Martedì 22 agosto, ore 17
IL GRANO E IL LOGLIO: LA PARABOLA EVANGELICA
Incontro con S.Em. Mons. Giacomo Biffi
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Modera:
Antonio Smurro.
E’ con grande entusiasmo e viva gratitudine che ringrazio Sua Eminenza il Cardinale Giacomo Biffí di essere qui con noi. Colgo così l'occasione per salutare anche due graditissimi ospiti che sono in sala l'on. Arnaldo Forlani, segretario della Dc, e il Ministro Prandini. Sua Eminenza ha accettato di ritornare fra noi, mentre abbiamo ancora vivo il ricordo della Santa Messa da lui presieduta in occasione dell'apertura dell'edizione del 1987 e di una interessantissima tavola rotonda a cui Sua Eminenza partecipò nel 1985. Sua Eminenza ha sempre seguito con attenzione e simpatia la nostra esperienza e già allora ci esortò a una presenza forte e coraggiosa nel mondo moderno. Siamo pertanto certi dell'aiuto che questo suo autorevole intervento porterà allo sviluppo delle tematiche di questo Meeting, che è soprattutto rivolto ad affrontare le esigenze gravi di una risposta cristiana alla domanda giovanile. Do subito la parola a Sua Eminenza.
Il grano e il loglio, il tema assegnatomi dalla fantasia degli organizzatori del Meeting, ci propone, credo, la rilettura di una famosa parola evangelica e un tentativo di meditazione teologica ed esistenziale su questo testo. Entro le molteplicità delle offerte culturali di questi giorni, questo è dunque uno spazio di raccoglimento e di meditazione che non deve essere disturbato da considerazioni troppo contingenti. Articolerò la riflessione in tre momenti: prima di tutto la rilettura del passo evangelico e qualche osservazione previa e generale. Poi l'esame di un triplice livello interpretativo delle parabole, cosmico, ecclesiale, antropologico e infine qualche osservazione pastorale e conclusiva: i propositi della meditazione. "Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico: seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi la messe fiori e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: "Padrone, ma non hai seminato del buon seme nel tuo campo. Da dove viene dunque la zizzania?" Egli rispose loro: "Un nemico ha fatto questo". I servi gli dissero: "Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla?" "No" rispose "perché non succeda che cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme sino alla mietitura e al momento della mietitura, dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla. Il grano invece riponetelo nel mio granaio". Poi Gesù lasciò la folla ed entrò in casa. I suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: "Spiegaci la parabola della zizzania nel campo". Ed Egli rispose: "Colui che semina il buon seme è il Figlio dell'uomo, il campo è il mondo. Il seme buono sono i Figli del Regno, la zizzania sono i Figli del maligno, il nemico che l'ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo e i mietitori sono gli Angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell'Uomo manderà i suoi Angeli, i quali raccoglieranno dal Suo Regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel Regno del Padre loro. Chi ha orecchi intenda". Le osservazioni previe che vorrei fare sono tre. La prima, molto semplice, è questa: da dove viene la zizzania? Da dove è venuta questa erbaccia maligna e soffocatrice che infesta il campo di Dio? Questa è una delle domande più serie e decisive e siamo tutti costretti a formularla quando ci poniamo di fronte al Mistero dell'esistenza. O neghiamo l'evidenza del male, ed è un'impresa disperata - o ci interroghiamo sulla sua provenienza. Seconda osservazione. Sulle labbra dei contadini della parabola, l'interpellanza sembra esprimere non solo stupore ma anche delusione, è quasi una specie di rabbia. L'interpellanza sembra anzi marcata da un accento di velato rimprovero verso il padrone che in fin dei conti è il primo responsabile della coltivazione. "Non hai seminato del buon seme nel tuo campo! Da dove dunque viene la zizzania?" Dobbiamo dire però che quei contadini almeno una fortuna ce l'hanno, ed è di avere un padrone con cui prendersela, con cui lamentarsi. È già una consolazione prendersela con qualcuno. A chi ritenesse che il campo non sia di nessuno