mercoledì 26 agosto, ore 15

IL LUOGO DELL'ARTE

partecipano:

Renie’ Huyghe

membro dell'Académie Franocaise, direttore del Museo Jacques Mart-André di Parigi

Giuseppe Barbieri

docente di Storia della tradizione classica presso l'Università di Udine

Massimo Cacciari

docente di Estetica presso l’università di Venezia

Carmine Benincasa

docente di Letteratura artistica presso l'università di Roma

conduce l'incontro:

Rodolfo Balzarotti

"Portai André Masson, su una sedia a rotelle, nella chiesa di S. Prassede: nella cripta c'è una grande volta blu con mille e mille stelle d'oro. Prese il giallo e un pezzo di giornale che era per terra e fece una stella con il colore giallo. Dissi: "Che hai fatto?" "L'ho portata via da quella volta." "E perché?" "Appena mi ha visto mi ha detto: - Portami via! -. Una volta un amico, prima di morire, mi disse: Ogni uomo può sperare nella sua vita almeno in un giorno di grazia; oggi è il giorno di grazia per me e la stella e ce ne andiamo via tutti e due". (Carmine Renincasa).

R. Huyghe

Il tema di questa riunione ci consente di lavorare su un aspetto fondamentale dell'arte di oggi. In effetti bisogna osservare che un tempo l'arte aveva un luogo universale. Anzitutto era legata alla funzione della Chiesa e alla religione che era l'asse portante della società, perciò era essenzialmente pubblica, legata alla vita più profonda, più centrale dei paese. La chiesa era riempita di sculture, di affreschi, di quadri, di dipinti, di vetrate nelle cattedrali, sicché l'arte era parte integrante di un ambiente naturale. D'altra parte non dimentichiamo che i principi, la classe dirigente contribuiva all'arte, con le facciate dei palazzi, basta ripensare a Firenze o a Siena. Ricordatevi per esempio Luigi XIV e Versailles e non dimenticate ciò che si dimentica troppo spesso, che l'accesso a Versailles era aperto al popolo. Per esempio, chi voleva vedere mangiare il re in tutta la sontuosità della sua sala da pranzo, aveva accesso al palazzo di Versailles. Quindi la vita, anche nelle feste popolari dei villaggi, era mischiata direttamente ad una volontà artistica, con le danze, con la musica, ed è un fenomeno della nostra civiltà che l'arte si è localizzata nei luoghi che sono esclusivamente destinati ad essa. Il museo è veramente una creazione della società moderna e sociologicamente è una creazione che corrisponde alla dominazione della classe borghese. Il grande scienziato Dumezil, amico mio, ha mostrato che fra tutti i popoli indoeuropei esistevano tre funzioni. La prima, quella del produttore, che era il contadino, l'operaio. La seconda, quella del signore, che consisteva nell'essere un uomo di guerra che proteggeva il lavoratore e infine la terza categoria era il prete, il quale orientava la spiritualità della società. lo credo che uno dei maggiori errori dei nostri tempi è stato di rompere questo equilibrio. E' tanto assurdo quanto, in un organismo, voler ricorrere esclusivamente ad un organo. E’ necessario il cuore e quindi si toglie lo stomaco: questa è la logica, in sostanza. Dalla fine del XVIII secolo, lo squilibrio e soprattutto lo squilibrio spirituale, è venuto dalla classe unica: la rivoluzione francese è stata fatta dal popolo, ma spinto dalla borghesia che saliva progressivamente, ed è la borghesia che per tutto il corso del XIX secolo ha assunto esclusivamente il potere. Il pericolo quindi è stato che questa classe ha imposto la propria funzione: e la funzione propria della borghesia era economica e pratica. La classe borghese è comparsa nel momento in cui le città si sono separate dalle campagne e dal produttore e quindi è stato necessario un intermediario, che comperasse il prodotto del produttore e lo negoziasse in seguito. Quindi la classe borghese ha riempito la propria funzione che era pratica, positiva e commerciale, appoggiata ad una banca, quindi appoggiata sulla matematica e questo spiega perché il grande slancio preso dalle scienze fisiche è coinciso esattamente con questa ascesa della borghesia. Nel contempo, poiché la classe borghese dominava esclusivamente, le altri funzioni si sono atrofizzate ed è il pratico e l'utilitario che è venuto a dominare. Quindi c'è stato uno slittamento. L'arte ha avuto dei locali specializzati, cioè i musei, che conosco molto bene poiché io sono un uomo di museo.

