C’era una volta la banca per il popolo...

Giovedì 28, ore 18.30

Relatori:

Giuseppe Guzzetti, Presidente Fondazione Cassa di Risparmio delle Province Lombarde

Giovanni Bazoli, Presidente del Banco Ambrosiano Veneto

Luciano Chicchi, Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini

Antonio Silvano Andriani, Consigliere della Banca Monte dei Paschi di Siena

Giuseppe Vimercati, Vice Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio delle Province Lombarde

Bazoli: La banca per il popolo è la banca nata dal basso per soddisfare le esigenze della società e in particolar modo delle comunità locali. La tesi sottintesa al titolo ("C’era una volta...") è che una volta era così, ora non più. Si è forse verificata una rottura di quel legame tra la banca e la società: se è così, quali prospettive si hanno di rilancio per il futuro?

Per affrontare queste prospettive occorre compiere un esame introduttivo di carattere storico e chiedersi quale sia stato il rapporto tra le banche e la società civile del nostro paese in passato e come è venuto modificandosi nel tempo questo rapporto. Quali trasformazioni sono intervenute nel nostro sistema bancario, non in se stesso - questo è un tema abusato, perfino banale - ma nel suo rapporto con la società?

L’origine delle banche italiane, da quelle più antiche a quelle più recenti, ha quasi sempre visto la società civile nelle sue varie articolazioni protagonista delle iniziative tese a organizzare operatori del mondo del credito. Dunque in generale si può dire che le banche sono nate dal basso, quasi sempre dal seno di comunità locali, di organizzazioni sociali, di categorie economiche. Per limitare il tema vorrei fare alcuni cenni che si riferiscono al periodo che è stato molto fecondo di fine ’800 e più precisamente al periodo che va dal 1890, la prima industrializzazione italiana, fino alla prima crisi dei sistemi capitalistici dei primi anni ’20 di questo secolo. In questo periodo si è verificato un fiorire di iniziative da parte del mondo cattolico e non solo cattolico; cooperative, casse rurali, casse operaie, banche popolari, banche cattoliche. Tre fondamentali ordini di motivazioni hanno portato al nascere di questi istituti: la prima è quella di aiutare lo sviluppo di iniziative che erano portate avanti da categorie allora prive di capacità di ricorso al credito; la seconda è quella di destinare mezzi finanziari al sostegno di opere benefiche - assistenza, istruzione e così via -, mediante la destinazione di una parte degli utili (il che vuol dire con parziale rinuncia da parte degli azionisti) che rappresenta una evidente anticipazione di una delle forme in cui si manifesta oggi la cosiddetta finanza etica; la terza motivazione è di corrispondere ad esigenze e interessi di comunità locali. La distinzione tra pubblico e privato non aveva allora quel significato di contrapposizione che ha assunto successivamente. Si potrebbe fare una rassegna molto nutrita di banche nate in quel periodo: Banco Ambrosiano, Banca Cattolica del Veneto, Credito Bergamasco, Banco San Marco, Banco di Roma, Credito Romagnolo, Banca Antoniana, Banca di Desio e Brianza, Banco di San Gimignano, le varie Casse di Risparmio (salvo la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde che era nata già nel 1823 per iniziativa di quella che allora era la commissione centrale di beneficenza).

Da allora è possibile sinteticamente evidenziare due fattori di cambiamento: un fattore involutivo e uno che è invece un fattore di sviluppo. È una involuzione quanto è avvenuto nel settore pubblico: una svolta decisiva è certo quella che si è verificata in occasione della crisi degli anni trenta, con il passaggio in mano pubblica di molte banche private che erano in difficoltà. La mano pubblica era intesa allora come mano statale, sia pure indiretta, con spostamento dell’equilibrio del sistema a favore del pubblico. Questo ha coinciso con un mutamento del quadro generale istituzionale e politico; pensiamo alla legge bancaria, ad un potere di controllo che è diventato sempre più un potere centralistico e di direzione: il significato stesso di pubblico è cambiato, perché è diventato un pubblico in senso soggettivo, statale come potere centralistico. Questo in gran parte è successo anche per le Casse di Risparmio, con la deformazione ulteriore che ciò che è di interesse e rilievo sociale, e che in gran parte era portato avanti da banche private, è stato rivendicato come propria caratteristica e come propria prerogativa dallo Stato. Così, per essere concesso ai privati, doveva essere oggetto di autorizzazione. Su questo terreno negli ultimi decenni si sono verificate ulteriori deformazioni: la partitocrazia con conseguenti fenomeni di corruzione, la burocratizzazione delle banche, con perdite gravi di efficienza, la clientela ridotta molte volte a sudditi. Ciò che si è verificato è in sostanza che la società civile non è più protagonista delle banche, ed è qui la ragione della impopolarità che caratterizza in questo momento le banche nel nostro paese.