e ogni accadimento in esso sia del tutto casuale, non sarebbe consentito neppure di protestare o di fare domande per assenza di destinatario responsabile. Se non esiste un proprietario del campo con un suo programma operativo, se tutto nell'universo è fortuito, allora noi, pur avvertendo ancora i morsi del male, non siamo più autorizzati né a lagnarci né a enunciare problemi, perché in quel caso non si dà spazio per nessuna verità e quindi per nessuna ricerca, per nessuna indagine. Dove si prende per buona l'ipotesi del caso non può sorgere alcuna plausibile investigazione. Deve essere tremenda la condizione degli atei, e proprio per questo, per il fatto di non riconoscere di fronte a sé nessun interlocutore adeguato. Un ateo vero e coerente è uno sventurato, perché si deruba persino della soddisfazione di bestemmiare, se è coerente. Io - ad essere sincero - non posso fare a meno di un interlocutore trascendente, certo posso parlare anche con gli uomini, quando si tratta di questioni come la politica italiana o l'inflazione o il campionato di calcio. Ma degli argomenti che davvero contano, come è appunto quello del bene e del male e dell’enigmatica origine del male, con chi volete che ne possa trattare, se mi manca un Dio con cui entrare in dialogo? Con chi volete che esamini il problema del senso unico della vita? Mica lo posso fare con l'on. Craxi o con l'on. Pannella! Con chi volete che affronti il tema del mio destino eterno? Mica ne posso chiedere conto a Umberto Eco o a Giuliano Ferrara o a Maurizio Costanzo! Di queste cose - e sono le sole che veramente mi interessano di queste cose devo discutere, e discutere ogni giorno, unicamente con Dio. Anch'io gli dirò con Geremia: "Tu sei troppo giusto Signore perché io possa discutere con Te. Eppure ti voglio rivolgere ugualmente una parola sulla giustizia". Anche a me, come a Giobbe, è dato di proporgli: "Io ti interrogherò e tu istruiscimi". E se mi parrà di aver di fronte come un muro il silenzio di Dio, anch'io come il profeta Abacuc vigilerò davanti a questo muro. Mi metterò di sentinella a spiare per vedere cosa mi dirà, che cosa risponderà ai miei lamenti. In realtà il muro è già stato squarciato dalla divina Rivelazione, abbiamo già avuto una risposta e proprio da questa parabola di Gesù. Si tratta solo di capirla bene e di lasciarci illuminare dalla sua luce. Terza e ultima osservazione previa. Se il padrone del campo fosse stato un tipo irenico e postconciliare, si sarebbe rifugiato in una qualche rassicurante congettura naturalistica o occidentale. Alla domanda: "Da dove viene la zizzania?" avrebbe probabilmente risposto: "Ma sapete com'è, le erbacce spuntano da sole, ci sono un po’ dappertutto, non bisogna farne un dramma, c'è il vento, ci sono gli uccellini che abbandonano nei solchi ogni sorta di seme imprevisto, questa è una cosa normale, anzi, un fatto ecologico (…)". Invece quel padrone non ha esitazione nell'assegnare al guaio che gli viene denunciato una causa personale subdola e malevole. Un nemico ha fatto questo, e il narratore della parabola ci conferma che la deduzione del padrone è ineccepibile. Le cose sono davvero andate così: mentre tutti dormivano venne il suo nemico e se ne andò. Questo nemico che opera nella notte i suoi malefici, poi scompare, riesce a fare perdere così bene le sue tracce che molti, anche fra i servi stipendiati dalla azienda agricola, non tengono conto più della sua esistenza; qualcuno non prende più sul serio nemmeno l'esistenza della zizzania. Qualche altro da l'impressione che non creda più addirittura all'esistenza del campo. Questo nemico riesce a ingannare tutti, tutti tranne il padrone. Sarà meglio allora che ricominciamo a fare più attenzione al parere del divino agricoltore se vogliamo che la nostra indagine sul grano e sul loglio non sia vanificata in partenza. E adesso entriamo finalmente nel centro del discorso, con le tre interpretazioni. La prima è l'interpretazione cosmica. L'interpretazione cosmica è proposta direttamente ed esplicitamente da Cristo stesso, il campo è il mondo. Secondo questa lettura, la parabola evangelica è un invito a riflettere sul male e la sua origine nell'universo. L'insegnamento di Gesù, a questo proposito, è estremamente