L’imprevisto nella scienza
Giovedì
28, ore 21.30
Relatore:
Marco Bersanelli,
Ricercatore presso l’Istituto
di Fisica Cosmica - CNR Milano
Il tema di questo incontro è affascinante, soprattutto per chi come me per mestiere si trova a fare della ricerca scientifica: è affascinante perché costringe a riguardare la realtà della esperienza scientifica secondo un’apertura che è insolita.
Vorrei tentare di affrontare questo tema non tanto avventurandomi in un discorso astratto sul ruolo dell’imprevisto nella conoscenza, ma piuttosto cercando di sorprendere la componente dell’imprevisto, e di toccarla con mano dal di dentro della circostanza particolare della ricerca di cui io mi occupo (che funge dunque da esempio). Vorrei cercare di mostrare l’evidenza dell’emergere di questa componente nella realtà: per fare questo, accennerò quindi alle due principali scoperte avvenute nella cosmologia di questo secolo, le due grandi scoperte su cui si appoggia tutta la nostra attuale comprensione della struttura e della dinamica dell’universo.
Come premessa al racconto di come si sono svolte queste due scoperte fondamentali, vorrei presentare l’oggetto di cui andiamo parlando – questo oggetto molto particolare che è l’universo –, cercare di dare un’idea intuitiva di che cosa noi intendiamo in cosmologia per universo e qual è la scala delle dimensioni a cui questo oggetto si trova.
A che punto della scala delle dimensioni noi parliamo di universo – l’universo fisico, la totalità della realtà fisica – ? Per formarci la scala delle dimensioni che ci occorre dobbiamo rappresentarci oggetti che troviamo in natura, che hanno dimensioni via via mille volte più grandi dell’oggetto precedente. Quindi faremo una rincorsa verso l’infinitamente grande fino a toccare quel punto che noi, in cosmologia, indichiamo come l’universo, l’oggetto della nostra ricerca.
Partiamo da una dimensione fisica caratteristica della nostra dimensione umana – basta pensare ai nostri figli –, la dimensione di un metro. Da un metro, passiamo a un oggetto grande mille metri, un chilometro, come la parete di una grande montagna, ad esempio il Dente del Gigante.
Moltiplichiamo ancora per mille: un oggetto grande mille chilometri è la catena dell’Himalaya. Stiamo avanzando a un ritmo vertiginoso verso dimensioni sempre più grandi: in due balzi dalla dimensione umana, dal bambino, siamo arrivati già a un oggetto che deve essere fotografato dallo spazio per poter contenere l’oggetto della fotografia.
Un oggetto grande un milione di chilometri è invece una stella di dimensioni medio-piccole, una stella che ci è molto cara: il nostro Sole.
Da un milione chilometri passiamo ora a un oggetto che ha la dimensione di un miliardo di chilometri: questo oggetto fa parte della storia delle stelle. Le stelle infatti non sono immutabili ed eterne, ma hanno un loro ciclo: una loro nascita, evoluzione, e fine. Le stelle nascono all’interno di grandi e spettacolari nubi di gas e di polvere che si trovano nello spazio interstellare, e nascono da globuli di materia, polvere e gas che hanno dimensioni enormi, di miliardi di chilometri.
Dai miliardi di chilometri moltiplichiamo ancora per mille, e andiamo a un oggetto che è grande mille miliardi di chilometri: è un evento che si trova alla fine della vita di una stella, la bolla di gas incandescente che la stella emette alla fine del suo ciclo. Mille miliardi di chilometri è la distanza che un raggio di luce percorre circa in un decimo di anno, circa in un mese. La luce viaggia infatti alla velocità di trecentomila chilometri ogni secondo, e a questa velocità strepitosa un raggio di luce impiega circa un mese ad attraversare questa struttura.
Moltiplichiamo per mille e andiamo a un oggetto che sarà grande cento anni-luce (abbiamo cambiato unità di misura per intenderci meglio), un ammasso globulare che contiene centinaia di migliaia di stelle, un oggetto talmente grande che un raggio di luce impiegherebbe un secolo ad attraversarlo.