Un secondo fattore di trasformazione, questo positivo, è stato l’affermarsi inesorabile anche nel mondo del credito di una logica di mercato, imperniata sulla ricerca della massima efficienza e produttività. Questo diverso fattore negli ultimi tempi ha assunto una collocazione ancora più marcata: la globalizzazione dei mercati. L’effetto di questo sulle motivazioni che avevano portato al nascere degli istituti molto attenti agli aspetti sociali è stato prima di tutto mettere ulteriormente in crisi quella motivazione di cui ho parlato prima, la simbiosi tra società civile e credito attraverso il legame con il territorio, motivazione che fu compromessa dalla deformazione in senso statalistico. Le banche tendono a crescere e quindi evidentemente a perdere le caratteristiche originarie.

Questo secondo fattore ha prodotto una conseguenza sulle motivazioni delle banche cattoliche di sostegno alle opere benefiche, la cosiddetta beneficenza. Il pay-out cioè la distribuzione degli utili ormai deve essere adeguata da parte di tutte le banche che si confrontino in un mercato globale e in Borsa. Quindi la distribuzione dei dividendi deve essere tale da ridurre sempre di più la parte destinata alla beneficenza. Se a questo si aggiunge che il credito oggi è offerto, anche questo può essere considerato un fattore positivo, sembrerebbe di doversi chiedere se ormai la logica, l’impostazione dominante anche per il settore del credito non debba essere quella puramente tecnica, economicistica, con una sorta di omologazione alle altre imprese.

Vorrei avviarmi alla conclusione sostenendo che non è così, che le banche non sono separate dalla società e che non in tutto sono assimilabili alle altre imprese. Le cose stanno diversamente se noi sappiamo cogliere alcuni segni che tendono a indicare uno spostamento di baricentro. Il baricentro del legame con la società, con il territorio, con le opere benefiche oggi rientrante nel mondo vasto del non profit, si sta spostando dall’azienda bancaria ai suoi azionisti. Già banche private si erano orientate così: ad esempio, il Credito Valtellinese, da una società che non distribuiva utili, non profit, si è trasformata in una società che distribuisce utili ad azionisti facenti parte della fondazione.

Questo quando è avvenuto? Come si sta verificando? la svolta decisiva è stata la separazione tra aziende bancarie e fondazioni per le banche pubbliche. I giuristi hanno giudicato questo passaggio in modo diverso, si è riscontrata anche una discontinuità giuridica dalla situazione precedente a quella successiva, ma questo ha portato grandi vantaggi, perché ha aperto una strada molto feconda: innanzitutto il vantaggio di rendere sistematiche quelle politiche di erogazione di fondi che prima erano discrezionali, rimesse agli amministratori, episodiche, legate quasi sempre alle domande. Nelle banche pubbliche inoltre prima questa distribuzione di utili non giocava certo a favore dell’efficienza perché in realtà erano gli amministratori delle banche a decidere quale pay-out, cioè quale parte degli utili dovesse essere distribuita alla beneficenza. Ed erano utili molte volte marginali, che come tali determinavano anche una distorsione della concorrenza nel sistema.

