EDUCARE PER COSTRUIRE. CICLO DI INCONTRI PROMOSSO DALLA COMPAGNIA DELLE OPERE
Giustizia è (s)fatta.
Il giusto processo in Italia
Lunedì 23, ore 18.30
Relatori:
Pierluigi Vigna,
Procuratore Nazionale Antimafia
Giovanni Pellegrino,
Presidente della Commissione Stragi del Senato
Giuseppe Frigo,
Presidente Unione Camere Penali
Vigna:
È un luogo comune che la giustizia, negli anni passati, non ha funzionato bene: questo non è del tutto vero. La magistratura ha fatto molto: ha scoperto le stragi di mafia e gli autori degli omicidi mafiosi, ha sconfitto il terrorismo di destra e di sinistra. Gerardo Colombo ha dichiarato che Tangentopoli è conclusa. Questa dichiarazione non è chiara, non si capisce se sia finita la corruzione o se si tratti piuttosto della convinzione che finirà; personalmente penso che non ci siano fenomeni criminali destinati a cessare. La corruzione permane in forme diverse, non più ruberie per il partito o per chi rappresentava il partito, ma pur sempre agevolate da una burocrazia ancora opprimente. Nonostante grossi passi che si stanno facendo con le varie leggi Bassanini, il pubblico ufficiale approfitta di questa burocrazia pesante, in cui sembra che lo Stato si morda la coda. Tangentopoli, soprattutto a Milano, si è conclusa perché gli imprenditori facevano la coda per confessare e perché sono venute meno le condizioni di insopportabilità. Questo non significa che devono finire le indagini, ma che devono finire quelle indagini e devono iniziarne di altre con altri mezzi.Che la giustizia, negli anni passati, non abbia funzionato resta, nonostante tutto, la convinzione di molti. Quel che imbarazza è che poi si indicono riunioni, folte di gente, per protestare perché alla giustizia viene attribuito lo 0.7-0.8% del bilancio statale. Si dovrebbero fare delle riunioni per sostenere che è un’indegnità che alla giustizia venga riservata questa percentuale; ora ci stiamo avvicinando all’1% con una spesa che riguarda i 50.000 detenuti, gli agenti, il loro mantenimento, e tutto ciò che riguarda nel suo complesso il settore giustizia.
Dalla stessa politica, da chi faceva le leggi di bilancio, la spesa per la giustizia sembra sia stata sempre considerata improduttiva. Ultimamente, anche se i segnali sono ancora deboli, ci si rende finalmente conto che ciò che si dà alla giustizia è un investimento: la giustizia produce legalità.
Per quanto riguarda le disposizioni più recenti, ha particolare interesse la questione del giusto processo. I principi che Camera e Senato hanno votato possono essere considerati ragionevoli e accettabili. Come rifiutare l’idea che ci debba essere un giudice terzo e imparziale? Come rifiutare l’idea che l’accusato, in un termine ragionevole, termine che stabilirà la giustizia ordinaria, deve essere posto a conoscenza dell’accusa? Come rifiutare all’accusato il diritto a un tempo per difendersi, il diritto di far interrogare chi lo accusa, il diritto di far interrogare chi porta prove in suo favore, il diritto a un interprete se non parla la lingua italiana? Come negare il valore del contraddittorio? La verità la trova solitariamente solo il mistico, non l’uomo. L’uomo, per trovare e per ricostruire i fatti, per trovare quindi la verità del processo, ha bisogno ovviamente del dialogo. Gli stessi principi affermano che questo contraddittorio non è necessario, e che quindi c’è una deroga a questo principio, quando vi è l’accordo delle parti o quando la persona non risponde perché è stata sottoposta ad atti illeciti o perché è morta. Sarà da vedere, piuttosto, se altri principi debbano introdursi. Per esempio, di mia iniziativa, ho fatto fare al mio ufficio delle rilevazioni in base alle quali risulta che la legge sul patrocinio dei non abbienti, in base alla quale chi ha una dichiarazione dei redditi molto bassa può comunque scegliersi l’avvocato che vuole a spese dello Stato, è diventata monopolio di criminali della malavita organizzata: non fanno denunce dei redditi, i loro beni sono intestati ad altri. Quindi qualcosa da rivedere c’è ancora.
