cristiano dovrebbe essere normale questo tipo di vita, naturale nel Soprannaturale, cioè nella verità della vita.

Concludendo vorrei dire che oltre a Cristo, la ragione unica prima e ultima della vita, da non dare mai per scontata, ma sempre da domandare, c’è un’altra ragione. Non sono gli applausi degli uomini o dell’autorità ecclesiastica che non sempre si rivela immediatamente intuitiva e incoraggiante, o gli articoli di giornale, o le simpatie indirette di chi, al di fuori della Chiesa o dentro ad essa, ne apprezza solo l’aspetto da crocerossina, non considerando la valenza culturale e rivoluzionaria della carità in quanto segno di Cristo stesso uomo Dio, che genera un’umanità nuova, ma è lo sguardo dei nostri ragazzi, è il loro sguardo. Occhi imploranti e pieni di gratitudine e letizia inconsapevole. Loro non sapranno mai esplicitare e spiegare con delle belle parole, le loro emozioni e i loro sentimenti. Non riusciranno a formulare un grazie, né un ti voglio bene, ma basta quello sguardo pieno di niente e di tutto che guarda nella nostra stessa direzione: Cristo. Ed è sempre lui che irrompe nella sua totalità in ogni occasione, anche se non potremmo registrare parole precise a questo proposito. E’ una specie di Chiesa del silenzio, ma è un silenzio molto eloquente, che solo i buoni padiglioni dello spirito che è in noi possono percepire.

Un vecchietto vedendoci scendere da una bidonvia con non poco impegno degli addetti e con alcuni in braccio perché non camminano, altri impacciati, per non dire imbranati, disse: "Non ho mai visto una persona contenta come quei vostri ragazzi". "Se nessuno vi ha mai detto grazie per quello che fate, ve lo dico io a nome di tutti", disse un novello sacerdote qualche tempo fa, dopo l’incontro con noi, e una dottoressa polacca che mi visitava per un disturbo che avevo, saputo quello che facevo, alla mia affermazione: "Sono in debito", visto che volevo pagare, mi ha risposto: "Noi siamo in debito con lei per quello che fa. Torni la prossima volta". Voglio gridare a tutti che queste sono le più grandi soddisfazioni che si possono avere. Se uno mi dicesse, ti dò i miliardi che vuoi per fare dell’altro, li rifiuterei perché niente è più bello di una vita per Cristo e per i fratelli anche se un po’ sacrificata. Del resto, se lui è andato in croce, non possiamo pensare né pretendere di percorrere una strada diversa da lui e dai martiri. Non i leoni ci divoreranno, ma è dalla fedeltà che dobbiamo lasciarci divorare e consumare. E’ poco, molto poco, ma l’importante è che ci sia il tutto in questo poco. L’importante è che tutto sia sconvolto e travolto da Cristo, unica risposta a tutte le nostre domande. A noi è capitato di rispondere così e ne siamo contenti, cosa che forse gli psicologi e gli assistenti sociali non hanno capito.

Ultimissima annotazione, è relativa al tanto conclamato volontariato. Probabilmente è un buon cavallo di battaglia per i politici e sta bene ai cristiani mediocri o della domenica, è una cosa bella, ma credo che non lo si debba confondere con il fine. Ottimo strumento pedagogico finché è tale, rimane utilissimo, ma se prende il posto di Cristo mi sembra non solo improduttivo, ma al di fuori dell’ortodossia cattolica della vita vera. Cristo non ha detto ai discepoli di fare un po’ di volontariato per lui, non ha detto "Seguimi per 10 anni e poi vedi un po’ tu", ma: "Seguimi sulla croce". Non misurare, non annaffiare, non diluire, di vocazione si parla tra noi. Il Signore chiama, ma chiama per la vita, non per di meno. Il di meno non è da Dio. Certo sta bene tutto, ma la logica meglio poco che niente, non mi sembra in sintonia con la Chiesa viva dei martiri e non possiamo permetterci di fare tagli ma solo di seguire e seguire non secondo il nostro metro, ma secondo la sua voce. Chi lavora da noi è perché è dentro una vita di comunità, per tanto credo di non provocare panico ma solo di ribadire una radicalità e totalità in sintonia con la Chiesa nelle sue espressioni più vive e più vere. "Intanto qualcuno costruisce". Davvero noi lavoriamo per l’opera di un Altro, con la a maiuscola. Davvero la vita ordinaria è grazia e carità nella modalità che volete voi, o non è vita. Noi siamo a Piacenza in via Grondana, 8/10.