Questo è un vantaggio che si può verificare per effetto della territorialità: il legame doveroso col territorio dovrà essere garantito proprio in questo modo. La banca è senza confini ma le fondazioni statutariamente devono essere legate al loro territorio. Per questo, il rapporto tra la banca e i suoi azionisti è destinato a diventare il nodo centrale per lo sviluppo futuro del sistema bancario, sia in generale sia in modo particolare per quanto riguarda il recupero del rapporto con la società. La presenza della fondazione può assicurare un fecondo rapporto tra azionisti e banche proprio nell’assicurare e ricostruire un legame con la società. Stante la prospettiva di questo spostamento di baricentro dalla banca agli azionisti, la banca non potrà esimersi dal ricercare forme nuove di collegamento con la società. Da questo punto di vista vi è un aspetto positivo anche nell’atteggiamento nuovo della cultura laica e della scienza economica che sempre più riconoscono l’importanza di un’etica negli affari e nella finanza.

In che modo la banca potrà direttamente acquisire nella sua attività, nella sua gestione forme nuove di promozione di valori civili, di attenzione e sostegno ad opere benefiche assistenziali e di istruzione? Questo è tutto un campo da inventare. Le categorie produttive possono ormai tutte accedere al credito bancario, ma ci sono altre esigenze del tutto nuove, ed è appunto il tema della finanza etica nel mondo e in Italia. Tema affrontato attraverso le forme dei conti etici, addirittura delle banche etiche. Attraverso questa strada la società civile deve tornare ad assumere iniziative nel campo del credito, tornare ad essere protagonista. È questa la ragione per cui io sono ottimista: credo che dopo le recenti svolte e di fronte a questi nuovi fermenti si possa essere fiduciosi sulle nuove prospettive e in particolar modo si possa ritenere che quel rapporto fra banche e società, che occorre riconoscere essersi interrotto, può essere rilanciato.

Chicchi: Il mio intervento sarà purtroppo molto più pessimista, perché ho la sensazione che in questo momento storico alcuni valori importanti che la società civile della seconda metà dell’800 aveva, valori legati all’esigenza di dar vita a realtà in diversi settori per arricchire e per sostenere il tessuto civile ed economico, si siano affievoliti. Soprattutto mi sembra non ci sia né da parte del Parlamento e degli uomini politici, né da parte dei gruppi dirigenti, la sensibilità a esperienze importanti come le Casse di Risparmio, o alle differenza specifiche interne al sistema bancario italiano.

Per questo siamo impegnati a fare una battaglia dura e pesante per difendere non tanto le Casse di Risparmio - che sono un’istituzione - ma quei particolari elementi che le hanno sempre caratterizzate: il profondo legame col territorio e il profondo legame con gli azionisti che operano e lavorano gratuitamente per il bene comune. Questi sono i due valori che oggi noi vogliamo e sentiamo l’esigenza di riaffermare con grande forza perché costituiscono la specificità delle Casse di Risparmio.

Mi sembra da questo punto di vista significativo il fatto che la legge Amato obbligasse le fondazioni a detenere il 51% del pacchetto azionario. Questo da un lato garantiva il legame e l’attenzione al territorio e dall’altro dava la possibilità a queste banche di agire con la capacità e con l’efficacia che il mercato, soprattutto il mercato globale, oggi esige.

Nelle Casse di Risparmio non devono essere mantenute le piccole poltroncine o i piccoli poteri: le Casse di Risparmio possono e debbono, proprio partendo dalla loro peculiarità, esercitare un ruolo propulsivo e dinamico nell’economia del paese. Le Casse di Risparmio hanno sempre dimostrato l’esistenza di una vocazione sociale che non è né contro il mercato, né fuori dal mercato. La volontà di distruggere il sistema Casse così come è stato concepito dalla legge Amato, è legato al desiderio di impossessarsi di quella rete commerciale che le grandi banche oggi non hanno e che le Casse di Risparmio invece hanno, di quella capacità di stare sul mercato, di stare nella società, che le grandi banche non hanno e che invece hanno le Casse di Risparmio proprio perché ogni giorno hanno dovuto confrontarsi con i piccoli problemi dell’artigiano, del commerciante. Se si pensa alla storia del Credito Romagnolo, nato nel 1885 e conclusosi nel 1996-1997, questo sospetto ha una profonda ragione d’essere.