Da cento anni-luce passiamo a un oggetto che è grande centomila anni-luce, la galassia di Andromeda, la galassia più vicina a noi (si trova soltanto a due milioni di anni-luce dalla nostra galassia!). Un oggetto come questo è molto simile a quello in cui noi viviamo: il nostro Sole è infatti parte di un sistema del tutto analogo a quello della galassia di Andromeda. Una galassia contiene qualcosa come centinaia di miliardi di stelle: dunque il nostro Sole è una delle centinaia di miliardi di stelle che formano la galassia in cui ci troviamo. Le galassie tendono a raggrupparsi, in molti casi, in ammassi di galassie, i cosiddetti clusters, e la dimensione scala di un ammasso di galassie arriva a cento milioni di anni-luce.
Su scale molto più grandi di cento milioni di anni-luce, su scale grandissime come quelle che ci fornisce tramite le sue immagini l’Hubble Space Telescope, le galassie e dunque la materia sono distribuite in modo pressoché uniforme. Questo è il punto a cui noi ci riferiamo quando parliamo dell’universo: l’universo è quel livello ultimo e semplicissimo in cui la realtà comincia a distribuirsi in un modo uniforme.
Abbiamo dunque colto, almeno intuitivamente, quanta è la vastità e quale è la scala di dimensioni a cui ci riferiamo quando parliamo di universo e di distanze cosmologiche.
Cosa possiamo dire di questo oggetto che è l’Universo? È sempre stato così come lo osserviamo oggi? Oppure ha avuto una storia, un’evoluzione? E se è così, fino a che punto siamo in grado di cogliere dei segni che ci permettano di ricostruire questa storia? Vorrei ora introdurre due pilastri del nostro avanzamento in direzione di queste domande, le due grandi scoperte a cui accennavo prima.
La storia della prima scoperta parte dalle ricerche fatte tramite lo spettrografo, uno strumento che serve per fare delle osservazioni astronomiche, da Vesto Melvin Slipher. Slipher lavorava all’inizio del secolo in Arizona, presso l’Owell Observatory, dove si faceva della ricerca che non aveva nulla a che fare con la cosmologia, muovendosi piuttosto su una scala più piccola, il nostro Sistema Solare. In particolare, il tema principale della ricerca all’Owell Observatory, all’interno di programmi rivolti allo studio del Sistema Solare, era un argomento ben lungi dall’esser passato di moda, e che ha anzi avuto un’impennata recentemente: la ricerca della vita su Marte. Già all’inizio del secolo i politici americani erano particolarmente sensibili a questo genere di ricerca, e così costruirono appositamente l’Owell Observatory.
La ricchezza di dettaglio che noi possiamo avere oggi su questo oggetto di ricerca è chiaramente qualcosa di non immaginabile allora, dati gli strumenti a disposizione di ben altro ordine. Nondimeno, la ricerca si faceva: Slipher fu messo a osservare le cosiddette nebulose a spirale, che oggi tutti immediatamente riconosciamo come galassie, quindi come sistemi che contengono centinaia di miliardi di stelle. Ai tempi di Slipher però la natura di questi oggetti era lungi dall’essere chiara, anzi l’ipotesi più accreditata allora era che queste girandole, questi vortici di materia, fossero le strutture da cui nascono nuove stelle, e nuovi sistemi planetari, quindi oggetti molto più piccoli e più vicini di come invece noi oggi sappiamo. E quindi Slipher si mise a osservare le nebulose a spirale non sapendo che si trattava di galassie. Studiò anche la dinamica di quei sistemi: in particolare, il suo scopo era di misurare la velocità di allontanamento o di avvicinamento di questi oggetti per far luce sulla dinamica della formazione di nuovi sistemi solari e quindi anche del nostro. Ma come è possibile guardando un oggetto come questo cercare di coglierne la velocità? Il trucco che Slipher utilizzò è basato su un effetto già ai suoi tempi ben noto in fisica e già applicato all’astronomia, detto effetto Doppler. Cercherò brevemente di spiegare in cosa consiste questo effetto Doppler.
