Verso la Terra Santa

Giovedì

28, ore 18.30

Relatori: Carlo Rusconi, Ahmad’Abd Al Waliyy Vincenzo,

Giuseppe Laras, Docente di Esegesi Biblica Responsabile Giuridico CO.RE.IS

Rabbino Capo della Comunità Ebraica (Comunità Religiosa Islamica) Italiana

di Milano e Presidente Shaykh’Abd Al Wahid Pallavicini,

dell’Assemblea Rabbinica d’Italia Maestro di una Confraternita Islamica

 

 

 

 

Laras: Sono qui per riflettere riflessione su un tema che ritengo molto importante, anche in vista del prossimo Giubileo: Gerusalemme. Gerusalemme rappresenta una realtà importante, non soltanto per l’Ebraismo ma anche per il Cristianesimo, per l’Islam, e specialmente per tutta l’umanità. La prova che Gerusalemme è importante per tutti, religiosi e non, è data dal fatto che quando succede – purtroppo abbastanza spesso – qualcosa di triste in Israele siamo tutti coinvolti.

Sono stato a Gerusalemme per la prima volta quando avevo diciotto anni: non potei andare al muro del pianto, il luogo delle memorie degli ebrei, perché la città era divisa. Sia pure da distante coglievo quella emozione che era stata anche dei miei padri, dei miei antenati. Ricordavo anche diversi testamenti del ‘500 e del ‘600, che terminavano con la disposizione testamentaria, a portare il corpo del defunto in Terra di promissione. Questo per il desiderio di riposare in Israele dopo la morte, vista la impossibilità di andarci in vita.

Che cosa rappresenta Gerusalemme? Anzitutto, abbiamo due Gerusalemme: una Gerusalemme umana e terrena, quella che noi conosciamo, e una Gerusalemme celeste di cui i maestri di Israele parlano insistentemente. Un midrash dice: "Il Signore non entrerà nella Gerusalemme celeste se prima non sarà entrato nella Gerusalemme terrena". È un pensiero che ci fa cogliere l’importanza della Gerusalemme terrena nell’economia della salvezza generale.

Infine, vi è un senso di incontro, di fraternità e di pace in Gerusalemme, che cercherò di far capire attraverso una storia hassidica. Una persona chiede ad un’altra: "Cosa mi fa soffrire?". L’interpellato risponde: "Come posso sapere quello che ti fa soffrire, devi saperlo tu!". Il primo ribatte: "Se non sai quello che mi fa soffrire, come puoi pensare e dire di essermi amico?".

È in questo spirito di ricerca, di incontro, di amicizia, che dobbiamo cercare di capire meglio quello che fa soffrire l’altro: è un segno di vicinanza e di fraternità.

Il dialogo interreligioso non vuol dire spogliarsi della propria identità, ma andare con i propri convincimenti e con la propria identità verso l’altro.

 

 

Rusconi: Ho imparato da Israele e dall’Antico Testamento che la radice della mia natura umana è l’essere ad immagine di Dio: l’aver imparato questo mi rende amico della realtà e attento al manifestarsi della verità non in dimensioni astratte, ma in dimensioni strettamente storiche.

Possiamo compiere delle scelte nella nostra vita che possono essere più o meno varie, ma la scelta di Dio è la mia consistenza. Dio ha scelto me, ognuno di noi che siamo qui, ed è per questo che ci siamo, è questo fatto che mi impegna.

La mia possibilità di amare chi mi sta accanto è l’unica possibilità che ho di rendere a Dio nella sua immagine – l’altro – la gratuità con cui Dio stesso mi ha amato, di contraccambiare quello che io non sarei mai in grado di contraccambiare. Questo fonda anche la mia realistica attenzione al manifestarsi della verità, inevitabilmente frammentaria, di ogni essere umano, al manifestarsi della verità di chiunque mi stia intorno, si tratti di un singolo uomo o di un popolo. Questo fatto rende non solo amica la realtà in generale, ma le singole presenze nella storia, nell’umiltà dell’accoglienza di un disegno che non è il mio sulla realtà.

La città degli uomini (Gerusalemme è per antonomasia la città degli uomini) ha come proprio modello che la rende possibile e che le dà consistenza la pace del Signore, la Trinità, l’immagine dell’amicizia possibile, della relazione possibile.