sintetico, ma limpidissimo. Il nemico che ha frammischiato l'erbaccia alla buona coltivazione di Dio è il diavolo. Fate conto che abbiamo a richiamare, sia pure in cenni rapidissimi, l'intera concezione della fede cattolica circa il male del mondo. Concezione che è implicitamente evocata da questa breve frase del Signore. Questa concezione della fede cattolica oggi è così faziosamente e acriticamente contrastata dalla cultura dominante che capita di percepire una irritata meraviglia, quando non addirittura gridare allo scandalo, se il Papa o qualche Vescovo la ripropone nella sua semplicità e nella sua nativa interezza. Come se fosse impensabile, dopo tutte le aperture e gli irenismi, che ci sia ancora qualche cristiano che si attardi a pensare da cristiano. Secondo il realismo della Rivelazione, il male inteso senza ambiguità come colpevole prevaricazione morale, esiste. Voi che siete cattivi, dice tranquillamente Gesù ai suoi ascoltatori, e così ci ammonisce che non ci si deve fare illusioni di tipo illuministico sulla bontà morale dell'uomo. Le illusioni tra l'altro si sono rivelate storicamente molto pericolose. L'ottimismo naturalistico del secolo decimo-ottavo di fatto, negli ultimi anni di quel secolo, è approdato all'omicidio perpetrato, per così dire, su scala industriale con indici inauditi di produzione resi possibili dalla geniale invenzione della ghigliottina. Le ideologie che si rifiutano di credere alla malvagità del cuore dell'uomo hanno dato vita ripetutamente in questi due secoli a forme esasperate di crudeltà. L'iniquità umana c'è ed è largamente diffusa; così diffusa da costituire un problema. Come mai gli uomini più o meno tutti sconfinano nell'ingiustizia? La rivelazione cristiana risponde con la dottrina del peccato originale. La verità del peccato originale di ogni mistero è oscura in se stessa ma illuminante per noi e per la nostra condizione. Indubbiamente si fa fatica a capirla nella sua natura e nelle sue cause, ma senza di essa tutto nel mondo e nell'uomo si fa ancora più impenetrabile. A cominciare dal mare di lacrime e di sangue che ricopre la nostra storia. San Paolo, nella Lettera ai Romani, richiama vigorosamente questo generale deterioramento instauratosi all'alba dell'umanità e ne fa la necessaria premessa per comprendere in tutta la sua valenza l'opera redentrice di Cristo. "Come a causa di un solo uomo - scrive - il peccato è entrato nel mondo, e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, sicché tutti hanno peccato. Come dunque per la colpa di un solo, si è riversata su tutti gli uomini la condanna, cosi anche per l'opera di giustizia di uno solo, si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che da vita". "Similmente - continua - come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo, tutti saranno costituiti giusti". A dire il vero il Libro della Genesi racconta la colpa di Adamo ed Eva come frutto della istigazione perfida del serpente, sembra insinuare che l'inizio assoluto del male nell'universo vada ricercato antecedentemente alla comparsa dell'uomo sulla terra. Il Libro della Sapienza da una lettura teologica dell'antico racconto, indicando nel demonio la prima fonte delle nostre sciagure. La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo, e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono. Ci ritroviamo così all'identico insediamento offertoci da Gesù appunto nella parabola del grano e del loglio. Il nemico che ha seminato la zizzania è il diavolo. Come si vede la nostra meditazione sul male del mondo è stata progressivamente sospinta dalla verità del peccato personale a quella del peccato che, dall'origine, contamina universalmente la nostra stirpe e dalla verità del peccato originale a quella dell'esistenza del demonio, prima e oscura fonte di ogni perversione.Siamo così invitati a risalire a poco a poco l'enigmaticità delle cose fino a raggiungere la soglia del mondo invisibile che precede la storia dell' uomo. Vale a dire la soglia della realtà che sta al di fuori e al di sopra del nostro tempo. I guai di cui tentiamo di renderci conto hanno, come si vede, radici lunghissime e premesse extratemporali (…). Nella cristianità contemporanea è nato un curioso processo di smarrimento, tanto