Una stella, una sorgente luminosa, emette delle onde simmetriche, sferiche, intorno a sé, proprio quello che potremmo immaginare quando si lancia un sasso dentro uno stagno completamente calmo. Queste onde, che sono in tre dimensioni, sono le onde luminose emesse dalla sorgente. La lunghezza d’onda della luce che viene emessa dalla sorgente è data dalla distanza che separa due fronti d’onda, come due creste successive; questa è la situazione che si verifica quando la stella o la galassia è ferma rispetto a noi.
Se invece la sorgente è in movimento, quello che si osserva per effetto del moto quando la sorgente si avvicina, è che le onde luminose sono come compresse una sull’altra: quindi, si osserva una lunghezza d’onda più piccola di quella che effettivamente è emessa dalla sorgente. Se invece la sorgente si sta allontanando, si osserverà il fenomeno opposto, ovvero una lunghezza d’onda della luce proveniente dalla sorgente che è allungata rispetto a quella effettivamente emessa dalla sorgente. Se quindi si riesce a rendersi conto dell’accorciamento o dell’allungamento della lunghezza d’onda si può risalire a quella che è la velocità dell’oggetto. Come si fa a rendersi conto, guardando la stella, se ha effettivamente subito questo processo? Una volta era più lunga e adesso è più corta o viceversa? Quello che la natura ci ha regalato è un sistema che sembra proprio fatto apposta per permetterci di misurare questi spostamenti di lunghezze d’onda. Disperdendo la luce in tutte le sue lunghezze d’onda, quindi in tutti i suoi colori, siamo in grado di vedere, oltre a tutte le lunghezze d’onda luminose, delle righe scure. Queste righe scure sono emesse a delle lunghezze d’onda che noi possiamo, grazie alla fisica atomica, conoscere in anticipo molto accuratamente: quindi, se la sorgente è ferma rispetto a noi, osserviamo queste righe scure esattamente dove ci aspettiamo che esse siano. Viceversa, se la sorgente si avvicina a noi, le righe scure sono spostate verso lunghezze d’onda più piccole, mentre se la sorgente si allontana, le righe sono spostate verso lunghezze d’onda più grandi. Da questo sfasamento che si può osservare tra la lunghezza d’onda che io mi aspetto e quella che osservo è possibile rendersi conto della velocità della sorgente, e anche misurarla molto accuratamente.
Slipher osservava dunque queste nebulose a spirale, pensando che si trattasse di stelle: si aspettava quindi di osservare delle velocità che sono caratteristiche delle stelle, come dieci chilometri al secondo. Invece trovò qualcosa di molto diverso: individuando alcune righe scure di riferimento, riuscì a misurare la velocità di questi oggetti e trovò due cose assolutamente impreviste e impensabili. Innanzitutto il fatto che le velocità, misurate attraverso lo spostamento delle righe scure, non erano misure di decine di chilometri al secondo, ma migliaia, decine di migliaia di chilometri al secondo. E questo per tutte le venti o venticinque nebulose a spirale che Slipher misurò. Era assolutamente incomprensibile che quelle stelle avessero velocità così strabilianti rispetto a qualunque altra velocità allora nota. L’altro dato assolutamente imprevisto era il fatto che sistematicamente queste velocità erano velocità di allontanamento: tutte le nebulose a spirale che Slipher osservava erano in allontanamento da noi. Questo doppio risultato del tutto incredibile fu talmente incredibile che la maggior parte dei colleghi di Slipher non gli vollero credere: fu soltanto nel tempo che lentamente la comunità scientifica accettò la verità di questi risultati.