Don Carmelo Di Giovanni, da vent’anni impegnato a seguire le migliaia di tossicodipendenti italiani che finiscono nelle carceri inglesi.

Di Giovanni: Mi chiamo Carmelo, e sono parroco in una parrocchia di Londra, da circa 21 anni, e da 20 anni mi occupo come cappellano delle carceri inglesi. Ho seguito anche per circa 15 anni molti delle Brigate Rosse e dei fascisti, NAR, Ordine Nuovo.

Ho poi raccolto questa esperienza in questo libro: Eravamo terroristi: lettere dal carcere. In questi ultimi anni per vari motivi molti italiani approdano a Londra. Io ne incontro centinaia e centinaia ogni anno nelle carceri inglesi che sono molto dure. Vedo l’angoscia di tanti giovani, vedo la solitudine, l’abbandono, la lontananza dalle famiglie, la mancanza della lingua. Quello che ho capito in questi 20 anni di prigione, è che io non sono migliore di nessuno di questi giovani. Io vedo che ogni volta che entro in quella cella, è Cristo che viene con me. Io avevo prima vergogna di parlare di Dio ai carcerati, perché pensavo che a questa gente non gliene fregasse niente della parola di Dio. In realtà non ci credevo neanche io. Ho scoperto che questa era la tragedia, che io ero prete proprio giusto per dire, ma odiavo la Chiesa. Ho votato comunista, sono stato comunista. Venivo da un mondo molto duro, molto difficile, ho pagato sempre sulla mia pelle tutti gli sbagli che ho fatto, ho avuto mandati di cattura, ho avuto problemi con la polizia, problemi di terrorismo, problemi di droga, un po’ di tutto. Quindi credo che la cosa fondamentale che mi fa andare avanti in questo lavoro è vedere che io sono pieno di peccati e di difetti. Quando vedo gente che ha ucciso, che ha violentato un bambino piccolo, di tre anni, che ha fatto delle cose orribili, c’è un pensiero che viene, che questa sia gente "maiale", che andrebbe messa al muro, perché questa è la mentalità del mondo, cioè nessuna pietà o misericordia per qualcuno che sbaglia, che distrugge la vita di altre persone. Eppure ho visto delle cose sconvolgenti. Le confessioni più belle, gli incontri che io faccio non sono nella mia parrocchia, con la gente tutta linda e pulita. Stando a contatto con l’immondizia, con la spazzatura di questa società, quello che noi mettiamo da parte, viene fuori qualcosa di stupendo, le conversioni. Io ho visto persone che hanno smesso il peccato, che hanno lasciato di fare smercio di eronia, di uccidere, di violentare, soltanto perché hanno visto qualcuno che gli voleva bene, perché credo che il problema fondamentale dell’uomo sta qui, cioè che qualcuno ti accetta anche quando sei un maiale, anche quando sei un porco, cioè che c’è qualcuno che viene lì e non ti dà l’ultima spinta per buttarti nel fosso, ma ti accoglie e ti perdona.