Il museo ha un interesse, ed è la conservazione delle opere d'arte, il riconoscimento di queste opere quali opere d'arte, ma ha anche un difetto, che è di isolare l'opera d'arte dalla comunità generale, ed è lo stesso fenomeno che si verifica per la Cultura. La cultura era come l'arte: un'attività naturale. Oggi è divenuta una funzione amministrativa. Per esempio, in Francia abbiamo avuto dapprima un Direttore delle Belle Arti, poi è divenuto un sottosegretario di Stato, cioè un semiministro, e oggi abbiamo un ministro della Cultura. Ebbene indubbiamente tutta questa organizzazione amministrativa toglie le cose dalla vita e le rende oggetto di un'amministrazione che quindi è artificiale, ed è per questo che pur essendo un uomo di museo e pur credendo nella necessità dei museo, per conservare la salute e la sicurezza dei capolavori, io vorrei che ci fosse una civiltà del domani capace di reintrodurre nella comunità quotidiana sia la funzione spirituale che la funzione estetica. Inoltre, il problema del "luogo dell'arte", come si è voluto definirlo, si è ancora aggravato poiché, sotto l'influenza esclusiva dell'ottica commerciale della classe borghese, l'opera d'arte è divenuta essenzialmente un oggetto commerciale.

Posso citarvi due aneddoti. Un negoziante di una galleria d'arte sulla rive gauche, mi raccontò che un giorno uno dei suoi clienti gli telefonò e disse: "Lei dispone di un Matisse?" - Si, ne ho tre - Quale mi raccomanda di più? - Un orientale. - Bene: quanto? Lo compero. Il negoziante dice.- "Quando devo farle consegnare questo dipinto? - Non subito, non ne ho bisogno subito. La chiamerò per telefono quando mi serve". Passa una settimana, passano quindici giorni, niente telefonata. Il negoziante quindi chiede di nuovo: "Non ha per caso dimenticato il suo quadro? - No, non glie l'ho detto, lei me lo tenga finché le farò segno io". Due anni passano e dopo due anni il cliente telefona a questo negoziante e dice: "Bene, e ora quanto varrebbe il mio Matisse? - Beh, è aumentato notevolmente. Potremmo arrivare fino a questa cifra. - Benissimo - dice il collezionista, - allora lo vendo". Quindi significa che ha comperato un Matisse, lo ha tenuto per due anni e lo ha venduto senza neppure vederlo. Questo era un investimento. Potrei raccontarvi un altro aneddoto. Un bel giorno ricevo la visita del presidente di una società che mi dice: "Vogliamo militare per l'arte, e poiché l'arte non è alla portata di chiunque, ci è venuta l'idea di un acquisto collettivo per azioni". Allora dico: "Ma come volete procedere? - La gente ci versa il suo denaro, noi che siamo degli intenditori comperiamo, investiamo quel denaro, e quando si vende suddividiamo in base alle azioni". Ovviamente mi è stato chiesto di entrare nel comitato di onore e altrettanto ovviamente ho mostrato al presidente la porta per uscire senza alcun commento. Questo, vedete, ci dimostra la stessa difficoltà di quella che si sente anche nella Chiesa: per preoccupazione sociologica esistono delle chiese che escludono, poiché la ritengono un lusso, la ricchezza della decorazione della chiesa e quindi la presenza di opere d'arte costose. Ebbene, questa è ancora una preoccupazione economica, a cui oppongo l'esperienza che ho fatto. Un bel giorno in una chiesa di Genova mi sono trovato seduto di fianco ad una vecchietta, ed ho cominciato a chiacchierare con lei perché la chiesa era veramente splendida, e mi disse: "Vede, io che sono così povera passo la mia giornata nella chiesa, perché così posso pregare Dio, ma mi trovo anche in un'atmosfera di splendori che certamente non posso avere nella mia vita quotidiana". Vi ho raccontato questi brevi aneddoti positivi per mostrarvi che è molto pericoloso separare l'arte dalla società, e localizzarla esclusivamente nelle gallerie d'arte, nelle esposizioni, oppure soprattutto da venditori di quadri. Un'altra esperienza nella mia qualità di direttore di museo; al Jacques Mart-André io organizzo due o tre esposizioni all'anno, e ho potuto osservare che il grande pubblico è stato molto attratto da due esposizioni recenti: una era sugli ori di Taranto. Ora sapete che a Taranto non c'è stato il saccheggio degli scavi che è stato fatto per esempio in Etruria, si sono ritrovate ancora delle tombe intatte con tutti gli oggetti preziosi, e che il museo di Taranto è veramente il più ricco in oggetti aurei e lignei. E quando sul mio cartellone ho messo l'oro di Taranto, abbiamo veramente incrementato moltissimo il numero di visitatori. Ho rifatto la stessa esperienza, da poco, con un'esposizione degli orafi degli Zar di Russia, e si è verificato esattamente lo stesso fenomeno. Abbiamo avuto da tre a quattro volte più visitatori che non per un'esposizione di dipinti - forse non se fosse stato Van Gogh, perché Van Gogh ha veramente battuto il record di tutte queste esposizioni di oggetti. Comunque ho voluto brutalmente porre il problema del "luogo dell'opera d'arte", che noi specializziamo e separiamo dalla vita quotidiana. D'altra parte, nelle esposizioni il pubblico viene a vedere piuttosto quello che vale molto, più che quello che è molto bello. Questo ci dimostra che si troviamo in una crisi di civiltà che deriva dal fatto che la funzione spirituale religiosa, estetica, è ora assolutamente attutita, e che non pensiamo assolutamente più a null'altro se non alla funzione economica, il che è veramente uno sviamento dell'arte. La nostra civiltà sopravviverti nel ventesimo secolo solamente se fa una svolta, e se riporta a parità le funzioni pratiche e le funzioni spirituali, ed è questa risurrezione, questo riequilibrio che deve essere l'opera delle giovani generazioni, altrimenti credo che costateremo ciò che Oswald Spengler annunciava già nel 1919, quando prevedeva il declino dell'occidente; quindi a voi giovani tocca risalire la salita spirituale.