Pellegrino: Non c’è dubbio che il tema della giustizia, in tutti gli anni Novanta, ha avuto una sua innegabile centralità nel dibattito nazionale. In nessun altro paese della civiltà occidentale abbiamo registrato un fenomeno di questo tipo, soprattutto perché ha occupato per anni le prime pagine dei giornali. In questo dibattito, come spesso avviene nel nostro paese, gli elementi e i momenti emozionali hanno prevalso su una riflessione razionale, più fredda. Io personalmente rimasi perplesso su eccessi di entusiasmo e eccessive semplificazioni di analisi che seguirono negli anni ’92-’93 all’inizio dell’avventura di Mani Pulite, che io continuo a considerare uno dei momenti alti della magistratura italiana. Per aver espresso delle perplessità, mi feci la fama di iper-garantista; in dibattiti pubblici mi ritrovai spesso in difficoltà, sentivo un pubblico ostile che non voleva altro che sentir cantare le lodi dei pubblici ministeri. Non potevi accendere la televisione senza vedere sempre le stesse facce: magistrati valorosamente impegnati in un’opera benefica. Questi magistrati stavano indubbiamente assumendo un ruolo eccessivo per colpa di un paese che, reagendo emotivamente, non riusciva in quel momento ad assumere una posizione critica. Nello stesso tempo alcuni dei protagonisti sono sembrati troppo emotivi quando, recentemente, hanno utilizzato espressioni quali "campane a morte", "fine di una grande stagione", "sostanziale sconfitta", come se stessero cantando il De profundis a Mani pulite.
Mani pulite non ha perduto: la verità è che ha combattuto un fenomeno particolare, che poi si è voluto definire "corruttivo", anche se lo era soltanto in parte. Ha colpito un gigantesco sistema di finanziamento irregolare della politica che era nato in Italia per condizioni storiche note, nell’immediato dopoguerra, con da una parte finanziamenti della CIA e della Confindustria a Democrazia Cristiana e ai partiti del centro degasperiano, e dall’altra con i finanziamenti sovietici e di una serie di imprese satelliti al PCI. La forma irregolare di finanziamento della politica nasce, nel nostro paese, con la Repubblica; negli anni 1980 si sviluppa, diventa elefantiaca, intollerabile. All’inizio degli anni Novanta, quando i muri sono caduti, le condizioni storiche che giustificavano la tolleranza anche giudiziale di questo fenomeno vengono meno, così parte Mani pulite. Attualmente quel sistema di finanziamento della politica, quel mondo reale della politica, è finito, non c’è più: in questo Mani Pulite ha vinto.
Quello che rimane incomprensibile è il persistere della pubblica corruzione; una riflessione più serena dovrebbe portarci a considerare le manifestazioni italiane parte di un fenomeno che non è solo italiano. L’espansione del giudiziario, infatti, è un fenomeno epocale, riguarda tutto il mondo occidentale e non è affatto destinato a finire. Sarebbe un errore pensare che siamo in presenza di un fiume che ha debordato e che sta tornando nei suoi alvei naturali così che antichi equilibri verranno a ricostituirsi: le cause dell’espansione del giudiziario sono cause strutturali, attengono al modo in cui si è venuta organizzando la nostra società. Il fatto che l’economia abbracci ambiti territoriali molto più ampi di quegli ambiti in cui il potere politico esprime la propria capacità di dettare regole, fa sì che, sempre di più, una società non più divisa per classi preferisca che i contrasti vengano risolti attraverso una regola generale e un arbitro neutrale. Il giudiziario, a livello mondiale, ha sostituito la politica rappresentativa.