Una esperienza mia degli ultimi anni è assistere ammalati di AIDS. Accompagno molti giovani a fare le analisi, perché hanno paura ad andare da soli. Ho assistito, specialmente in questi ultimi sei o sette anni, molti ragazzi italiani che sono morti di AIDS a Londra. Vorrei raccontarvi soltanto qualche piccola esperienza. Mi ricordo di un giovane di Roma, Mariano, che è morto l’anno scorso, un giovane che aveva distrutto la sua vita con la droga, con lo spaccio. Quando è entrato in ospedale l’ho assistito gli ultimi mesi. Mai ho chieso a lui se si voleva confessare. Un giorno mi dice: "Padre Carmelo, io mi voglio confessare". La confessione di questo ragazzo mi ha sconvolto, vedere la rabbia di questo ragazzo che aveva distrutto la sua vita a 27 anni, che moriva come un cane, questa rabbia dentro, e nello stesso tempo questa gioia, questa felicità, questa libertà perché si riconciliava con la sua famiglia, con il papà e con la mamma, con i fratelli che sono venuti dall’Italia, si è riconciliato con la società, con il Signore. Molte volte, ve lo dico sinceramente, invidio la morte di questi giovani. Non so se un giorno il Signore darà a me la grazia di morire così, circondato da amici, dalla grazia di Dio. Dopo la confessione abbiamo letto il salmo 50, il salmo di Davide. Ho detto "Coraggio, perché il Signore ti ama moltissimo, il Signore non tiene conto della tua realtà, di quello che hai combinato nella tua vita, ma ti sta rigenerando, ti sta dando una vita nuova". Gli ho detto "Quando stai nel cielo ricordati di questo povero disgraziato, ricordati di me, prega per me".

In tutte queste esperienze ho visto una grazia di Dio così profonda, così stupenda, come Dio possa veramente riconciliare. Innanzitutto vedo quello che Dio ha fatto con la mia vita, che l’ha ricostruita totalmente. Ero nello sfacelo totale, nella distruzione totale, stavo lasciando la veste, non credevo più a niente, la vita mi sembrava uno schifo totale, senza senso, ma il Signore ha ricostruito la mia vita e ricostruendo la mia vita ho visto che posso dare una speranza agli altri, che non sono chiacchiere quello che tu gli dici, perché l’hai imparato sui libri, ma è una tua esperienza esistenziale, è il tuo cuore, la tua vita che sta lì.

Potrei raccontare molti fatti, ma l’unica cosa che voglio dire è questa, è di avere molta misericordia. Quello che manca nel mondo di oggi è la misericordia, è il perdono, perché noi mettiamo al muro tutte le persone che non la pensano come noi, spesso siamo gente molto cattiva, gente che punta il dito contro gli altri, gente che analizza tutte le cose che fanno gli altri e non guardiamo mai a noi stessi.

Muccioli: Non mi sento un folgorato, un chiamato a una missione, cerco semplicemente di fare, seppure nel mio limite, l’uomo in funzione di quei principi che in tutto il mio processo di formazione, attraverso la famiglia prima, la scuola poi, la parrocchia sempre, sono riuscito ad incamerare seppure in maniera imperfetta e limitata. Credo che la costante che unisce tutti gli uomini sia proprio questa tipologia, questa caratteristica, il limite e l’imperfezione, quindi non credo che ci sia un uomo che possa giudicare un altro uomo, mai, però analizzare le azioni che un uomo compie sì, per poter rimuovere le cause che le hanno determinate, qualora gli effetti di queste azioni siano negativi tanto da degradare chi le compie e da sviluppare pericoli verso di sé e nella società.

Quindi se io faccio parte del volontariato è unicamente perché penso che prima di reclamare i propri diritti nella società bisogna riconoscere ed ottemperare i propri doveri e primo fra tutti penso sia il rispetto alla vita, all’uomo, all’ambiente, alle strutture e ai valori che secondo gli insegnamenti che mi sono stati dati rappresentano l’elemento fondamentale, il tessuto prezioso della cultura dell’uomo.