G. Barbieri

Vorrei cominciare anch'io con un aneddoto, che però non riguarda la mia vita, è una storiella vecchia e a molti nota probabilmente, anche perché ha dato il titolo addirittura a due libri a mia memoria, forse anche qualcuno di più. Un giorno un rabbino in una comunità del centro Europa deve allontanarsi e trasferirsi in una comunità che dista alcune decine di chilometri, ed è un viaggio che viene considerato pericoloso e impegnativo da parte dei maggiorenti della comunità, che quindi vanno in delegazione da lui per chiedergli se è proprio deciso a compiere questo lungo viaggio, ed il rabbino conferma. Allora questi dicono - ma allora andrai laggiù, come sarai lontano, ed il rabbino risponde: lontano da dove? Gli interlocutori del rabbino presentano un modo egoistico, presuntuoso di considerare lo spazio, è uno spazio che come il tempo giunge a noi e ci considera come perno, ci considera come provvisorio punto di arrivo, ma anche come provvisorio punto di partenza. Si tratta di uno spazio che proprio per questo far perno su di noi è uno spazio che ci riempie di perché, ci riempie di domande ogni qual volta noi ci muoviamo nello spazio. Perché mi muovo? perché vado? perché vengo? perché incontro? e sono questi perché le domande che ci ripetiamo più spesso, non ci chiediamo tanto dove andare quanto perché andare. Questo spazio, uno spazio di perché, esige un certo tipo di tempo, un tempo che è nella nostra immaginazione lineare, parabolico, sia per quello che riguarda la nostra vicenda, sia per quanto riguarda la storia che ci ha preceduto, e che noi consideriamo appunto in rapporto con questo vertice della parabola che siamo noi. Si tratta di un tempo accumulatorio, si tratta di un tempo progressivo, si tratta di un tempo che ci spinge - ed è anche questo un luogo comune della ricerca - ad approfondire, a pensare che è possibile scavare lo spazio. Questo tempo progressivo, lineare, accumulatorio, questo spazio che fa perno su di noi, è alla base, credo, della concezione museale moderna, ma fin dalle proprie origini, fin dalla galleria, che nel modo stesso di costruire lo spazio presenta uno spazio lineare, uno spazio in cui le opere iniziano disponendosi attorno ad un nucleo, ad un periodo che è quello d'inizio della collezione, e che poi devono dare ragione di ciò che precede e di ciò che segue per confermare, tutto sommato, la validità di una scelta che è avvenuta in un momento, in un luogo, per confermare quindi questo tempo e questo spazio che fanno perno su di noi. Il museo quindi diventa un deposito e una manifestazione, un'immagine dei tempo, che ci fa perdere quello che era il suo valore originario, la sua valenza anche semantico-originaria. Il museo, come sapete tutti, nasce come casa, come luogo in cui muoversi, in cui spostarsi, in cui vivere insieme, in cui intrecciare dei rapporti e non invece come un tempo bloccato, un tempo da vedere. C'è stato prima, ma anche durante il museo, un altro modo di intendere lo spazio e un altro modo di intendere questa casa in cui passare, da attraversare, ed è la chiesa. A differenza del museo come spazio di successioni temporali, la chiesa è uno spazio di contemporaneità. Pensate a tutte le chiese che volete, magari non alle più recenti o non a tutte le più recenti: io ho in mente adesso la Basilica di San Clemente a Roma, dove voi vedete oggetti che occupano un arco temporale di oltre un millennio e però palpitano per la loro contemporaneità; dove la cappella di Ma- solino e soprattutto di Masaccio è in un dialogo continuo e costante con i frammenti paleocristiani: con questo altare che scende e che copre due terzi della navata. Oppure la chiesa di Santa Corona, che è il museo più bello della città di Vicenza, e anche lì ci sono delle opere, dal Battesimo di Cristo di Giovanni Bellini all'Adorazione dei Magi dei Veronese agli affreschi che sono stati scoperti da pochi mesi di Michelino da Besozzo, e opere ancora più antiche, tra le quali si stabilisce un dialogo all'interno di uno spazio che non è di successioni, che non è progressivo, che non è accumulatorio, ma che è uno spazio di come, di modi di porsi e di essere, in uno stesso momento, in uno stesso tempo. La chiesa può esserlo perché la chiesa è esempiata su quel fondamentale 'come', che è il Cristo. Se voi osservate, e probabilmente lo avete osservato anche più di me, se voi percorrete il Vangelo, Cristo non dice mai "perché", o meglio lo dice un'unica volta il Venerdì Santo attaccato alla croce ed è nel momento in cui si è fatto carico di tutti i perché del mondo, di tutti i peccati del mondo, quando dice, quando grida - sono le sue ultime parole - : "Perché mi hai abbandonato?". Ma altrimenti tutte le sue parole sono sempre giocate su un come. Tutto il suo modo di dire, la novità del regno non è mai perché: non "fate questo perché", ma "come ho fatto io fate anche voi". Cristo, ancora nella concezione ebraica - e quindi volevo ricollegarmi a quella storiella iniziale - è un Dio che cammina con noi, ma non per andare avanti, non per segnare uno spazio che sia preciso, misurabile: prendo soltanto una pagina che però mi sembra molto significativa. Se voi avete presente la parabola del buon samaritano, voi vedete che chi cammina diritto, che chi ha una strada da percorrere, un meta da raggiungere, dei perché che porta lungo il cammino, non si ferma, non si guarda attorno e lo stesso avviene quando noi visitiamo le sale ordinate di un museo, ma è un’esperienza che difficilmente possiamo compiere all'interno di uno spazio come quello di una chiesa. Il museo è un luogo chiuso, è un luogo segreto, l'origine del museo è lo studiolo del principe, il primo germe della collezione è questo luogo rinserrato che non deve dialogare con l'esterno, che dev'essere separato dall'esterno. Invece la chiesa richiede, anche urbanisticamente, il dialogo con la realtà esterna. L'errore di epoche anche vicine alla nostra, è quello di avere deformato l'esterno della chiesa che è l'unico strumento all'interno della città che la rende leggibile, comprensibile, visibile. Trasformare la chiesa in un monumento significa trasformarla in museo, significa renderla segreta, significa renderla "fuori", in uno spazio diverso da quello nostro. A queste due logiche espositive io credo che corrispondano radicalmente due logiche, purtroppo il tempo è breve e non posso che nominarle: allo spazio del "perché", allo spazio del museo corrisponde sicuramente la conoscenza della storia, che è sempre legata, secondo quello che dice il mitologo francese Marcel Detienne, a questo desiderio dell'autopsia, di essere presenti, di vedere il momento in cui avviene, ma il momento che è posto all'interno di una linea di momenti. Lo storico sceglie di vederne uno, di fare l'autopsia di un momento, come può fare l'autopsia di un periodo. L'altra logica invece, è un modo geografico di conoscere la realtà che non consideri le successioni, le linee che fanno sempre perno sulla nostra vita, ma gli spazi in cui viviamo, in cui coesistono le contraddizioni. La storia non può - se lo fa, finge di farlo, in realtà - accettare le contraddizioni, mentre se voi entrate in una chiesa romanica che è stata poi rilavorata nel Rinascimento e ancora lavorata nel Barocco e ancora più avanti, voi vedete che le contraddizioni coesistono. Sarebbe impossibile vedere la sala di un museo con dieci opere provenienti da dieci epoche diverse, perché uno si chiederebbe se l'ordinatore di quella sala non sia un ubriaco e lì vedete invece la successione degli approcci, la successione che fa sempre perno su noi che camminiamo per quelle sale. Non credo quindi che il museo rappresenti soltanto la volontà di conservare la conoscenza dell'opera d'arte; ciò che si vuole conservare è un certo tipo di conoscenza che non riguarda soltanto l'opera d'arte, ma più in generale tutta la realtà che noi viviamo. Questo non significa naturalmente negare il ruolo del museo come clinica, come deposito in cui curare le opere d'arte che ne hanno bisogno.