Come chi mi ha preceduto ha parlato della propria emozione nei confronti di Gerusalemme, vorrei dire, seppure velocemente, il soprassalto di immagini che mi sono ritrovato nella mente e nel cuore la prima volta che ci sono andato: era un ricordare come Israele che esce dall’Egitto o Israele che lascia Babilonia per ritornare in patria è in qualche modo un percorso all’indietro, un percorso di ritorno rispetto al peccato originale, che comincia da un luogo in cui era possibile il rapporto con Dio. Pensavo ai pellegrini dell’occidente cristiano che facevano penitenza dei loro peccati, non in maniera moralistica, ma riandando all’origine di sé, per ricordare a sé ciò che il peccato aveva fatto loro dimenticare, la propria verità, la propria identità. Riandare alle origini, là dove erano avvenuti gli avvenimenti di Cristo che erano il fondamento della loro esperienza, della loro vita, e che avevano dimenticato nel peccato; ritornare là significava ritrovare la propria origine, ritrovare la verità di sé e quindi poter percorrere la strada verso il compimento di sé.

 

 

Pallavicini: Spesso si vuol fare di Roma la capitale del Cristianesimo, ignorando però i luoghi santi della nascita e della morte di Cristo; questo ci ricorda come da una certa parte ebraica si vogliano ricercare le vestigia del tempio di Salomone ignorando che sulla sua spianata è stata eretta la moschea della roccia, che racchiude quella roccia sulla quale Abramo, patriarca a noi tutti comune, dopo aver provato la sua ubbidienza all’ingiunzione divina ha potuto astenersi per grazia di Dio dal sacrificare il proprio figlio. C’è anche un’altra città che oggi rivendica il nome di capitale della pace, Assisi, quell’Assisi dove il Santo Padre ci ha invitato circa dieci anni or sono non a pregare ciascuno il suo Dio, come è stato frainteso da molte parti, ma ad andare insieme per pregare separatamente, ciascuno nel suo modo, tempo e luogo, il Dio, l’unico Dio di tutti gli uomini che si è rivelato. In luoghi, tempi e modi diversi, Dio ha lasciato il segno della sua verità, una verità senza la quale non vi è pace possibile.

Ma è una sola la vera città della pace, Gerusalemme. A Gerusalemme è celato il Santo dei Santi, il tempio di Salomone, dove si trova il Santo Sepolcro di Cristo e il luogo dell’ascensione al cielo del profeta di Allah, che è proprio la roccia del sacrificio di Abramo. Questo segno corrisponde alla coincidenza sacrale e anche genetica di queste rivelazioni (ebraica, cristiana e islamica), che proprio nel comune patriarca Abramo vede l’origine delle stirpi genetiche di Isacco e di Ismaele, figli dai quali discendono le stirpi che portano a Gesù e ad Allah. Ma non possiamo ignorare che una stazione di Abramo è presente anche nel cubo che è quello della Mecca, il tempio che è stato ricostruito da Abramo con suo figlio Ismaele e verso il quale oggi tutti i musulmani (più di un miliardo circa) si volgono per le loro preghiere, da quando è stata cambiata la direzione che originariamente era proprio Gerusalemme.

Il monoteismo abramico è uno e uno solo, e non vi sono tre monoteismi abramici; la verità assoluta è solo di Dio e le religioni rivelate sono relative – potrebbe sembrare un gioco di parole, visto che "relative" e "rivelate", contengono le stesse lettere – a quanto espresso nelle rispettive dottrine. Le divergenze dottrinali, specifiche ad ogni identità religiosa, sono dovute alle particolari specificità di ogni rivelazione; in Dio vi è la ragione delle attuali differenze, e solo in Dio – nella direzione verticale dell’ascesi – è possibile trovare l’assolutezza, la verità non rivelata, quell’assoluto che Dio stesso mantiene nelle varie direzioni. Le varie identità religiose infatti, secondo le parole del Santo Padre, sono convergenti ma relative, e ciascuna esprime una verità relativa.