In questo decennio, si è potuto constatare che il sistema di giustizia italiano non è adeguato ai compiti che il momento richiede. A questo si aggiunga la crisi di identità che si è determinata con il passaggio dal vecchio codice di procedura penale al nuovo codice accusatorio: un rito accusatorio che è estraneo alla nostra tradizione giuridica e che non è coerente con una serie di forme dell’organizzazione giudiziaria, forme solo in parte costituzionalizzate. In particolare il rito accusatorio non è coerente con l’organizzazione italiana del pubblico ministero: questo ha determinato una tensione fra le norme ordinarie che regolavano il processo e i principi costituzionali; gli interventi dalla Corte costituzionale si sono ripetuti spesso per tentare di risolvere tale tensione. Non c’è stato né un consenso sociale né un consenso politico sufficiente a riformare la figura del Pubblico Ministero, quindi si è tentato di inserire in Costituzione i principi del giusto processo. Non è sufficiente, ma è un buon passo in avanti.
Il problema essenziale verso il quale dirigere i prossimi sforzi è quello dei filtri. La società è diventata più conflittuale, quindi ha una domanda di giustizia sempre crescente; di fronte a questa situazione abbiamo un sistema che non riesce a rispondere. La nostra Costituzione, con gli articoli 24 e 113, impone che i conflitti vengano a conoscenza dei giudici professionali, impone la giurisdizionalizzazione di qualsiasi conflitto. Questo fatto determina la paralisi: per dare giustizia a tutti si finisce per non dare giustizia a nessuno. La soluzione potrebbe essere quella di organizzare una serie di filtri che scremino la conflittualità, per evitare che tutte le situazioni conflittuali confluiscano al giudice ordinario, che non riesce a dare risposte pur avvalendosi di un numero enorme e sterminato di giudici onorari. Questi ultimi sono giudici di secondo grado, per esempio non partecipano all’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura; fanno parte dell’organizzazione giudiziaria, sono indispensabili per evitare la paralisi, ma non hanno la dote dell’autogoverno, sono una sorta di giudici poveri, cooperatori della giustizia. Proprio il problema dei giudici onorari è la prova dell’impossibilità di affidare a un corpo professionale organizzato la risoluzione di tutti i conflitti.
Altre riforme di struttura, anche di rango costituzionale, dovranno essere adottate, per poter giungere a un giudice profondamente diverso rispetto a quello cui siamo tradizionalmente abituati.
Frigo: Dobbiamo verificare un’inadeguatezza nel settore giustizia, nonostante il progresso di questi ultimi anni. Non è un disfacimento, ma certo un’esigenza nuova, diversa dall’emergenza terroristica o mafiosa o economica amministrativa: si tratta dell’emergenza dello stesso sistema giustizia. Si deve trovare il modo di uscire da essa, perché accanto a grandi e significativi risultati positivi, c’è tanta giustizia che noi siamo abituati a considerare minore e che minore non è, la giustizia del quotidiano, con cui occorre fare i conti. Questo è quello che si sente quando oggi si parla di senso di insicurezza tra la gente, quando sentiamo i commercianti di viale Padova a Milano che si lamentano, quando sentiamo la paura che qualche volta corre. Si è perduto quello che i francesi chiamano "l’ordine della strada". Siamo forse al culmine dell’emergenza. Il problema non riguarda i giudici
Abbiamo bisogno di ricostruire insieme sia l’amministrazione della giustizia, la giustizia in senso stretto, ma anche la giustizia nel senso più ampio. La giustizia che è vicina al concetto di sicurezza, la giustizia che è vicina al concetto di ordine, ma che non si identifica con l’ordine, perché non spetta al giudice il compito di ripristinare l’ordine generale. Quello che purtroppo è un equivoco permanente, che dobbiamo sfatare, è che si voglia e si pretenda di caricare la giustizia come giurisdizione di questi compiti, mentre altri settori dello Stato, complementari e altrettanto importanti, devono occuparsene. Si è spesso pensato che la giustizia in senso stretto potesse supplire su tutti i fronti alle carenze degli altri settori: in questo modo si sono determinati dei guasti.