Una decina di anni dopo il lavoro di Slipher – negli anni venti – Hubble diede una spiegazione assolutamente rivoluzionaria al fenomeno osservato: grazie al suo grande ingegno e anche al nuovo telescopio da cento pollici che entrò in funzione in California in quegli anni, fu per primo in grado di rendersi conto della distanza di queste nebulose a spirale. Si trattava infatti di distanze straordinarie, che si misurano in milioni, decine di milioni di anni-luce: non poteva certo trattarsi di stelle o sistemi solari in formazione, ma si trattava invece di galassie, di sistemi che contengono centinaia di miliardi di stelle, posti a distanze strepitose. Ancora di più, Hubble si rese conto che le distanze che lui misurava di queste nebulose a spirale erano in una relazione molto semplice con le velocità di allontanamento che erano state misurate da Slipher, e che lui stesso, Hubble, osservò. Maggiore è la distanza di una galassia, più grande è la sua velocità di allontanamento da noi. Siamo dunque noi al centro dell’universo di questa grande espansione? È un’osservazione illusoria, perché non c’é un centro in questa espansione, è un’espansione, secondo il linguaggio della fisica, isotropa, è lo spazio stesso che ha nella sua natura il fatto di essere in espansione.
Questa è dunque la prima grande scoperta: l’universo è una realtà che evolve, che muta, che si muove, lo spazio è in espansione. Questa evidenza colse di sorpresa perfino Albert Einstein (il quale aveva dato un contributo fondamentale alla cosmologia con la teoria della relatività generale, che costituisce il sistema fisico fondamentale grazie al quale è possibile descrivere in modo assai rigoroso la dinamica dell’evoluzione dell’universo), che era persuaso aprioristicamente del fatto che l’universo dovesse essere statico, qualcosa di sempre uguale a se stesso nel tempo. Proprio per questa sua posizione aveva introdotto quasi a forza nella soluzione che descrive la dinamica dell’universo un fattore che consentiva di tenere l’universo fermo, anche se la soluzione più naturale delle sue equazioni era proprio quella di un universo in espansione. Dunque, anche per il più grande genio del nostro secolo la realtà si presentava più ricca e più sorprendente di quello che poteva essere la sua pur enorme immaginazione!
Se l’universo si espande, se lo spazio si "stiracchia" per sua stessa natura, nel futuro la stessa materia sarà rinchiusa da un volume più grande, e dunque la densità e la temperatura media dell’universo tenderanno a diminuire inesorabilmente. Il contrario si è verificato nel passato: la stessa quantità di materia che era rinchiusa in una data sfera, in un passato che misuriamo in miliardi di anni era stata rinchiusa in una sfera decisamente più piccola. Questo comporta il fatto che la densità di energia e la temperatura media dell’universo nel passato fossero via via più grandi, man mano che si va indietro nel passato. L’universo è dunque, in ogni istante, diverso dal medesimo universo in qualunque altro istante: in questo istante si trova in una condizione che non è mai stata così, e mai sarà così nel futuro: ogni istante è unico. Se noi misuriamo il ritmo dell’espansione dell’universo, cosa che è possibile fare entro certi limiti, possiamo dare una stima di quella che è l’epoca – indietro nel passato – in cui due galassie o due punti qualsiasi dello spazio dovevano trovarsi a una distanza che tende a zero. Tutti i punti dello spazio possono essere pensati come compressi in una regione dello spazio stesso, sempre più piccola, fino a tendere a zero. Questa è l’età dell’universo, che si stima oggi intorno a quindici miliardi di anni. Dunque, con rimarchevole certezza possiamo dire che quindici miliardi di anni fa l’universo doveva trovarsi in uno stato di altissima densità e temperatura, e occupare uno spazio molto più piccolo di quello che occupa oggi.