S. Patrignano non è la risposta migliore al problema della tossicodipendenza, è semplicemente una risposta; la risposta che io, analizzando il problema, a contatto di chi lo viveva in proprio, il tossicodipendente sulla piazza, mi sono sentito di dare. La mia cultura sulla tossicodipendenza non arriva nè dai libri nè da indottrinamenti culturali di alcun tipo, ma arriva direttamente da una esperienza che con loro ho vissuto, non facendo uso di droghe, ma vivendo il dramma della loro esistenza, prendendo parte, sulla piazza dove loro consumavano la loro vita, alla loro vita. Ho scoperto questo uomo che era relegato ai margini della società, contestato, considerato quasi un sottoprodotto, quasi irrecuperabile ed ho scoperto un uomo, come tutti gli uomini, con i problemi di tutti gli uomini, ma abbandonato ai propri problemi; ho trovato un uomo difficile, chiuso, arrogante, contestatore, senza equilibrio, impulsivo, reattivo, ma sempre un uomo. Un uomo in difficoltà, un uomo disperato nella sua solitudine, un uomo colpito, un uomo giudicato, penalizzato, non amato e quindi ho provato questo farmaco: amarlo, rendermi disponibile e prima di fare qualcosa per lui capirlo, per vedere come rispondere meglio con il suo aiuto alle sue esigenze. Così è nato S. Patrignano, dove nessuno ha pagato una lira, dove lo Stato, nelle convenzioni numerose che ho, non paga; paga l’ammodernamento della struttura, le attrezzature per un servizio sempre più mirato, ma non la permanenza e il rapporto, perché questo nasce e si sviluppa in un qualchecosa che non si può vendere, si può solo regalare, sono i sentimenti, e attraverso questo vivere comune, questa disponibilità a capirci, ad aiutarci, noi abbiamo creato, da una realtà mia, una città, che non mi ascrivo il vanto di averla costruita, perché chiunque ha collaborato dall’interno o dall’esterno ha contribuito a costruirla e adesso è una città che ospita 2.200 ragazzi, che ha immesso nel sociale quasi 9.000 uomini, tutti o laureati, o diplomati o con una qualifica professionale. Ecco perché ho pensato ad una struttura del genere, perché non credo che per un tossicodipendente sia sufficiente un’oasi in cui ristorarsi, ma una palestra in cui allenarsi, con il supporto anche di altri, a vivere quelle realtà umane, sociali e costituzionali che tutti conosciamo teoricamente, ma che praticamente abbiamo difficoltà a vivere per le responsabilità e le fatiche che nel vivere noi troviamo.

Iniziare un processo evolutivo, un processo di ristrutturazione psicofisica e morale significa vivere senza giudicarci, senza sentirci maestri di vita, ma disponibili ad accettarci scambievomente nei nostri limiti, per aiutarci scambievolmente a superarli.

Così è nata S. Patrignano, con tutti i settori di lavoro, al meglio attrezzati, perché ciascuno di questi deve costituire una struttura di formazione professionale, perché il ragazzo quando esce dalla comunità non abbia solo un indottrinamento teorico sui valori e sulle responsabilità, ma si sia allenato a viverli in proprio e ciascuno sia protagonista del suo processo di formazione, con il supporto, nei momenti di difficoltà, di coloro che hanno già superato questi momenti e che si sono abituati a viverli; quindi non abbiamo maestri, non abbiamo personale specializzato, cerchiamo di specializzarci con l’aiuto di tutti nel vivere in concreto quello che il vivere comporta, la solidarietà.

Noi abbiamo voluto creare non una comunità terapeutica, ma un modello di vita, attraverso il quale riprendere fiducia nella vita stessa e una volta usciti trasmetterla e propagarla. Questo uscire, o non entrare nella tossicodipendenza, per me significa non accettare l’insistente divulgazione e la pretesa di imporre a tutti, da parte di chi compie questa azione, la cultura del "tutto lecito", perché questa è la cultura che non ci permetterà mai di guardare fiduciosi ad un domani se questo domani lo vogliamo vedere costruttivo, a difesa dei valori della vita e della società.