che si arriva a percorrere in senso contrario la strada sulla quale, come si è visto, siamo stati guidati dalla fede. Tra i teologi c'è chi si impegna allegramente in un lavoro cosiddetto di smitizzazione dopo il quale del demonio non resta neppure la coda. Questi teologi, diversamente da Gesù Cristo, pare che non pensino più a Satana come ad un essere reale, concretamente e personalmente esistente; sembrano piuttosto ridurlo ad una sorta di immagine simbolica della intrinseca inclinazione al male che c'è nelle creature; ma tolto di mezzo il diavolo, anche il peccato originale non è più plausibile e infatti in molte presentazioni fattualmente si estenua e si sbiadisce fino ad essere la cifra dell'umana finitezza o, al più, la denominazione collettiva di tutte le colpe individuali, le quali a loro volta tendono ad essere considerate, non tanto come peccati responsabilmente commessi quanto come turbe psichiche conseguenti a squilibri congeniti o alla violazione di tabù senza fondamento. Insomma, prima si risolve l'idea del demonio in quella del peccato originale, poi si risolve l'idea del peccato originale in quella del peccato dei singoli, e infine si risolve quella del peccato dei singoli in un malessere senza colpevolezza. Così l’universo diventa una specie di giardino d'infanzia senza malvagità e senza malvagi dove però non si capisce più perché tanto spesso ci si imbatta nella ferocia umana e non si capisce più che senso abbiano la morte, il dolore e la Redenzione di Cristo. Un mondo così sarà anche bello, ma ha l'inconveniente di non esistere affatto. Questa è, a ben guardare, una falsa pietà verso la miseria umana, una pietà che ritiene di liberarci dal male aiutandoci a non credere più nel demonio e a vanificare la dottrina della colpa di origine, a banalizzare l'idea stessa di responsabilità personale. La vera misericordia, quella di Dio, batte la strada opposta. Il grande avversario comincia a essere sconfitto non nel momento in cui lo si rilega tra le favole, ma nel momento in cui lo si prende sul serio, in modo da prender sul serio la vittoria ottenuta su di lui dalla morte e dalla resurrezione del Figlio di Dio. Vittoria che quotidianamente si impianta nella vicenda di ognuno di noi, mediante la nostra crescente partecipazione al mistero pasquale. L'universale decadenza della natura umana, può essere superata solo partendo dalla persuasione che Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia. E dal mio peccato personale io comincio con la grazia di Dio a risorgere, non nel momento in cui lo ignoro o lo censuro psicologicamente, ma nel momento in cui, pentendomi, lo riconosco come atto veramente cattivo e veramente mio. Questo è il senso della proposta evangelica, della metanoia della conversione che Gesù ci ha indicato come necessaria premessa per la nostra salvezza. Il Vangelo non è la notizia che siamo già tutti innocenti per incapacità di intendere e di volere o perché i fatti non costituiscono reato; il Vangelo è la notizia che siamo tutti peccatori e proprio per questo siamo i fortunati destinatari dell'invincibile misericordia del padre. Secondo livello: interpretazione ecclesiologica. La parabola del grano e del loglio può legittimamente essere posta al servizio di una giusta visione ecclesiologica contro la tentazione di concepire la comunità cristiana come un'aggregazione di soli santi dalla quale sarebbero perciò da ritenere esclusi tutti quanti vivono nell'incoerenza e nel peccato. Come tutte le vere tentazioni, anche questa possiede un suo fascino e non ci meraviglia che si sia ripetutamente presentata nella cristianità a partire dai primi secoli; e che riaffiori ogni tanto, qua e là, ai nostri giorni. Possiamo anzi dire che non c'è appassionato dibattito pastorale in cui, presto o tardi, in forma più blanda o più radicale, qualcuno non arrivi a domandarsi se non sia il caso di inseguire con maggiore severità l'ideale di una chiesa composta solo di gente che viva davvero secondo il progetto esistenziale di Cristo; di una Chiesa, dunque, capace di estromettere dal suo seno coloro che nell'itinerario evangelico non tengono perfettamente il suo passo. La Chiesa però non ha mai pensato a se stessa come a una accolita di soli