Quanto sta succedendo in questi giorni è molto grave: lo Stato sta pensando di fare una legge che pone vincoli alle fondazioni e che dice chiaramente che esse devono non solo perdere la maggioranza, ma addirittura perdere la maggioranza di controllo, quindi scendere a delle quote bassissime. Lo scopo chiaro di questa legge è di togliere le fondazioni dal controllo delle Casse di Risparmio. Si potrebbe reagire a questo facendo delle fondazioni uno strumento forte, capace di incidere sul territorio, ma prima di rassegnarci a questo ruolo, bisogna lottare contro i tentativi di fare una legge del genere.

Ci sono due questioni concettuali su cui riflettere, questioni che per un cattolico come me sono la radice della coscienza e dell’impegno civile nella società. La prima è il fatto che io non posso concepire un’azienda e lavorare in un’impresa solo in ragione del profitto, ma devo ragionare e lavorarci anche in ragione di altre cose. Questo mi porta a dire che non è accettabile il ragionamento secondo cui i soggetti che fanno la fondazione non avendo un profitto individuale non hanno neppure la capacità di ben gestire, di ben guidare quella fondazione. È un ragionamento aberrante, ed è il ragionamento che stanno facendo oggi i nostri legislatori, i nostri uomini di governo. L’altra questione è il principio delle libertà e delle autonomie. Se io voglio fondermi con altri, o perdere la maggioranza, o articolare diversamente il mio pacchetto di partecipazione, lo devo decidere solo io con la mia assemblea che ha dato vita a questo strumento e che l’ha guidato per anni. Voler fare con una legge statale una gabbia nella quale inserire le fondazioni è un insulto talmente grave alla nostra democrazia che va fortemente combattuto. Lo Stato non può pensare al ruolo della fondazione e alle belle cose che potrebbe fare incamerando 200 o 300 miliardi, deve invece pensare a riconoscere questa istituzione, perché essa è linfa vitale del tessuto economico e sociale della nostra comunità.

I soggetti intermedi fra lo Stato e i cittadini devono essere posti nelle condizioni di crescere e svilupparsi, di avere più dinamismo. Non può esserci un potere centrale legato da un lato ai poteri forti, dall’altro lato legato a uno Stato forte in cui il cittadino conta per essere strumentalizzato e poco più.

Guzzetti: C’è oggi l’esigenza che nel sistema creditizio e bancario italiano siano salvaguardate delle realtà che, avendo una storia di tradizione e una cultura fortemente legata al territorio, rischiano di venir travolte dalle dinamiche e dai cambiamenti in atto in questa società. Fra un anno e mezzo o poco meno, il primo gennaio 1999 entreremo nell’Unione Europea, e questo sicuramente per il sistema creditizio italiano sarà un gran cambiamento: le realtà rappresentate da banche "locali", le Casse del Risparmio, le Casse Rurali, le Banche Popolari e così via, devono essere salvaguardate.

Ma vi è anche un’altra esigenza: quella di salvaguardare e possibilmente potenziare queste realtà nel contesto del cambiamento del sistema economico e sociale del nostro paese. è giusto invocare la difesa delle banche locali, ma il problema vero è aiutarle a trasformarsi in questo contesto che cambia. Il problema è trovare un sistema che salvaguardi queste identità, ma attraverso una solidarietà attiva: queste Casse da sole non potrebbero reggere all’impatto dei problemi contemporanei, occorre dunque trovare dei moventi nei quali salvaguardare una presenza sul territorio e una identità di banca, che le banche locali hanno rispetto ai loro territori. Credo che nel sistema delle Casse di Risparmio - ed anche in quello connesso delle fondazioni - questo possa avvenire attraverso nuovi strumenti di aggregazione, di intesa, di solidarietà fra le Casse più grosse e quelle più piccole.