Non è necessario fare o meno il funerale a Tangentopoli; la lettura di questi fenomeni può essere fatta guardando alla qualità che la nostra società attribuisce al processo, in particolare, a quello penale. Se il processo e la giurisdizione devono essere orientati ai fenomeni criminali come tali, ne consegue un certo tipo di scelta, delle cui implicazioni è necessario sempre rendersi conto. Fare i processi ai fenomeni e alla storia è molto rischioso, può portare delle delusioni: la giustizia italiana ha ottenuto molti risultati nei confronti non del terrorismo o della mafia, ma di singoli terroristi e di singoli mafiosi.
Che cosa si vuole dal processo? questa è la questione di fondo. Chi ha una concezione bellicosa della giustizia e del processo deve farsi carico di tutte le implicazioni e di tutte le conseguenze, a cominciare dagli enormi compiti affidati alla magistratura. Quando si assegna al processo un compito di controllo sociale, quando si assegna al processo il compito di combattere interi fenomeni, allora il successo dipende dalle condanne esemplari e dal numero. La storia però insegna che il numero di condanne non è mai sufficiente a sconfiggere i fenomeni di corruzione, basti pensare agli untori della Milano del 1630. Anche se certe condanne sono servite per pacificare gli animi o per placare gli animi esacerbati, lo strumento è inadeguato e rischia di mettere in crisi i diritti individuali. Entrano in crisi i diritti individuali non soltanto di chi è indagato e di chi è accusato, ma anche il diritto della vittima, anche il diritto della parte lesa. Se si assegna al processo un obiettivo di politica criminale esso deve, a tutti i costi, essere perseguito. Vale la pena tenere in piedi una macchina costosa per avere un risultato che non riesce ad essere complessivamente appagante? Nel Medioevo, quando sono cominciati i commerci e, cominciando i commerci, è cominciata a crescere la criminalità cittadina, si sono inventati i processi. Il processo inquisitorio messo a punto dalla Chiesa, per questioni di fede, ha fatto particolarmente comodo al potere laico per combattere la criminalità che si stava sviluppando. Venne assegnato al processo, sin dalle sue origini, un compito politico nel quale l’individuo rimane schiacciato. Qual è l’alternativa? È un’alternativa molto più modesta, scelta dalle società moderne e avanzate, che vede nel processo uno strumento anche per risolvere i conflitti tra collettività e singolo cittadino. Il processo moderno nasce con la rivoluzione americana quando la collettività americana dovette affrancarsi dal potere della madrepatria, dall’Inghilterra. Si giustifica così un’altra concezione del processo, quella del giusto processo. Può darsi che questa sia un’illusione, ma è un’illusione che garantisce le democrazie personalistiche che vedono nell’individuo il primo e fondamentale valore da garantire. L’idea di introdurre nella nostra Costituzione il giusto processo, un processo che non è ancora stato definito dal 1948, nasce da queste considerazioni. La nostra società è matura per questo e per accettare questa sfida.
Vigna: Nel dicembre 1979, quando alcuni terroristi di Prima linea, alla scuola di amministrazione aziendale di Torino, colpirono con le pistole dodici dipendenti, dopo pochi giorni il nostro Parlamento, con quell’andamento sussultorio che lo contraddistingue, emanò una legge. La legge del 12 dicembre 1979 pose il germe dei cosiddetti collaboratori di giustizia: aggravava le pene per coloro che commettevano atti di terrorismo e, nello stesso tempo, prevedeva forti riduzioni di pena per i terroristi che collaboravano con la giustizia. Quando noi, quindi, andiamo a ricercare l’origine del fenomeno giuridico della collaborazione nel nostro ordinamento, a parte certe norme che già erano contenute nel codice penale nel 1930, si va all’epoca del terrorismo. Cosa si voleva fare e cosa in realtà è stato fatto? Si voleva, in un momento in cui vi erano, nel dopo Moro, delle divisioni – Morucci e Faranda per esempio escono dalle Brigate Rosse – agevolare l’uscita dal gruppo e, nello stesso tempo, mettere un seme di apprensione nei gruppi terroristici. Fu una soluzione di politica criminale molto indovinata che dette vita a quella che è la politica del doppio binario, cioè aggravamenti di pena per chi commette reati di un certo tipo e al tempo stesso diminuzioni per chi, avendo commesso quei reati, si ritira. Dal 1979 bisogna arrivare al maggio 1991, perché questo sistema venga introdotto anche nei diritti di mafia. Ci furono grosse discussioni fra noi che c’eravamo occupati di terrorismo. Falcone si convinse nel 1984, quando incominciarono a parlare Buscetta e Contorni.