giusti, anzi, secondo lo spirito del Messia, è sempre stata riluttante a spegnere il lucignolo fumigante e a spezzare del tutto la canna incrinata.Lasciate che il frumento e la zizzania crescano insieme - dice il padrone - sorprendentemente ai servi; i quali avevano già optato dal canto loro per la linea della chiarificazione, cioè della durezza e della scelta immediata. Quei dipendenti avranno certa mente mugugnato tra loro, anche, che razza di padrone, non si rende conto com'è difficile che in queste condizioni il grano possa crescere bene. Non si accorge che con un campo così, con una Chiesa così, fa brutta figura anche lui agli occhi di tutti. Non riesce a prevedere le sofferenze che sta per infliggere sia alla graminacea buona sia a quella cattiva con una coabitazione così eterogenea e così reciprocamente fastidiosa. Ma il padrone è irremovibile: "lasciate che crescano insieme". Non è difficile supporre le ragioni tutte di misericordia che soggiacciono a questa decisione divina. Di là dall’immagine, qui si tratta di uomini che si comportano di volta in volta da figli del Regno e da figli del maligno. E per gli uomini come tali si può sempre e evangelicamente sperare prima che con la morte i giochi si chiudano, nel totale ravvedimento. Ravvedimento che va in tutti i modi facilitato, non reso più arduo. E poi chi di noi può dire di essere compiutamente coerente con la propria fede? Se l'incoerenza anche grave estromettesse dalla Chiesa, chi di noi potrebbe presumere del suo buon diritto di farvi parte? Infine, se ci abbandonassimo ad accusarci a vicenda, con criteri che spesso sono opinabili e cangianti, di indegnità ecclesiale, singoli contro singoli, gruppi contro gruppi, movimenti contro movimenti, cosa resterebbe alla fine del popolo di Dio? Il Signore desidera appassionatamente che la sua Chiesa viva in forma sempre più estesa e profonda, la sua vita di sposa e di corpo di Cristo. E perciò che non si stanchi di proporre a tutti i suoi membri, in modo forte ed efficace, il traguardo della perfezione evangelica. Ma sa altresì che essa, finché camminerà tra le strade polverose della storia, sarà sempre una comunione santa di uomini peccatori. Uomini che cercano senza scoraggiarsi di vivere da figli di Dio, da creature rinnovate, da fratelli in Cristo, pur nella consapevolezza di non riuscirci mai, in misura adeguata e soddisfacente. Il costruttore della Gerusalemme celeste è esigente, e ha disposto fin da ora, come dice l'Apocalisse, che non entrerà in essa niente di impuro, ma solo alla fine dei secoli la discriminazione piena e definitiva sarà fatta. Come si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Nel medesimo capitolo 13 di Matteo, un'altra breve parabola ci conferma in questa prospettiva. Il Regno dei cieli - dice Gesù - è simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci e quando è piena i pescatori la tirano a riva, e poi, sedutosi, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni; li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. La Chiesa è la rete che non li spezza, secondo l'immagine che raccogliamo dall'ultimo capitolo del Vangelo di Giovanni. La Chiesa si sforza di catturare nella sua missione apostolica ogni genere di pesci. Finché è immersa nella storia, il suo annuncio di redenzione e la sua proposta di vita nuova in Cristo devono raggiungere, per quel che di fatto è consentito, l'umanità intera, senza esclusione né di razza nè di cultura nè di condizione sociale né di precedente comporta mento. Certo, la Chiesa non potrà mai dimenticare la seria ammonizione di Gesù - non gettate le vostre perle davanti ai porci - perciò esigerà sempre la migliore disposizione d'animo in chi si accosta al Vangelo. Né potrà consentirsi di esercitare sugli animi imposizioni astute o violente. La sua è sempre e solo un'offerta della verità che salva, fatta agli uomini che hanno un'estrema necessità di essere salvati, ma che devono arrivare alla salvezza per una libera adesione del cuore. Sta di fatto che, finché dura la vicenda terrena, la ricerca dell'universalità che sempre ispira programmaticamente la sua azione apostolica, non dovrà mai essere inceppata o scoraggiata dall'illusione di arrivare a costruire una società di cristiani puri