‘Tutta mia la città’: il partito di sindaci?
In collaborazione con Unioncamere
Venerdì 28, ore 12.30
-----------------------------------------------------------------
Relatori:
Gabriele Albertini, Sindaco di Milano
Enzo Bianco, Sindaco di Catania
Massimo Cacciari, Sindaco di Venezia
Albertini: L’elezione diretta dei sindaci ha portato alla sensazione percepibile di una fiducia dei cittadini in quello che si svolge. Le condizioni sono cambiate, c’è stata una sorta di rivoluzione morbida, discreta. L’elezione diretta dei sindaci ha ribaltato il rapporto tra l’eletto ed i suoi elettori, trasformando quello che era un semplice mandato fiduciario in un vero e proprio contratto: da una parte ci sono gli impegni presi in campagna elettorale, un programma identificato in una persona, e dall’altra la pretesa legittima, una volta che questa elezione è avvenuta, che questi programmi siano rispettati ed attuati.
I primi effetti di questo cambiamento sono quasi tangibili: a Milano, penso che oggi ogni singolo cittadino possa davvero sentirsi più azionista della sua città; io come sindaco, sindaco di tutti, a mia volta possa svolgere un servizio volto a raggiungere gli obiettivi comuni. Ritengo un obbligo morale, prima ancora che politico, ottenere il massimo dell’efficienza possibile in tutti i settori, in tutti i campi, siano quelli "alti" delle scelte strategiche o quelli apparentemente più modesti, ma che incidono sulla vita quotidiana. Questo nuovo scenario ci suggerisce anche l’opportunità di fare una riflessione seria e approfondita sul ruolo dello Stato e sul rapporto che il centro ha con la sua periferia.
C’è un termine difficile da pronunciare, per qualcuno ancora più difficile da assimilare: sussidiarietà. Credo che la sussidiarietà sia anzitutto un principio di libertà: non ci può essere progresso economico, sociale e spirituale se non in un quadro di libertà riconosciuta, difesa e promossa, e la libertà trova il suo punto di partenza nell’affermazione dei diritti naturali della persona e delle associazioni che si vengono a formare a secondo di quella che è una naturale e libera individuazione dei bisogni e delle attese. La discussione che, anche per merito del rapporto costruttivo della Compagnia delle Opere, si è aperta nel paese, non ha ancora - a mio giudizio - sgomberato il campo da alcuni equivoci.
Il primo equivoco è che si continua a limitare la titolarità della sfera pubblica unicamente al potere dello Stato. Il secondo equivoco consiste nell’identificare la sussidiarietà con il tema del decentramento dei poteri sempre nell’ambito dell’organizzazione statale. Senza una reale attribuzione di poteri alle persone ed alle loro associazioni, si rischia di compiere una operazione che piacerebbe molto al principe di Salina, cioè di cambiare qualcosa perché in realtà non cambi nulla. Se correttamente applicata, infatti, la sussidiarietà può sconvolgere tutte le vecchie incrostazioni di un potere che è troppo geloso dei propri privilegi.
Un lungo e faticoso cammino ci attende. Prendiamo il caso dei servizi alla persona, quelli che comunemente all’interno di una amministrazione comunale vengono chiamati servizi sociali. Bisogna chiedersi come questa nostra società così aperta applichi nei riguardi di queste realtà la sussidiarietà: quali incentivi vengono pensati per realtà come quelle? quali sgravi? quali servizi? e il sistema creditizio che cosa fa? per le imprese normali ci sono le Camere di commercio a loro tutela: per queste realtà che cosa c’è? forse c’è la Compagnia delle Opere, c’è il dibattito, c’è la coesione sociale... ma l’istituzione?