La verità relativa rivelata è espressa nelle varie forme di dottrina teologica quali sono state le manifestazioni del Verbo di Dio: la Torah per gli ebrei, Dio fatto carne in colei che è eletta fra le donne per i cristiani, Dio fatto Verbo nel libro ispirato a Maometto, l’eletto fra gli uomini. Non basta pensare alla tolleranza, e non basta neanche il credo monoteista – anche se questo viene inteso come il fatto di riferirsi, ognuno in modo diverso, all’unico Dio assoluto –; non basta la fede in una dottrina rivelata o lo studio della teologia, né tanto meno lo studio comparato delle religioni... tutte queste cose non bastano a darci la salvezza, e neppure a permettere la pacifica convivenza fra i popoli. È invece necessario un mutuo e reciproco, ufficiale e contemporaneo riconoscimento di quella verità che salva, di ogni rivelazione ortodossa nella certezza che nell’onnipotenza sua Dio ha potuto dare a ciascuno di noi il suo. Non vi è coercizione o obbligo nella religione, dice il Corano riferendosi non all’Islam in particolare, ma alla religione in generale: se ci fosse obbligo, non ci sarebbe bisogno della fede, necessaria invece per una vera pratica religiosa intenzionata. Non si può pretendere la conversione dell’altro, ma piuttosto quella convergenza nella necessità di un incontro che può esprimersi anche nel nostro incontro odierno.

Dalla Gerusalemme terrestre, simbolo di una presenza divina alla quale Dio stesso deve passare per raggiungere la Gerusalemme celeste, dobbiamo procedere elevandoci verso la sommità di quel monte dove si congiungono tutte le vie, tutti i sentieri che salgono dai vari versanti: non dobbiamo attardarci, come purtroppo si fa oggi, in un girotondo infantile e sterile. La pace che Gesù Cristo ha dato non è di questo mondo: nell’attesa della sua seconda venuta, la stessa attesa messianica dei nostri fratelli ebrei, dobbiamo essere attenti che colui che verrà prima di Cristo, l’antecristo, o forse l’anticristo, non riesca a ingannare anche gli eletti. Non bisogna temere che a un determinato momento della storia un ciclo possa chiudersi, come è previsto da tutti i libri sacri dalla creazione del mondo: le civiltà non si possono illudere di un progresso indefinito, rettilineo, di una presunta, continua evoluzione dell’umanità.

Concludo con una constatazione che è oggi per l’Islam una grande prova: oggi noi musulmani dobbiamo subire l’inquisizione, non tanto da parte delle istituzioni delle altre confessioni religiosa o da parte dell’ostilità di un occidente secolarizzato che teme la sacralità di una spiritualità orientale tesa verso una realizzazione metafisica, ma dobbiamo piuttosto temere l’inquisizione che viene dai nostri presunti fratelli nella fede, i quali vorrebbero ridurre anche l’Islam a una mera ideologia di egemonia confessionale o di rivendicazione territoriale. L’Islam e il Cristianesimo sono religioni universali, cattoliche: per questo non basta la definizione di confini geografici o di accordi storici per conquistare quella terra che in realtà non è quella che Gesù ci ha promesso.

Nel secondo millennio della Sua nascita, e nell’attesa del Suo ritorno al momento escatologico, ricordiamoci che al di là di quel momento escatologico a noi tutti comune c’è anche un altro momento, quello della nostra personale escatologia: a noi compete di saper attendere la parusia messianica di quella vera venuta che sola, attraverso una riaperta porta d’oro a Gerusalemme, possa veramente riconciliarci in Dio.

 

 

Vincenzo: Non è casuale che questo incontro avvenga in vista della Terra Santa, che riveste vari significati simbolici, identificabili con la presenza divina stessa, vero punto di arrivo di ogni pellegrinaggio spirituale. Speriamo che in futuro, si possano moltiplicare segni come questo incontro, perché dovrebbero testimoniare il fatto che una certa mentalità che reputa che le religioni si combattano in Terra Santa è sbagliata, perché è invece la Terra Santa che ci può unire effettivamente, a patto di avere una concezione autenticamente monoteista che ci unisca nel Dio di Abramo, patriarca comune per ebrei, cristiani e mussulmani. Purtroppo invece – come già abbiamo sentito – una mentalità comune cerca di contrapporre religione e politica, mentre invece si tratta semplicemente di due ambiti diversi che bisogna tenere distinti. Anche nelle religioni, c’è una certa abitudine ad appiattire la dimensione sacrale e religiosa su una dimensione ideologica, umanitaria, creando delle ambiguità e dei conflitti che diventano poi insolubili. Se anche c’è una buona fede, i drammi innescati dall’integralismo, il vero nemico dei figli di Abramo, fanno vedere come e quanto sia pericolosa questa prospettiva di appiattimento ideologico e di strumentalizzazione politica.