e perfetti. La selezione assoluta e definitiva non mancherà, ma è rimandata al momento in cui la storia sfocerà finalmente nell'oceano della vita eterna. Alla fine del mondo verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni. A prevenire ogni equivoco, sarà bene ricordare che la tolleranza vicendevole, indispensabile tra cristiani sempre imperfetti e sempre un po’ incoerenti, non significa affatto attenuazione dell'impegno a combattere l'errore, né ambiguità nella condanna del male. La coesistenza del grano e del loglio nello stesso campo di Dio vuol dire che dobbiamo avere molta pazienza con la concretezza dei casi umani. Non vuol dire che dobbiamo trattare con la stessa benevolenza la luce le tenebre e che si debba dare la stessa cittadinanza nella Chiesa, magari con la scusa del dialogo, alla verità rivelata e all'eresia. Né che si possa mantenere un'amabile neutralità nella guerra tra le porte degli inferi e la Chiesa di Cristo. E mi conforta in questa interpretazione la liturgia ambrosiana, la quale utilizza proprio in questo senso la parabola quando, facendo le lodi di un santo dottore, afferma che egli è stato mandato dalla provvidenza divina, perché fosse distrutta la zizzania disseminata dai propagatori dell'errore e fosse preservato nella Chiesa il puro frumento della fede cattolica. Chi vuol vivere in pienezza la vita ecclesiale è chiamato ogni giorno a lottare con lucidità e con energia senza lasciarsi incantare dal programmi di cedimento e di resa, che di questi tempi sembrano configurare nella cristianità quasi una smobilitazione dei credenti, con pochi precedenti nella storia. Ma anche senza mai pretendere che nella compagnia ecclesiale restino soltanto coloro che sono perfettamente adeguati ai modelli assoluti di perfezione o, peggio ancora, agli schemi di vita ecclesiale che un singolo o un gruppo ha percepito come vincolanti. E infine l'interpretazione antropologica. La lettura antropologica che si propone di riferire la figura del campo al mondo interiore dell'uomo, è giustificata non tanto dalla narrazione della parabola in se stessa, quanto dall’immagine che ripetutamente ritorna nella Rivelazione. Essa perciò potrà avvalersi solo di quegli elementi del racconto evangelico che convengono a questa particolare tematica. Già Isaia aveva parlato di Israele come della "vigna amorosamente coltivata dal Signore", la sua piantagione preferita; che però ha deluso il suo agricoltore dicendo: "Uva immangiabile". L'esortazione a produrre buoni frutti che appaghino il coltivatore ritorna sulle labbra di Gesù nei discorsi giovannei dell'Ultima Cena. "In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto; io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portate frutto. E di questi frutti che ciascuno di noi deve maturare per il suo Dio, San Paolo fornisce qualche elenco significativo, il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità, dice la Lettera agli Efesini, e nella Lettera ai Galati il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé. Tutta questa spirituale fecondità è possibile perché è instancabile l'agricoltore di Dio che si prende cura di noi. Voi siete il campo di Dio, ciascuno di noi è il campo di Dio. Del resto, sempre nel capitolo 13 di Matteo, immediatamente prima della parabola della zizzania, il Signore, spiegando la parabola del seminatore del terreno, aveva visto rappresentato appunto il cuore dell'uomo. Il cuore dell'uomo dove il seme della parola di Dio può incontrare, a seconda dei casi, una sorte ben diversa e avere una ben diversa fertilità. Una volta identificato il campo della parabola con il nostro mondo interiore, alcuni spunti di riflessione si impongono immediatamente. In primo luogo nasce in noi un vivissimo sentimento di speranza e di serenità. Noi, come dicevamo, siamo il campo di Dio, ciascuno di noi è il campo di Dio, il divino coltivatore è sempre all'opera su di noi. Sicché anche dopo ogni deludente raccolto possiamo sempre confidare in un avvenire futuro. Non può rimanere del tutto infecondo un terreno che è sottoposto alle cure sapienti e perseveranti del Signore. In secondo luogo, è chiaro che quanto di buono è prodotto nella nostra esistenza, si vede dall'eccelsa qualità del seme di