Però credo che bisognerebbe porsi seriamente il problema di vedere se non sia possibile costruire e rendere sempre più efficace un museo clinica e uno spazio organizzato in maniera diversa che ci consenta di compiere dei percorsi mentali che non siano obbligati, che non siano puntati sul riconoscimento di ciò che già noi sappiamo. Certamente pesano le logiche che prima Huyghe ha evocato, che sono quelle del mercato, che sono quelle dell'opera d'arte come oggetto di investimento e di commercio. C'è una rassegnazione poi per quella che è la destinazione finale di queste opere. Un'artista si augura di poter andare a morire nella casa delle muse, che però resta un luogo di morte, resta un luogo dove sia possibile conservare. Qualcuno cerca di farlo già in vita: qualcuno ostinatamente si offre al museo. Occorre che l'artista contemporaneo, che gli artisti contemporanei, pensino molto più liberamente che in questo recente passato, in questi ultimi due o tre secoli, allo spazio della propria opera. Però non devono essere soli: io credo che anche gli storici, i critici, gli archi- tetti, debbano ricominciare a pensare dei luoghi che non siano cimiteriali, successioni di loculi, ma che colgano la maggiore flessibilità dimostrata molti secoli prima, in certi casi anche ai nostri tempi, dell'architettura religiosa o da altri tipi di architettura che non siano quelli specifici segreti del museo.