L’operazione Cariplo-Ambroveneto è una risposta positiva a questo problema, almeno in due direzioni. Innanzitutto, come Fondazione Cariplo abbiamo indicato con grande precisione nel documento che ha avviato il processo di dismissione che non abbiamo fatto una operazione di cessione della nostra banca per fare un accordo con un altro gruppo bancario in modo indifferente: abbiamo invece indicato delle condizioni e i motivi della scelta nei confronti di un gruppo bancario che garantisce la peculiarità della nostra banca, banca legata ad un territorio e legata ad un tipo di clientela del tutto peculiare, che non trovava e che non trova riscontro in altre banche commerciali ordinarie. La Cariplo infatti è la banca delle famiglie, dei piccoli risparmiatori, dei piccoli e medi imprenditori: i nostri grandi clienti, quelli che superano i 150.000.000.000 di finanziamenti sono pochissimi; noi abbiamo 4.500.000 di conti correnti, siamo la banca delle famiglie, e la scelta nei confronti di Ambroveneto è motivata proprio dall’aver trovato una risposta positiva a questa esigenza che si voleva mantenere. La scelta che è stata fatta tende a mantenere una presenza bancaria e finanziaria sui territori più avanzati ed economicamente sviluppati, dalla Lombardia al Triveneto, dal Piemonte alla Liguria.

La seconda direzione di interesse sta nel fatto che viene portato sulla scena della nostra società un soggetto prima del tutto sconosciuto, chiamato fondazione bancaria: mi auguro che l’aggettivo possa scomparire, per rimanere fondazione tout court, soggetto che nel panorama dei soggetti che operano nel sociale nel nostro paese non esisteva. Eravamo abituati a fondazioni che gestivano un asilo, una casa per anziani, che svolgevano una funzione di carattere sociale, non avevamo l’idea della fondazione come un soggetto importante, idea che invece è presente nella storia di altri paesi dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dove le fondazioni sono dotate di un patrimonio consistente e dispongono di risorse da erogare in determinati settori secondo certe finalità, importanti e significative per la società dove queste fondazioni operano.

Nel panorama delle attività che possono essere compiute da questi nuovi soggetti, abbiamo fatto una battaglia a modifica del disegno di legge, per includere tra le attività anche il sostegno all’economia locale: non abbiamo accettato una limitazione riduttiva solo ai quattro tradizionali settori che erano già nella legge Amato (arte e cultura, formazione e istruzione, ricerca e università, sostegno di categorie più deboli), abbiamo rivendicato che i nostri statuti potessero integrare queste finalità di carattere sociale con finalità peculiari rispetto alla nostra storia.

Questi nuovi soggetti assumono dal punto di vista della dimensione economica una rilevanza importantissima nelle realtà sociali e territoriali dove operano, e per questo sono diventate il soggetto del desiderio del pubblico di impossessarsene. Abbiamo combattuto una battaglia contro ogni possibile authority: le fondazioni dovrebbero essere degli enti privati secondo la loro storia, ma ci sono fior di sentenze, di provvedimenti che le indicano come un soggetto di carattere pubblico. Occorre invece che venga riconosciuta la natura privata delle fondazioni, perché questo consentirebbe di spiegare a fondo un’autonomia di organizzazione e di decisione di interventi, che oggi è impedita per questa definizione della natura pubblica che in qualche misura blocca l’attività.

L’origine solidaristica e libera delle fondazioni, voluta da uomini che non hanno aspettato una legge nel 1823 ma che ancora prima hanno colto il significato del bisogno della società e hanno dato ad esso una risposta libera e autonoma, rende urgente anche una prospettiva solidaristica tra le stesse fondazioni: si tratta di trovare strumenti attraverso i quali, salvaguardando il legame delle singole fondazioni con il territorio, siano anche recepiti i bisogni importanti che stanno in altre realtà del territorio del paese ma che non hanno le stessa risorse. Una delle prospettive che si apre per le grandi fondazioni è trovare questa dinamica della solidarietà per le fondazioni, che potrebbe dare una sostegno importante a tutto il sistema delle fondazioni in Italia.

Andriani: C’è una tesi che viene sostenuta da quanti spingono perché le fondazioni cedano il controllo delle banche ed è che l’attuale arretratezza del sistema bancario italiano viene dal fatto che le fondazioni sono una forma di controllo inefficiente. Penso che questo sia un travisamento della realtà.