La frontiera della cosmologia si rivolge proprio ai primi istanti di questa espansione: le teorie più all’avanguardia che oggi si cerca di verificare tentano di descrivere la totalità dell’universo osservabile così come era approssimativamente 10-35 secondi dopo l’inizio, una frazione infinitesima di secondo dopo l’inizio. L’intero universo osservabile, la cui vastità abbiamo intravisto, doveva essere compresso in un volume paragonabile a quello di una pallina da gioco. È straordinario che in qualche modo noi possiamo tentare la conoscenza della realtà dell’universo fisico fino a questi punti così estremi, ed è altrettanto interessante osservare il modo in cui questa consapevolezza, avviene. Abbiamo visto per quale strada imprevedibile, tortuosa, non programmata, è emersa agli occhi di Slipher l’evidenza di questa gigantesca espansione, questa evidente tendenza degli oggetti più distanti ad allontanarsi con velocità sempre più grandi. Probabilmente, il grande sogno di Slipher era quello di trovare qualche traccia di vita su Marte, ma gli avvenimenti sono andati in modo completamente diverso, ed hanno portato all’emergere di un’evidenza davvero profonda per quanto riguarda la nostra conoscenza dell’universo fisico. Questa vicenda mi sembra mostrare un passo dell’avanzamento nella conoscenza scientifica che ha la forma di un avvenimento: l’accadere di una novità, novità che non è mai riconducibile in nessun caso ad un progetto o a un proposito, o a una linea di ricerca prestabilita.
La scoperta è un fenomeno che avviene attraverso il nostro lavoro, piuttosto che esserne l’esito scontato: come ha osservato un grande scienziato, il biologo Smith, la scoperta accade come un’avventura piuttosto che come risultato di un processo logico del pensiero. La novità irrompe sempre dall’esterno.
Vorrei ora passare alla seconda scoperta, presentando un altro personaggio, George Gamow, un cosmologo di origine ucraina che negli anni quaranta stava facendo un approfondimento teorico basandosi sulla evidenza dell’espansione dell’universo, la scoperta degli anni venti di cui abbiamo appena parlato. Gamow fu uno dei pochi a prendere sul serio fino in fondo questa nuova emergenza nella cosmologia, e si rese conto di una cosa interessantissima da un punto di vista teorico: egli fu in grado di prevedere una possibile traccia diretta, un fenomeno potenzialmente osservabile che poteva dare una prova certa del fatto che effettivamente nel lontano passato l’universo aveva attraversato quella fase bollente e di alta densità cui ho accennato. Gamow si rese conto che, se veramente le cose erano andate così, allora deve essere ancora oggi osservabile un tenue bagliore luminoso in tutte le direzioni dello spazio. Questo bagliore luminoso dovrebbe essere una specie di fossile di quella fase iniziale ad alta temperatura. La previsione di Gamow andò completamente dimenticata, e nessuno vi fece più caso: soltanto venti anni dopo questa storia proseguì in modo completamente inaspettato.
Due signori, Penzias e Wilson, avevano cominciato a fare delle osservazioni che poco avevano a che fare con la cosmologia, con una antenna che era stata inizialmente costruita per scopi di telecomunicazione. Stavano facendo delle osservazioni della nostra galassia, in particolare di una radiosorgente molto brillante, nota come Cassiopea A: Penzias e Wilson intendevano fare una misura dell’energia nelle onde radio, in particolare nelle micro-onde, ovvero a lunghezze d’onda non visibili ai nostri occhi (diecimila volte più grandi di quelle a cui il nostro occhio è sensibile). Volevano osservare l’energia emessa dalla sorgente Cassiopea A a queste lunghezze d’onda, fare un’osservazione dell’energia assoluta che questa sorgente emette. Fare una misura assoluta è molto più difficile in generale che una misura relativa: ad esempio, se abbiamo davanti a noi due bicchieri d’acqua, di cui uno contiene acqua leggermente più calda dell’altra, è sufficiente intingervi le dita per essere abbastanza certi di quale bicchiere contiene l’acqua più calda. Ma se abbiamo davanti un solo bicchiere d’acqua, è più difficile dire se è più o meno calda. La prima è una misura relativa, un paragone tra una quantità e un’altra quantità simile, la seconda è una misura assoluta.