M. Cacciari

Ho sentito con molto interesse la relazione di Barbieri che condivido molto e pensavo che è molto paradossale che, quelle che, come cercherò di dire ora, mi paiono le forme artistiche meno musicali, cioè quelle contemporanee, si accompagnino allo sviluppo così prepotente e così apparentemente irreversibile di questa forma mortuaria di esposizione dell'opera stessa. Forse questo paradosso fa parte del destino comico dell'arte contemporanea. Le ultime pagine della più grande opera di estetica degli ultimi secoli, l'estetica di Hegel, si concludono proprio con questa immagine della irreversibile comicità dell'arte contemporanea, dell'arte a venire. Cosa vuol dire comico? In gran parte si riprendono temi che voi avete già ascoltato nelle precedenti relazioni: comico, propriamente parlando, è tutto ciò che pur essendo parte, pur essendo parzialissimo, presume di potersi presentare come un intero. Ciò è l'origine del comico: ciò che fa ridere è precisamente un relativo, un assolutamente relativo che si presenta come un assoluto. Non è un po' il destino, parrebbe, dell'arte contemporanea? Hegel, che se ne intendeva un po' più di noi, rispondeva positivamente a questo quesito. Il destino dell'arte contemporanea è precisamente questo. L'arte contemporanea e gli artisti contemporanei si sono divisi, per vari motivi che sarebbe qui troppo lungo dibattere, da quelle comunità, da quelle totalità a cui appartenevano, sono diventati degli assolutamente relativi, delle parti, eppure pretendono ancora di presentare le loro opere come aventi un significato assoluto. Questo è comico. Cioè, per dirla più propriamente, sulla base di questa decisiva indagine sul destino dell'arte contemporanea, ogni forma artistica che non sia religiosamente coordinata in una totalità simbolica, in un contesto simbolico, è comica per definizione. Diciamo di più: ogni forma di rappresentazione - anche le parole che io adesso vi sto dicendo, nella misura in cui io vi sto parlando come questo povero singolo che non rappresenta nessuno altro che se stesso - è comica. Io credo che egli avesse perfettamente ragione, che noi siamo precisamente i comici rispetto alle epoche, all'età precedente. Vi è tuttavia qualcosa che non ritengo affatto che egli abbia capito.

Ronault e altri artisti contemporanei, cosa mostrano a differenza di Hegel? Da un lato testimoniano questa diagnosi e cioè che siamo destinati ad essere quei singoli, a parlare a nome nostro, azzardando molto ipoteticamente di volta in volta di captare pensieri altrui, e questo è il destino di noi contemporanei. Dall'altro quello che Hegel non vedeva assolutamente era la nuova, diversa e forse assai più profonda forma di spiritualità - non userei più il termine religiosità, per i motivi che adesso cercherò di spiegare - che proprio questa forma di rappresentazione, questa forma comica di rappresentazione suscita, provoca. Hegel, sulla base di quella diagnosi, parlava poi di morte dell'arte, un'arte non religiosa è un'arte che muore: che questa morte duri secoli o duri un istante è lo stesso dal punto di vista teorico, non è che Hegel profetizzasse quando sarebbe avvenuta la morte dell'arte, cioè la totale insignificanza della forma di rappresentazione artistica. Ma non è questo il punto che ci deve interessare: quello che ci deve interessare, se vogliamo uscire dall'alternativa tra un'accettazione disincantata e cinica della situazione prima descritta dagli interventi che mi hanno preceduto, e una qualche forma nostalgica (che sono due facce della stessa medaglia), il vero problema che dobbiamo porci è se proprio questa essenziale comicità della rappresentazione artistica contemporanea non abbia al suo interno un tesoro. Un aurum non dei volgo, non ignobile, un tesoro, un aurum di spiritualità; che ci mette in questione ancora più radicalmente delle grandi forme artistiche precedenti, che consistevano, cioè stavano - con quelle totalità simboliche di cui prima abbiamo ascoltato che avevano la loro chiesa, che appartenevano ad uno spazio sacro: questa è la domanda che dobbiamo porci. Al di là di questa domanda c'è nostalgia per gli spazi passati oppure il cinico disincanto del mercante che, senza vedere i suoi Matisse, li vende e li rivende. Questa è la domanda. io ritengo che a questa domanda possa essere risposto positivamente a patto, appunto, che ci intendiamo su che cos'è l'arte contemporanea. Intendendoci su questo, ci dobbiamo intendere su tante altre cose, ivi comprese cose che voi qui presenti forse riguardano molto più direttamente di quanto non riguardino le forme e i problemi della rappresentazione artistica. L'arte contemporanea è sicuramente irreligiosa nel senso etimologico del termine, cioè l'arte contemporanea non crede all'affidatezza del reale, non si fonda su una realtà presupposta, sia essa una realtà empirica, sia essa una realtà simbolica. L'arte contemporanea non crede: non crede cioè a nessuna immediatezza, è arte della mediazione, non è arte di una fede immediata, non è arte di una fede religiosa nel senso etimologico del termine, cioè che possa collegarsi immediatamente a qualche cosa di esterno a sé, che essa testimonia. Ricordate il grande dipinto di Van Eyck, I coniugi Arnolfini? Ebbene "Johannes de Eych fuit hie", non fecit hoc. "Fu lì": il pittore testimonia prima ancora di fare, apre un sipario, toglie un velo, e ciò che è reale appare, aletheia, si scopre dal suo nascondimento e splende, si dà: verità, realtà. Il pittore testimonia: fuit hic, é lì, è stato lì, ha visto ciò che termina e tutto in quella rappresentazione è fidato: fedele è l'uomo, perfetta- mente fedele, e la donna, che è speranza, spera nella fede dell'uomo, secondo un legame simbolico assolutamente tradizionale, teologicamente fondato, che dà il contenuto simbolico di quella rappresentazione che apparirebbe altrimenti profana. Ebbene, tutto ciò non è dato nell'arte contemporanea e sarebbe vano cercarlo. Non vi è fede in qualcosa che si dà, sia alla mente, sia ai sensi, qualcosa che possa essere creduto come un fondamento esterno: non si dà fede in un fundamentum inconcussum, ma è questa l'unica forma di fede? Se questa è l'unica forma di fede, è escluso che voi possiate capire l'arte contemporanea, e avete come unica alternativa "la speranza nel ritorno al capace grembo delle antiche chiese", come diceva un sociologo che amo. Se vi è altra forma di fede, allora è possibile comprendere la profonda spiritualità, o per usare un termine ancora più impegnativo, il carattere radicalmente mistico dell'arte contemporanea: perché cosa é la grande mistica se non esattamente questo?