cui siamo stati arricchiti. "Che cosa possiedi - dice San Paolo - che tu non abbia ricevuto? E se hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l'avessi ricevuto?". Ma l'approfondimento più prezioso ci è dato dalla scoperta che, quale che sia il grado di santità a cui si è arrivati, nel nostro mondo interiore il cattivo loglio, poco o tanto, si mescola sempre al buon grano. Il demonio, che pur è già stato sostanzialmente sconfitto da Cristo, esercita ancora, e la eserciterà sino alla fine della storia, la sua triste prerogativa di tentatore, e continua a profondere nella nostra anima i suoi germi malvagi. Il nostro cuore, dobbiamo persuadercene, è dunque perennemente afflitto dalle molte erbacce di male che mirano a soffocare in noi la coltivazione di Dio. Se non siamo troppo superficiali o vanesi, facciamo l'esperienza quotidiana della nostra molteplice perversità ed è una rivelazione che ci incute spavento. Una famosa battuta, amara ma ricca di universale verità: Amleto dice impietosamente di sé: "Io sono più o meno onesto, eppure potrei accusarmi di tali cose che meglio sarebbe che mia madre non mi avesse messo al mondo. Io sono orgoglioso, vendicativo, ambizioso, posso con un solo tratto evocare più peccati che non abbia pensieri per meditarli, immaginazione per dare loro forma, o tempo per compierli. A che giova che esseri come me striscino fra la terra e il cielo?". Dopo un'introspezione simile a questa, San Paolo, nella Lettera ai Romani, conclude con un grido di angoscia: "Sono uno sventurato, chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?". Ma risponde subito al drammatico interrogativo con un esplosione di riconoscenza per la liberazione che ci è stata donata: "Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore". Mantiene acuta la consapevolezza di questo suo stato interiore di propensione al male che può, pero, essere sempre vittoriosamente contrastato dalla grazia di Dio, vive un atteggiamento di profonda umiltà. Ed è un'umiltà che naturalmente si traduce in un'attitudine di dolcezza e di indulgenza verso gli altri. La coscienza dei nostri limiti e dei nostri errori ci fa passare la voglia di farci critici aspri dei limiti e degli errori altrui. È ovvio che per questa interpretazione antropologica, non varrà l'invito a lasciare che la zizzania cresca indisturbata con il buon frumento. Al contrario, vedremo come si impone un lavoro assiduo di ripulitura del nostro campo interiore. Ogni giorno riconosceremo che dentro di noi il loglio è ripullulato e ogni giorno dovremo darci da fare per estirparlo. Qui si profila per il cristiano l'evidente rilevanza di un robusto e tenace impegno ascetico che si appaghi dell'annuncio inebriante della liberazione e della nuova realtà esistenziale regalateci da Cristo. Chi non attende contestualmente all'opera di purificazione dei propri pensieri, del proprio linguaggio, delle proprie tendenze, delle proprie abitudini di vita, rischierebbe di ingannare se stesso e di illudersi pericolosamente. Però, dalla parabola possiamo raccogliere l'invito ad avere pazienza anche con noi stessi e con i nostri difetti sempre rinascenti. Il padrone che nel racconto esorta i servi alla calma e all'attesa, esorta anche noi a non lasciarci prendere nei nostri tentativi di liberarci dalle continue rinascenze del male, da un'insofferenza che poi potrebbe concludersi con lo sconforto e con la resa. Abbiamo un buon padrone che cura il suo campo con amore forte e tranquillo; noi però siamo chiamati a lavorare con lui in modo che il terreno risulti il più possibile mondo e ubertoso. Noi - ci dice ancora San Paolo - siamo collaboratori di Dio e dobbiamo dargli sul serio una mano, nell'opera della nostra salvezza e della nostra interiore coltivazione. E dopo la meditazione in tre punti secondo le regole classiche del seminario, siamo arrivati al momento dei propositi ed è una buona notizia perché vuol dire che siamo arrivati in fondo al nostro chiacchierare. Il primo proposito e la prima osservazione conclusiva è questa: non ci lasceremo incantare dalle varie ideologie, che si offrono a noi vantandosi di avere programmi infallibili per liberare l'umanità da ogni ingiustizia ed eliminare radicalmente il male dal mondo. Il male ha la sua vera scaturigine dal cuore dell'uomo, e per estirparlo non basterà mai il cambiamento delle strutture. Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia e stoltezza. Ogni ideologia che si è illusa di sistemare al meglio le cose mutando le condizioni esteriori è miseramente fallita.Spesso, anzi, ha dato vita a una società peggiore, per molti aspetti, di quella che intendeva superare. Certo si può e si deve anche adoperarsi ad avere forme più giuste e più efficienti di aggregazioni sociali; ma il reale miglioramento del mondo passa soprattutto attraverso la strada lunga e difficile della conversione dei cuori. E poiché nei cuori umani il male, come si è visto, è suscitato in ultima analisi dall'opera di potenze oscure e sovrumane come quelle del demonio, i nostri soli mezzi non servono a debellarlo. La nostra battaglia - è un'altra citazione di San Paolo che non dovrebbe essere dimenticata - non è contro creature di carne e di sangue. Cioè contro gli squilibri psicosomatici, o gli ostacoli di tipo politico-sociale. La nostra battaglia è contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male. Perciò noi non possiamo sperare di vincere da soli, ma dobbiamo combattere sempre e unitamente al Figlio di Dio il quale, proprio per questo, dice la lettera di Giovanni, è apparso. Per distruggere le opere del demonio. Secondo proposito. Poiché il Signore accoglie e mantiene nella sua Chiesa anche coloro che a noi sembrano cattivi cristiani, e poiché noi stessi probabilmente non siamo ai suoi occhi cristiani del tutto buoni, dobbiamo vivere la nostra vita ecclesiale senza intolleranze e senza durezze verso i nostri fratelli nella fede. Non giudicate per non essere giudicati. uno dei comandi più chiari e vincolanti del Signore Gesù. Gareggiate nello stimarvi a vicenda, dice ancora San Paolo. E San Giacomo ci mette in guardia contro lo zelo amaro e lo spirito di contesa che talvolta guasta, credendo di realizzarlo, anche un'amore sincero per la verità e per la Chiesa. È bello a questo proposito ricordare l'esempio di San Francesco, il quale aveva un suo programma attuativo del Vangelo, ma non ha mai fatto del suo ideale evangelico di vita ragione di rimprovero per chi si comportava in maniera diversa da lui. Né causa di divisioni e di accuse nell'interno della cristianità. Scrive al riguardo una delle più antiche biografie: "La leggenda dei tre compagni, Francesco insisteva perché i fratelli non giudicassero nessuno, e non guardassero con disprezzo quelli che vivono nel lusso e vestono con ricercatezza esagerata e fasto; poiché Dio è il Signore nostro e loro. E ha potere di chiamarli a sé e di renderli giusti". Il terzo proposito riguarda la nostra continua, come dire, rettificazione interiore, perché il male del mondo si combatte prima di tutto nel cuore. Lo esprimiamo con le parole di San Paolo ai Colossesi con le quali vorrei concludere questa meditazione: "Mortificate quella parte di voi che appartiene alla terra, deponete anche voi tutte queste cose, ira, passione, malizia, maldicenza, le parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Rivestitevi come amati di Dio, santi e diletti di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza, sopportandovi a vicenda, perdonandovi scambievolmente se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra di tutto vi sia la carità, che è vincolo di perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perchè ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie al Padre.
G. Cesana:
A nome di tutti voglio ringraziare Sua Eminenza per quello che ci ha detto. Prima di iniziare mi ha detto che la sua era la proposta di una meditazione che, aldilà dell'interpretazione pietistica che spesso viene data del tema, è un invito a cambiare vita, un invito a lottare contro la tentazione della smobilitazione; è un invito a resistere in questa guerra tra il grano e il loglio che pervade la nostra vita, un invito a lottare sempre di fronte alla tentazione di smobilitare, magari più che per gli errori degli altri, per i nostri. E siccome noi siamo consapevoli di questo, ringraziamo ancora una volta il Cardinale, invocando la misericordia di Dio e il sostegno della Chiesa, senza di cui non possiamo fare niente.