Per sapere che temperatura ha il bicchiere d’acqua, la cosa più ovvia è utilizzare un termometro. E questo è quello che hanno fatto Penzias e Wilson: hanno costruito un termometro per misurare l’intensità della luce nelle micro-onde. Ma per tarare il loro termometro prima di osservare la sorgente celeste hanno puntato la loro antenna in una direzione del cielo dove sapevano che non c’era nessuna sorgente, per avere il punto minimo possibile di energia di riferimento. Nella loro scala hanno dunque utilizzato un segnale più intenso, che secondo loro avrebbe spostato il pennino del loro termometro verso destra. Quando hanno osservato il cielo, il niente che sta dietro a tutto, si aspettavano di avere un segnale ancora più basso di quello del loro termometro, del loro riferimento. Invece, per qualche ragione ignota, Penzias e Wilson si sono resi conto che dal cielo nero, dal fondo ultimo del cielo proviene un’energia, energia che sono poi stati in grado di misurare quantitativamente, rilevando la differenza di quello che vedevano provenire dal fondo vuoto del cielo rispetto al loro termometro. Hanno misurato l’energia essere dell’ordine di 3° Kelvin, ma la cosa era per loro molto preoccupante, perché non si rendevano conto della possibile spiegazione di questo fatto, e temevano che si trattasse di un problema strumentale. Per mesi andarono dunque avanti e sistematicamente continuarono a osservare questo eccesso di energia. Naturalmente Penzias e Wilson, come quasi tutti i loro colleghi, erano ignari del lavoro che aveva fatto Gamow venti anni prima: fu soltanto a posteriori che casualmente, discutendo con alcuni colleghi più attenti e informati, si resero conto che questo inspiegabile, imprevisto, fenomeno di energia luminosa che proviene dal nulla, cioè dal fondo del cielo, poteva essere interpretata come l’eco, come quel tenue bagliore luminoso che testimonia direttamente la fase primordiale dell’universo. Per questa scoperta Penzias e Wilson si guadagnarono il Premio Nobel: effettivamente la scoperta di quello che oggi conosciamo come il fondo cosmico, la radiazione cosmica di fondo e la scoperta dell’espansione dell’universo, sono stati i grandi pilastri su cui è stato costruito quello che ora sappiamo con parecchi dettagli ulteriori rispetto alla natura del nostro universo.
Ma di che cosa si tratta, cosa è il segnale misterioso che Penzias e Wilson hanno registrato? Abbiamo parlato della galassia di Andromeda, che si trova a circa due milioni di anni-luce di distanza: questo vuol dire che quando osserviamo la galassia di Andromeda, la luce che osserviamo prima di arrivare a noi ha già viaggiato per due milioni di anni. Noi non vediamo mai la galassia di Andromeda così come è in questo istante, ma la luce che riceviamo ci porta un’immagine di come era la galassia di Andromeda due milioni di anni fa. Questo è il tempo che la luce ha impiegato per arrivare ai nostri occhi, e mi porta un’immagine data due milioni di anni fa. Noi – anche attraverso le immagini che riceviamo dallo Hubble Space Telescope – siamo quindi in grado di osservare l’universo come era dieci miliardi di anni fa: più guardiamo nella profondità lontana dello spazio, più abbiamo a che fare con un universo sempre più giovane, sempre più vicino alla sua origine.
La domanda è dunque: cos’è quel nero che sta dietro a tutto? E la risposta è: il nero che sta dietro a tutto non è totalmente nero, ma contiene una debolissima frazione di luce, di energia, che corrisponde a un’epoca ancora più remota, rispetto a quella delle ultime galassie osservabili, un’epoca in cui l’universo era molto più giovane, prima che le galassie, le stelle e gli atomi stessi si formassero. Quel segnale (che Penzias e Wilson hanno registrato per la prima volta) proveniente dal fondo cielo ci porta direttamente un’immagine dell’universo primordiale.