Milano è certamente la città con la più straordinaria presenza di realtà sociali, cooperative, fondazioni, enti non profit. A Milano circa 68 mila persone dedicano più di cinque ore alla settimana in attività non profit. È il record europeo in proporzione alla popolazione attiva. A Milano il comune, invertendo una corsa di decenni a inglobare ogni sorta di servizi, deve potersi svuotare - è l’obiettivo della nostra amministrazione - quanto più possibile di competenze impropriamente accaparrate e affidarle a chi ne ha fatto una scelta di vita e di lavoro. Il comune deve fare questo dando delle certezze, appalti pluriennali, di tre o quattro anni, così che queste realtà possano assumersi dei rischi imprenditoriali e creare lavoro. La ricchezza di motivazioni anche ideali, cristiane e non cristiane, le tradizioni solidaristiche che muovono tanta gente, devono poter diventare fattori costitutivi del mercato; così facendo si apre un circolo virtuoso che crea occupazione e quindi benessere per l’intera società.
Non sarà una impresa facile, perché è tutto il concepirsi del potere statale che combutta per negare questo guadagno di civiltà. Un dato per esemplificare. L’Italia ha una delle spese sociali fra le più basse d’Europa. Non basta. Questa spesa sociale oltre ad essere tra le più basse è destinata nella quasi totalità, circa l’80%, alla spesa pensionistica. La conseguenza è evidente. Fino a quando continuerà ad essere concepibile che un lavoratore vada in pensione a 35 anni non ci potranno essere risorse per i molti non profit, i giovani, i disabili, gli anziani. Il nemico principale per il mondo del volontariato sta in chi ostina pervicacemente a difendere i garantiti, a difendere sacche di parassitismo e di rendite anacronistiche, accumulate in anni di pratica compromissoria. Le risorse così destinate sono risorse sottratte ad altri. È come dire che il mondo del volontariato va bene fino a quando rimane confinato negli oratori e fino a quando rimane un mondo residuale, a cui forse molti di noi siamo legati sentimentalmente ma che non pretende certo di entrare da protagonista nella realtà di tutti i giorni, e che quindi non può e non deve avere futuro. Le persone, i cittadini, il loro stesso organizzarsi viene tuttora visto con sospetto. Lo Stato diffida di loro e per difesa trattiene potere, ritenendosi l’unico garante di una sua distribuzione ugualitaria, per definizione "giusta". Naturalmente non è così; la persona è il soggetto della fiducia di una pubblica amministrazione; sulla persona sulla sua capacità di costruire e rispondere ai bisogni occorre scommettere.
"Conoscere per decidere" era l’ammonimento di Einaudi. In questo ci hanno aiutato molto gli Stati generali della città di Milano, che abbiamo tenuto prima dell’estate. Hanno rappresentato per tutti noi, per la nostra città, per le sue varie componenti e nelle sue contrapposizioni di posizioni, una grande risorsa, un grande contributo, un percorso ideale al nostro agire. Abbiamo saputo ritrovare un orgoglio che sembrava essersi avvilito, dopo gli anni di Tangentopoli, dopo le discordie interne, dopo una amministrazione svogliata che non ha fatto neanche le cose essenziali per la città. L’abbiamo chiamata "la rivoluzione del buon cittadino", che non è soltanto uno slogan. In quella occasione abbiamo congiunto l’esigenza di dare una progettualità e un futuro a Milano e l’impegno presente a migliorare la qualità della vita, a prestare aiuto a chi ha bisogno. Dissi in quella occasione "avremo una città con uno spirito rinnovato, conscia del proprio ruolo di capitale del sud Europa, avremo una amministrazione più efficiente ed efficace che non spreca risorse e non le fa sprecare". Poche settimane dopo si avverava un primo e importante risultato su questa strada: la collocazione in Borsa del 49% delle azioni AEM, una operazione che impone a tutti di confrontarsi con il modello Milano. Questa esperienza della privatizzazione delle AEM è qualcosa di particolarmente significativo: ben 27.500 soggetti - è il record nazionale - hanno chiesto di comperare un pezzo di AEM; non esiste nessun precedente, né ENI né IRI hanno avuto una domanda così numericamente consistente come è avvenuto per l’azienda energetica di Milano. È stata venduta ai livelli, in base agli indicatori di bilancio, più elevati di tutte le aziende del settore in Europa, e ha portato