Quando parlo di grande mistica, non intendo qualcosa che si differenzia dogmaticamente dalla grande tradizione teologica, anche dalla grande scolastica. Basta leggere e commentare Dionigi e si vede quanto di mistico vi è in Tommaso D'Aquino. Cosa significa mistico in questo contesto? Significa appunto non poter credere in enti: questo è l'atteggiamento mistico, distaccarsi. L'atteggiamento mistico significa: la mia fede non è mai fede fondata su enti, io devo liberarmi dall'ente, anche dall'ente sommo, io non mi posso arrestare, nella mia indagine, nemmeno di fronte all'ente sommo perché ancora ente, devo andare oltre. Cusano: fin tanto che vi è qualcosa, fin tanto che vi è una luce, io so che non posso essere in Dio. 0 meglio, che sono soltanto nel Dio concepito come ente sommo e quindi non posso arrestarmi: soltanto quando sono "in tenebrosis" dice Cusano citando un passo biblico, soltanto "in tenebrosis" io posso iniziare il mio colloquio mistico. Il Quadrato nero su fondo nero di Malevitch, il segno che sembra radicalmente aver niente a che fare con la nostra tradizione spirituale - teologica dell'arte contemporanea, quel nulla di Malevitch è leggibile soltanto in questa chiave simbolica. Questi autori dell'arte dei '900 vanno letti non come una deriva della secolarizzazione, non come un vaniloquio dei frammenti, delle mode, a cui è ridotta questa povera arte contemporanea che invece è una grande avventura dello spirito, grandissima: perché? per questo motivo, appunto: perché è la prima volta, nella storia della rappresentazione Europea occidentale, che la rivoluzione, la rnetanoia, non avviene tra forma e forma del rappresentare, (e naturalmente qui andrebbe tutto distinto, queste sono ipotesi generali), non è fondamentalmente, come è sempre stato, rappresentazione che succede a rappresentazione.

Quelle che a me, anche dal punto di vista estetico-filosofico, interessano di più, perché sono le più radicali, (ma dovrebbero interessare anche voi perché sono le più radicali, dal punto di vista spirituale) non sono le tendenze tardo-figurative: sono Malevicth, Mondrian, Klee.