Il commento alla scoperta di Penzias e Wilson è ovvio: è un caso talmente eclatante di imprevisto che fa irruzione nel nostro tentativo di conoscere, che sembra quasi che questo imprevisto sia l’unico protagonista. Bisogna però aggiungere che ci vuole anche qualcuno in grado di cogliere l’imprevisto. Charles Nicole ha scritto che la casualità favorisce solo coloro che la sanno corteggiare: corteggiare la casualità per Penzias e Wilson ha voluto dire evidentemente mantenere la ragione aperta, completamente aperta, al dato dell’esperienza, senza trascurare nessun fattore, neanche il fattore più scomodo, come l’imprevisto eccesso di energia di cui avrebbero volentieri fatto a meno. Proprio attraverso il fattore più inspiegabile è passata una conoscenza straordinaria per la nostra capacità di conoscere l’universo. E la sottolineatura dell’imprevisto è il contrario di un incitamento all’anarchia metodologica, perché è soltanto in presenza di un metodo applicato con passione e tensione che uno può riconoscere e valorizzare un imprevisto.
Dai tempi di Galileo in poi, il progresso dell’astronomia ha messo in luce come noi non occupiamo nell’universo una posizione speciale: noi viviamo in un piccolo pianeta che insieme ad altri ruota intorno al Sole, e il nostro Sole non è che una delle centinaia di miliardi di stelle che formano la nostra galassia, e la nostra galassia è una fra i miliardi di galassie che sono sparpagliate per tutto lo spazio. Di fronte a tanta enormità vengono in mente le parole del Salmo: "che cos’è l’uomo perché te ne ricordi, e il figlio dell’uomo perché te ne curi?"
Eppure, per realismo non possiamo negare che in questa vastità, in questo universo così grande e affascinante, il fenomeno dell’uomo è un fatto straordinario: l’io di ciascuno di noi è un pezzo infinitesimo di questo universo, ciascuno di noi è una parte apparentemente insignificante ma straordinaria, perché è quel punto in cui tutto l’universo acquisisce una capacità inaudita, l’autocoscienza. Come scrisse Pascal: "Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la Terra e i suoi reami non valgono il minimo degli spiriti, perché questo conosce tutto ciò e se stesso; e i corpi, nulla. Tutti i corpi insieme, e tutti gli spiriti insieme, e tutte le loro produzioni non valgono il minimo moto di carità. Questo è di un ordine infinitamente più elevato. Da tutti i corpi insieme non si potrebbe far scaturire un piccolo pensiero: ciò è impossibile, e di un altro ordine, soprannaturale"1.
Vorrei concludere ricordando brevemente ad un fatto recente: dall’astrofisica degli ultimi decenni siamo quasi costretti a riconsiderare la posizione dell’uomo nel cosmo, non la posizione geografica, come un po’ superficialmente (almeno secondo la nostra prospettiva attuale) si discuteva tre secoli fa. Non si tratta di vedere se l’uomo si trova al centro dell’universo, si tratta invece di discutere il suo ruolo nello scenario cosmico. Siamo costretti a farci questa domanda proprio dalla ricerca scientifica, cosmologica ed astrofisica: emerge con sempre più evidenza il fatto che non solo la nostra piccola Terra ha delle proprietà straordinariamente accoglienti per la nostra esistenza nell’universo, ma che il cosmo intero sembra fatto apposto per accoglierci. Tutto quanto il cosmo, fino agli ultimi confini osservabili, e le costanti che regolano le leggi della fisica su cui questo cosmo si muove, sono fatte in modo mirabilmente adeguato affinché la vita autocosciente sia un fenomeno possibile, come se tutto fosse pronto ad accogliere ad un certo punto della storia cosmica la nostra presenza.
Nelle due storie che ho raccontato, la storia della scoperta dell’espansione cosmica e la storia della scoperta della radiazione cosmologica di fondo, abbiamo visto il ruolo fondamentale che l’imprevisto ha giocato e gioca nella nostra conoscenza scientifica: forse proprio la straordinaria unità del cosmo intorno al fenomeno umano cui ho accennato è il nuovo grande imprevisto che ci troviamo davanti. Su questo c’è ancora molto da capire: probabilmente non sappiamo neppure porre le domande giuste, ma ciò che sembra emergere con chiarezza è la profonda unità del cosmo intorno al fenomeno umano.
Questa unità è stata a lungo un fatto semplice ed evidente, così come è testimoniato dalla sensibilità cosmica del popolo ebraico: "Tu stendi il cielo come un velo, come una tenda ove abitare".
NOTE