Attualmente coloro che sono protetti sono 1000, più circa 5000 famigliari: un paese; fra questi famigliari ci sono un migliaio e più di ragazzi sotto i 10 anni. Si tratta di cittadini piuttosto particolari che ogni tanto ritornano a fare i mafiosi; non è facile, per chi ha vissuto costantemente nel crimine, ritrarsene tutto il giorno facendo parole incrociate o stando davanti alla televisione. C’è proprio un aspetto umano, ci sono state crisi di depressione, ci sono una serie di problemi. Questo grosso paese, così com’è, non è gestibile sufficientemente. Per esempio, non si possono controllare queste persone in modo adeguato. Lo status di collaboratore prevede, attualmente, il diritto ad avere le misure alternative alla detenzione, tali per cui ci sono dei collaboratori, che hanno commesso stragi, omicidi, ma non sono stati nemmeno un giorno in carcere.
Da due anni e cinque mesi è stato presentato un disegno di legge per ridisciplinare questa materia; esaminato, esso ha trovato sul suo percorso degli ostacoli per essere approvato. In sostanza si vorrebbe ridurre il numero dei pentiti, privilegiando coloro che sono arrestati per i delitti di mafia e di terrorismo, e non per altri tipi di imputazione; in secondo luogo possono godere della protezione solo coloro che, con le loro dichiarazioni, danno un contributo forte anche sul piano preventivo, stabiliscono e evidenziano i collegamenti internazionali, i depositi di armi, il riciclaggio. I pentiti dovrebbero dichiarare anche quali ricchezze si sono realizzate attraverso il crimine: impoverire le mafie è, infatti, il problema di chi combatte questa criminalità. Finché queste organizzazioni sono ricche, hanno capacità di rigenerarsi, di attrarre nuove leve in zone che sono colpite da forte disagio sociale.
Il Parlamento, quando ha previsto nel 1996 che i beni che si sequestrano possano essere destinati a fini di utilità sociale, è stato molto saggio. A Corleone, tanto per fare un esempio, Riina aveva fatto costruire una villa, al piano terra c’era il supermercato per riciclare il denaro; ora lì c’è la scuola dell’istituto agrario. Questa è l’altra faccia della giustizia. Quando Dante inventò il contrappasso anticipò di 700 anni questa idea legislativa: utilizzare il bene realizzato con il traffico della droga per recuperare proprio i tossicodipendenti.
L’ultimo aspetto che vorrei sottolineare è l’importanza del contraddittorio nel processo: il collaboratore non può evitare di evitare di rispondere tenendo buono quel che ha detto al Pubblico Ministero. Come mai si dovrebbe credere ad una sentenza di un giudice? Non si penserà che questo giudice abbia in mano la verità? Ci può essere una sentenza perfettamente legale, ma ingiusta, come a seguito di un processo che si fonda su testimoni, tutti falsi, che resistono al contro esame. Quando una sentenza diventa accettabile? Quando si condivide il modo con il quale il giudice è pervenuto alla decisione. Una sentenza è accettabile se si condivide il metodo, questo è quello che importa; e poiché il metodo più affidabile è il contraddittorio, non è giusto che possa essere evitato.