L’arretratezza del sistema bancario italiano dipende invece da decenni di centralizzazione, di protezionismo e di specializzazione ad oltranza. D’altro canto se si considerano i problemi di stabilità del sistema, bisognerebbe guardare un po’ fuori dall’Italia. Il decennio in corso credo possa essere buon motivo definito un decennio di dissesti bancari: si è aperto con la crisi del sistema delle Casse di Risparmio statunitensi, c’è stata poi la crisi del sistema bancario dei paesi scandinavi, ci sono stati due interventi pubblici di salvataggio sul sistema bancario giapponese, ci sono stati grossi interventi pubblici in quasi tutti i paesi dell’America Latina, soprattutto dopo la crisi messicana, il Credit Lyonnaise è costato allo Stato francese circa 40 mila miliardi, e adesso probabilmente si renderanno necessari salvataggi in Tailandia e in altri paesi asiatici. In tutti questi casi ci sono stati massicci interventi pubblici che in alcune situazioni, come in Norvegia e in Venezuela, sono culminati nella nazionalizzazione dei sistemi bancari.

Quali sono le ragioni di tale vulnerabilità dei sistemi bancari e come mai in un’epoca di privatizzazione e di riduzione del ruolo dello Stato sono stati compiuti tanti interventi pubblici e di salvataggio delle banche, interventi peraltro condivisi dall’opinione pubblica? La vulnerabilità dei sistemi bancari dipende dalla velocità di innovazione e della trasformazione dei sistemi a livello mondiale e comporta un rapido aumento dei compiti e dei rischi che le banche assumono, implica una specie di rivoluzione culturale da parte delle banche. Questo processo comporta anche un aumento della competizione a tutto campo, perché non c’è più specializzazione ma internazionalizzazione, le banche competono con tutti gli altri investitori istituzionari e finanziari, competono, ed è il caso degli Stati Uniti che ci precedono sempre, con soggetti che non hanno niente a che vedere con le banche come le grande catene commerciali o le imprese di informatica che assumono via via funzioni bancarie. Che gli interventi di salvataggio pubblico vengano condivisi significa però che nel senso comune è rimasta l’idea che la banca è un’impresa, ma è un’impressa di tipo particolare, per il fatto di erogare un bene di importanza generale e per il fatto che la stessa riduzione dei compiti dello Stato la rende garante della stabilità del sistema economico.

Anche il sistema bancario italiano è in trasformazione. La legge Amato è stata un punto di svolta, perché ha consentito alle banche di ricapitalizzarsi sui mercati finanziari, perché potenzialmente creava le condizioni di un notevole decentramento dei poteri dal centro verso le situazioni locali, e perché ha creato una situazione interessante di sdoppiamento tra da una parte una attività bancaria che viene orientata al profitto e dall’altra il mantenimento di una sfera sociale che viene concentrata nella fondazione.

Il progetto di legge governativo contiene però un limite sostanziale: si occupa delle banche e non delle fondazioni. L’idea per cui è nato era liberare le banche dal controllo delle fondazioni: ma se si fosse guardata la realtà con meno provincialismo si sarebbe visto che in Italia il fenomeno delle fondazioni nasce di fatto con la legge Amato, e con la diffusione a livello mondiale del fenomeno delle fondazioni. La fondazione anche in Italia è un soggetto privato, ed infatti il codice civile al primo titolo parla proprio delle fondazioni e delle associazioni.

Come mai il progetto di legge non tiene adeguatamente conto della natura privata delle fondazioni? La risposta a questa domanda ha due versanti. Il primo riguarda la riforma del welfare state: si pensa che una delle possibilità attraverso le quali si può riformare il welfare state, sia quella di mettere in atto interventi, che in passato erano fatti a carico del bilancio dello Stato, a carico invece di patrimoni privati, e con modalità diverse dalla pubblica amministrazione, cercando di superare quei fenomeni di burocratizzazione e di corporativismo che sono emersi attraverso un’eccessiva statalizzazione dell’attività del welfare. La legge di fatto non aiuta le fondazioni neppure in quest’ottica di aiuto al welfare, perché non prevede modalità di agevolazioni in caso di vendita delle azioni, né agevolazioni fiscali ai privati che conferiscono patrimoni a fondazioni, né si preoccupa di evitare che le fondazioni creino apparati burocratici, né le stimola a creare strumenti di controllo dell’efficienza e della efficacia della spesa.