alle casse del Comune di Milano una entità particolarmente cospicua. È stato un successo: fino ad allora le privatizzazioni in Italia erano state fatte con una logica di pura vendita, il cui obiettivo era far cassa, tanto che pur con l’enorme massa di vendita il disavanzo pubblico è stato inciso solo per pochi punti centesimali, e dal ‘92 ad oggi lo Stato è uscito progressivamente dalla chimica, dalla siderurgia, dalla termo-elettromeccanica, dalle industrie del vetro e dell’alluminio senza alcuna politica industriale. Con le AEM invece l’amministrazione comunale di Milano ha abbandonato la vecchia mentalità privilegiando in un’ottica finanziaria l’obiettivo primario che era e resta quello di ottenere performance migliori nell’interesse dell’azienda e soprattutto della collettività. I risultati del mercato sono stati che il titolo è salito, facendo guadagnare a moltissimi sottoscrittori - circa 250.000 cittadini italiani, milanesi e non, hanno sottoscritto azioni AEM - cifre anche notevoli, dando il segno di un percorso corretto che stranamente proprio lo Stato sembra ignorare. Uno dei motivi fondamentali per cui il titolo AEM è schizzato alto è proprio il fatto che i compratori erano consapevoli di ciò che sarebbe successo del restante 51%. È stato assicurato che l’amministrazione civica di Milano puntava a regolare il servizio, non a farlo essa stessa come proprietaria dell’azienda; di conseguenza in una prospettiva futura il controllo della società, in ambito di regole definite dall’autorità di governo sulla tariffa e sul servizio energetico, sarebbe stata esercitabile anche da privati; questo ha consentito agli investitori industriali di fare i loro conti e i loro investimenti.
Il segnale che è venuto da Roma dopo questo successo, purtroppo, è fortemente negativo. Lo stesso Stato che praticamente imponeva alle banche, ai soggetti privati, di ricontrattare i mutui ai tassi più favorevoli indicati dal mercato, rifiuta di farlo nella sua veste di banchiere pubblico, imponendo alle amministrazioni che bene hanno operato di pagare penali elevatissime per l’estinzione dei propri mutui contratti con la cassa depositi e prestiti. I 1.500 miliardi che ricaviamo dalla vendita della AEM si trovano in questa situazione: non possiamo restituire i mutui a tassi particolarmente elevati se non pagando una penale di 200 miliardi che ci viene graziosamente ridotta della metà a 100 miliardi perché lo Stato non ha, nel nostro caso, la condizione operativa di poterlo fare. È una grossa penalizzazione per chi è riuscito a realizzare un’opera pubblica.
Bianco: Come sindaci, i nostri azionisti di riferimento sono evidentemente i cittadini che ci hanno eletto, a cui dobbiamo rendere conto ogni giorno di quello che facciamo: o siamo in grado di fornire loro delle risposte concrete ai problemi di ogni giorno, o il nostro rapporto con la città si compromette. Come sindaci, abbiamo anche la consapevolezza che stiamo tutti tentando ricette analoghe a un problema di tipo istituzionale e a un problema di tipo politico.
Il problema istituzionale è che noi siamo abbastanza vicini ad avere raschiato il fondo del barile, ovvero a fare delle nostre città tutto quello che potevamo fare nella attuale condizione costituzionale e con quello che è il sistema dei poteri che viene attribuito ad un sindaco. Nell’attuale Costituzione italiana e nell’attuale condizione politica, i poteri e le responsabilità di un sindaco sono molto più ridotte rispetto a quello che è il mandato che i cittadini pensano di aver affidato loro: è questa la ragione per la quale il "partito dei sindaci" - come viene chiamato per una semplificazione giornalistica, in realtà è un movimento istituzionale dei sindaci di tutte le città d’Italia, quelli di destra e quelli di sinistra, quelli del Nord e quelli del Sud, quelli delle grandi città e quelle dei piccoli comuni - sono impegnati attivamente per spingere ad un cambiamento costituzionale e legislativo del sistema Italia. I colleghi del Nord-Est avvertono chiaramente un problema di competizione con le realtà vicine della Baviera, della Germania, dell’Austria; io come sindaco di Catania avverto l’esigenza di dare una prospettiva, una speranza a quei ragazzi che si laureano ogni anno all’università di Catania, anche con un buon livello qualitativo, e che non hanno alcuna possibilità di trovare sviluppo e occupazione.