E’ qui che trovate appunto la comica drammaticità, tragicità dell'arte contemporanea: chi non riesce a sentire insieme questi due suoni non può capire l'arte contemporanea. Se non hai l'orecchio per capirla, non c'è niente da fare, perché l'orecchio te lo dà solo lo Spirito Santo, non puoi acquisirlo, puoi educarlo. Che cos'è questo elemento? Si tratta dei paradosso di cercare di rappresentare questo interrogativo fondamentale: perché la rappresentazione? Questa è l'arte contemporanea: perché la rappresentazione? Non questa rappresentazione al posto di quest'altra, ma come un momento di epoche, di arresto, di dubbio, di interrogativo radicale. Ma questo interrogativo radicale non deve risuonare anche all'interno di una testimonianza di fede? Che cos'è una fede che non si indaga? "Rapimur amore indagande veritatis", questo dice e ripete centinaia di migliaia di volte Agostino: siamo rapiti dall'amore della verità che va indagata. Anche quando sono di fronte alla verità quella verità va indagata, se no, dicevano i grandi scolastici, è fede negligente, non è vera fede. La fede cristiana è fede che si indaga, è fede di indagine. Così bisogna cercare di intendere e di leggere a mio avviso l'arte contemporanea, cioè, come, ancora una volta, il comico tragico tentativo di rappresentare questo stupore. Qui veramente c'è una vicinanza tra filosofia e arte contemporanea, tra vera filosofia e arte contemporanea. Nascono entrambe dallo stupore: dallo stupore per che cosa? Dello straordinario, del meraviglioso? Niente affatto. Dallo stupore del più quotidiano, dal fatto che c'è qualcosa, che qualcosa c'è, che c'è una rappresentazione, che qualcosa appare e questo è straordinario, e questo è gratuito. Allora il problema dell'arte contemporanea diviene quello della rappresentazione stessa, ma non soltanto perché vuole ridursi, come certi interpreti hanno detto, alle linee analitiche, non soltanto per ridursi segnoticamente al segno. Non ha a che fare con l'estetica di Umberto Eco, l'arte contemporanea: ha a che fare appunto con questi interrogativi di carattere teologico, di carattere spirituale, e soltanto da questo punto di vista l'arte contemporanea può essere avvicinata. Allora ecco perché, sentendo i primi interventi, mi dicevo: "Com'è strano, com'è paradossale, com'è comico questo destino, che ciò che dubita di ogni ente, ciò che è rapito dall'amore di indagare la stessa verità che ha trovato, sia ridotto ad un museo: questo è comico". Ma questa comicità va non supinamente accettata, negligentemente accettata: va interrogata in tutto il suo spessore sia di segno che di tradizione, che di pregnanza simbolica.

C. Benincasa

Voglio donare a Cacciari, ti regalo, a proposito dello stupore, questi versi di un mediocre, malinconico poeta che è Gozzano. Dice: "Stupito, di che? delle cose". Mi piaceva donarti questi versi. Quando anni fa ebbi l'avventura di inciampare nella storia, nella vita, nella parola di Don Luigi Giussani, per cui mi trovo come la maggior parte di voi prigioniero di questa comunità ciellina, gli chiesi immediatamente quali erano le letture del '900 preferite, e mi disse subito Peguy e Eliot. Ed è sul tema del luogo dell'arte che io vorrei citare, quasi per avallarmi nella mia insicurezza, due cose di Eliot: "A questo serve la memoria, a liberarci". "Non meno amore, ma un'espansione dell'amore al di là del desiderio". t così la memoria è la liberazione definitiva dal futuro come dal passato. E invece il museo è diventato il luogo della memoria dove noi siamo caduti nella trappola della prigionia. Il valore più alto che la storia ha tentato sempre di custodire e valorizzare è, per esempio, l'Arca Santa. Eppure l'Arca Santa poteva abitare ovunque, perfino nel deserto sotto una tenda, e bastava un vento, un uragano e la portava via. Ci provò così quell'astuto figlio di Davide e Betsabea che era Salomone, che si diede a consacrare la vita per costruire il tempio di Gerusalemme. Ma, strano destino, quando edificò il tempio gli israeliti furono divorati da mille religioni pagane. E lo stesso re Salomone all'improvviso adorava cento divinità. Quando si edifica sul luogo il luogo dell'eterno e si vuole rendere l'effimero eterno, in quel momento Dio disperde i superbi negli intenti dei loro cuori. Allora dovevo parlare e valorizzare il tempio dei luogo, il museo, e badate non sono affetto dal complesso di Erostrato che, per rimanere famoso nella storia, non esitò a incendiare il tempio di Artemide. Non sono affetto da manie devastatrici, sono soltanto affetto dal recuperare le briciole della libertà che ci hanno tolto, e come l'hanno tolta a noi l'hanno tolta a questa creatura che è l'opera d'arte. Immaginate voi che dopo nove mesi di gestazione nasca il grande valore della vita nel grembo di una donna, e per custodirlo e proteggerlo dai grandi pericoli della sofferenza e della morte lo rimettiate nella pancia e nel ventre della madre che lo ha partorito. Non è passato molto tempo, credo una settimana, che la televisione italiana ha dato un film che si chiama Mannequin.