L’altro versante riguarda il ruolo economico delle fondazioni. In Germania come negli Stati Uniti, tutte le multinazionali sono controllate da fondazioni: la fondazione si configura in queste realtà come una forma di controllo proprietario, non di gestione. La fondazione non gestisce l’impresa, ma esercita il controllo proprietario sull’impresa. Una parte consistente delle privatizzazione fatte nella Germania orientale avviene attraverso fondazioni, così come negli Stati Uniti la trasformazione degli ospedali da enti pubblici in società per azioni profit viene fatta attraverso il bilanciamento della socialità delle fondazioni che li controllano. Esiste anche una legislazione comunitaria che non solo ammette che le fondazioni controllino delle imprese, ma stimola questa forma di controllo quando dà luogo a attività profit caratterizzate da una particolare dimensione sociale o da forme nuove di democrazia economica. L’ignorare tutta questa realtà è un fenomeno di provincialismo.

Vimercati: Quando un anno fa cominciammo a parlare dell’operazione Cariplo-Ambroveneto prima individualmente, poi creando il consenso nei singoli organismi, avevo in mente due obiettivi precisi che dovevano essere alla base di questo grande raggruppamento: dare vita a un importante gruppo bancario efficiente e redditizio, di grande respiro europeo, concorrenziale e fedele alla sua storia e alla sua cultura; fare della Fondazione Cariplo una fondazione di livello mondiale che diventasse il punto di riferimento per iniziative del settore non profit e della imprenditorialità sociale. Questi erano i due obiettivi di fondo, che mi ero proposto, e che sicuramente saranno realizzati. Il primo lo giudicherà la storia, il secondo è già in una serie di numeri che brevemente vi elenco: la Fondazione Cariplo avrà un patrimonio, possibilmente entro fine anno, di oltre 11.500 miliardi, così divisi: circa 7000 in contanti; 2000 miliardi circa di partecipazione nella nuova banca che si andrà a creare, la nuova holding Cariplo-Ambroveneto; altri 2000 miliardi circa di partecipazione varie. È un colosso, il numero due al mondo dopo la Ford Fondation.

Vi sono sicuramente dei problemi tra grandi e piccole fondazioni: per questi problemi dovranno intervenire le fondazioni a livello nazionale. L’ACCRI, l’Associazione delle Casse di Risparmio, dovrà diventare la fondazione delle fondazioni. I meccanismi di solidarietà cui si faceva riferimento prima dovranno trovare la giusta compensazione.

Le fondazioni devono ereditare la storia delle casse da cui sono nate, e devono contribuire a ridare vita a quella pluralità enorme e ricca di corpi intermedi della società che una volta erano le mutue di soccorso o le cooperative, organismi che la gente aveva creato per venire incontro ai propri bisogni. La fondazione deve ereditare questo tipo di operatività, deve essere capace di risolvere i problemi della gente, ma soprattutto deve anticipare i bisogni, deve essere il motore di imprenditorialità sociale. Questo significa che accanto a quella che sarà la struttura fondamentale di erogare fondi, la Fondazione Cariplo dovrà anche inventare qualcosa di nuovo, fondi di rotazione per venire incontro alle piccole e medie imprese, fondi di rotazione per finanziare, magari non a fondo perduto ma anche con ritorni a tasso zero, iniziative nel campo della sanità, della cultura, della scuola, dell’educazione.

Questa è la grande sfida che si pongono le fondazioni: essere motore di questa nuova imprenditorialità, ridare fiato ai corpi intermedi di cui è estremamente ricca la società italiana dall’800, e che negli ultimi anni si stanno valorizzando nuovamente, riprendendo un gusto di fare società.