Occorre dare contenuti positivi al dialogo interreligioso: non basta neppure denunziare il veleno dell’integralismo. Bisogna testimoniare che cosa è una religione, consentire, alle generazioni future di riconoscere ciò che appartiene al deposito sacro di una religione e ciò che invece ne rappresenta piuttosto la corruzione. Grava quindi su di noi religiosi una enorme responsabilità: quella di portare in questo mondo, per quanto afflitto dalla secolarizzazione o dal materialismo, una testimonianza di verità, testimonianza che deve avere una necessaria concretezza che non può essere soltanto emotiva, mentale o arbitraria. Non è un caso che sia nelle lingue semitiche che in quelle indeuropee per indicare la testimonianza di fede sia usata la stessa parola, "testimone" appunto, termine che nel linguaggio giuridico indica coloro i quali possono fare luce sulla realtà. Una religione non sarebbe veramente completa se non vi fossero dei testimoni, delle persone che possono effettivamente testimoniare per conoscenza la realtà religiosa di cui partecipano. Da qui nasce l’importanza del dialogo, che deve essere un dialogo a un livello intellettuale adeguato.

L’unità in Dio di tutte le tradizioni di cui si è parlato è una realtà importante che va testimoniata. Unità in Dio vuol dire che le rivelazioni hanno un medesimo concetto comune e una necessaria differenza fra loro. Ogni lingua si esprime con una grammatica e con dei termini diversi, anche se il concetto che si esprime è unico e identico. Non bisogna rinunziare alla grammatica o voler parlare tutti la stessa lingua, ma esprimere la stessa realtà intellettuale, che va al di là della lingua stessa e che in questa metafora rappresenta la verità di Dio stesso. Nessuna religione, quindi, esclude o abroga le precedenti, così come nessuna lingua abroga le altre. Ebraismo, Cristianesimo e Islam discendono dall’unico ceppo abramico tramite Ismaele, da cui derivano gli arabi, e Isacco, da cui derivano gli ebrei.

Ma facciamo un passo oltre questa unità concettuale. Mi sembra da questo punto di vista estremamente significativo l’esempio del contesto nazionale italiano, uno Stato che, evolutosi dalle sue antiche radici romane, ha mantenuto un momento di contatto tra il momento dello Stato e quello della religione: questo permette che lo Stato possa riconoscere le religioni. È una circostanza eccezionale nel mondo occidentale, un esempio unico che va tenuto in grande considerazione. Il riconoscimento e la conoscenza sono infatti dimensioni indispensabili affinché la libertà religiosa possa veramente manifestarsi. Non vi può essere giustizia senza la conoscenza: il riconoscimento dello Stato, che in Italia si è espresso in maniera particolare e che permette il riconoscimento delle confessioni religiose e lo stabilire intese con esse, è una dimensione nuova che va presa in considerazione. Con la costituzione di una comunità religiosa islamica c’è anche la possibilità di completare questo processo con il riconoscimento dell’ultima rivelazione del monoteismo abramico, quella islamica: si può arrivare in Italia a una situazione nuova per l’occidente, quella in cui uno Stato riconosce tutte e tre le confessioni del monoteismo abramico.

Non mi soffermo sui significati giuridici di questa dimensione, vorrei solo sottolineare il fatto che le leggi non servono a indurre una mentalità, ma a testimoniare un riconoscimento o a dare manifestazione ad una realtà che è già esistente. La prima, vera intesa che occorrerebbe realizzare, è quella tra connazionali aderenti ai tre rami del monoteismo abramico che possono effettivamente riconoscere di tendere verso quella meta comune rappresentata proprio dalla presenza divina stessa, la vera Terra Santa. Questo sarebbe il precedente spirituale di ogni intesa giuridica, un simbolo da far conoscere al resto del mondo. Comunione e Liberazione è da questo punto di vista una vera testimonianza: è un movimento che è riuscito a coniugare la spiritualità del suo fondatore, don Luigi Giussani, con una provvidenziale manifestazione in cinquantasei nazioni, segno e respiro di vera pace interiore, che può giungere fin sotto le mura della Terra Santa, sotto le mura di Gerusalemme.

Che questa pace possa veramente essere uno di quegli strumenti tramite i quali il Dio di Abramo e di tutti i profeti possa compiere quegli avvenimenti che, come ci dicono tutti i nostri testi sacri, verteranno su Gerusalemme, città benedetta e santa per ebrei, cristiani e musulmani.