Si tratta della storia di una modella che ne ha combinate di tutti i colori, che però vagola cercando una tenda di conforto, qualcuno da accarezzare e da cui essere accarezzata, uno specie di dondolio dove rannicchiare la sua personalità, un nido ove poggiarsi, ove confortarsi e fortificarsi per un attimo, una storia d'amore. Ma tutto era invece una zattera alla deriva, tutta era la sua memoria, e non la trovava. Voleva coniugare il rigore nel lavoro di mannequin e l'affettività, l'emotività e la razionalità, l'impegno e l'abbandono, la disciplina con il cuore. Voleva coniugare il delirio dei mistero dell'amore con gli imprevedibili capricci che si sfracellano ogni istante sugli scogli della finitudine, del limite, dell'impotenza e del desiderio. Di quel tentativo più tentante che consacra pur sempre la storia dell'uomo al destino, e non c'è scampo al destino dello scacco e del fallimento. Perché il destino dell'opera d'arte è uguale al destino della vita dell'uomo; Celia, nella commedia Il Cocktail Party di Eliot, va da Reilly e dice, sfracellata dal pianto: "lo sono stanca, stanca della vergogna di non trovare mai. Potete guarirmi?" Ecco, questo è il destino dell'uomo. E’ stanco di cercare e di non trovare, ma nessun giardino lo raccoglierà, deve andare. Cacciari e Barbieri dicevano - deve andare verso l'altrove. Huyghe si è fatto invece profeta di quella clinica dell'opera d'arte che è il museo, ma clinica deve rimanere, non luogo di danza, né giardino dei misteri. Il destino dell'opera d'arte è cercare un luogo ove coabitare con il tempo presente, un tempo però di miseria, e con la stagione dell'attesa, perché non c'è scampo, l'opera è come la vita, una zattera alla deriva. Ed è qui, dentro questo destino di deriva che bisogna riappropriarsi del progetto della storia e della salvezza. E’ il suo destino perché tanto simile a quello della condizione umana. L'opera, con o senza i musei, sarà portata via dalla polvere del tempo e dalla pattumiera di quegli spazi ciechi che i nostri grandi architetti così sapienti dello spazio si affaticano ad edificare, non rendendosi conto che quando venivano edificate le catacombe era per necessità di salvare la vita, mentre questi spazi museali sono già diventati dei facili labirinti e delle catacombe soffocanti. L'opera non si occulta, si rivela, questo è il destino. L'opera non si custodisce, non si protegge, l'opera deve compiere il suo destino nel mondo, deve naufragare come una scheggia di eterno nel tempo del limite dell'uomo, deve testimoniare che lì è giunta la soglia ultima della coscienza umana, perché la cultura è divenuta all'improvviso, in certi momenti, nodo, giuntura e centro della storia. Certo, la clinica è necessaria, ma come fuggiamo volentieri dalle cliniche! I medici li chiamiamo, ma come ci impauriscono! L'opera va curata, va coltivata, va difesa, va custodita, va portata nella carezza di templi, ai figli e ai figli dei nostri figli, al nostro futuro. Tutto questo va fatto, non c'è dubbio. Persone sapienti come Huyghe da tempo sono testimoni, ma è con molta malinconia che io lascio a loro il carisma di questo servizio. Con molta malinconia, perché ancora non voglio arrendermi alla sapienza di chi deve custodire la libertà ovattandone la prigionia. L'opera deve essere curata, ma non va archeologizzata come un reperto preistorico, investito di ansie maniacali di tipo feticistico. Questo è il paganesimo. L'opera d'arte vuole abitare il deserto e il suo silenzio, ma il suo destino è quello di abitare il mondo, questo è il suo deserto. Deve lasciare i monti di Penuel come Giacobbe, che dopo aver lottato tutta la notte contro l'angelo, se ne andò con l'anca rotta. Allora si rompa anche un po' l'opera, ma continui ad andare nel mondo, a vivere tra di noi, e non sia nei musei per catechizzarci o sodomizzarci, ma piuttosto si faccia vento di carezze e mantello di possibilità per una nuova speranza per tutti noi. Il museo la deve nutrire, la deve custodire, la preserva da degradazioni, incurie vandaliche, da ansie di possesso, ma essa va sempre verso l'altro luogo, verso l'altra scena, verso quell'altrove che non è solo il mistero, è il mistero qui tra di noi. Chi cura, che vanta la proprietà dell'opera, ha maggiori responsabilità, ha maggiori compiti, ha ulteriori impegni, perché deve avere anche la capacità di farsi regi sta di situazioni politiche intente all'ansia e alla domanda di quei paesi, di quelle città, di quelle nazioni, di quei popoli che invocano e mendicano l'opera d'arte che non hanno, l'opera d'arte deve essere pellegrina. Le opere d'arte le attendono il mondo, i popoli, le società umane, il destino della vita: per questo io supplicherei i responsabili della politica museale di non soffocare, né abortire la vita, piuttosto di generarla, ponendola davanti agli occhi di tutti e mai sotto vetro come un soprammobile di porcellana. Il potere politico sarà complice per omissione di atti d'ufficio e per omertà, se si rifiutasse di scegliere e decidere i gesti di politica internazionale in campo di prestiti, perché minacciato ricattato e paralizzato da pareri tecnici scientifici. I tecnici tendono a costituirsi ormai in clan o in centri di potere con l'astuzia di dovere, per compiti scientifici e professionali, proteggere e custodire la memoria delle nostre radici. Ma se la memoria è senza libertà, è menzogna.