A tutto questo non riusciamo a dare più una risposta da soli, occorre unire le nostre forze e spingere perché il sistema Italia sia più flessibile, perché una quota importante delle decisioni del nostro paese non si adottino a Roma, lontano dai problemi concreti, ma si adottino nelle città e nelle regioni. Ci vuole una forte spinta ad un cambiamento che decentri una parte delle decisioni nel territorio: questa spinta alla sussidiarietà non va portata soltanto nel rapporto fra le istituzioni centrali e quelle periferiche, va invece portata con coraggio anche nel rapporto tra i cittadini e le istituzioni locali. Nella mia città, se ho la prospettiva di dare una speranza, non posso pensare di mobilitare soltanto risorse pubbliche, finanziarie e umane. È questa la ragione per la quale ho firmato con piena convinzione e con consapevolezza la petizione popolare con la quale si chiede la modifica della Costituzione e si chiede che il principio di sussidiarietà oltre che essere applicato nel rapporto dei comuni e delle regioni con lo Stato sia applicato nel rapporto tra cittadino e istituzioni.
Oltre a questo problema istituzionale, c’è anche quello politico: credo che la situazione politica italiana non possa e non debba essere quella che si è cristallizzata attualmente nei due schieramenti del Polo e dell'Ulivo. Se alla fine di Tangentopoli, dei referendum, dei vari cambiamenti, fossimo arrivati ad un sistema che ha come unica prospettiva Polo e Ulivo, sarebbe una prospettiva molto buia, ed è la ragione per la quale in questi mesi molti sindaci che sono stati eletti nello schieramento dell’Ulivo hanno deciso di rompere con schieramenti ideologici.
"Tutta mia è la città": questo titolo potrebbe delineare un rapporto ambizioso di possesso con la città, ed è un rischio che noi corriamo ogni giorno; ma noi non pensiamo che la città sia nostra, noi pensiamo che all’interno delle città italiane, delle grandi risorse e delle grandi energie, sarebbe già meraviglioso se alla fine dei nostri mandati avessimo dato un contributo per liberare queste risorse.
Cacciari: Ritengo che quanto detto da Albertini e Bianco esprima esigenze elementari, o per meglio dire necessità del nostro fare il sindaco. Un’esigenza e non una strategia: è un’esigenza elementare quella di liberarsi di una serie di amministrazioni che finora i comuni hanno gestito in modo improprio. È una esigenza elementare: non c’entrano destra, sinistra o centro, sopra, sotto, perché se noi volessimo continuare a gestire i nostri servizi ai livelli di inefficienza ai quali li abbiamo ereditati, andremmo in bancarotta. Fino al Governo Amato infatti, quindi fino agli inizi degli anni Novanta, le amministrazioni comunali si reggevano su allegrissime politiche di deficit che venivano alla fine dell’anno riparate da generosi interventi statali: erano delle amministrazioni del tutto deresponsabilizzate. Da sette, otto anni a questa parte i trasferimenti dello Stato si vanno riducendo in termini assoluti di anno in anno, in modo pesantissimo. Ad esempio, in dieci anni il comune di Venezia - analogamente ad altri - è passato ad avere come percentuale di trasferimenti da altri dai tre quarti delle proprie risorse a un quarto: l’autonomia, dal punto di vista finanziario, ormai l’abbiamo, e dobbiamo cercare di recuperare i soldi in qualche modo, con l’impedimento incredibile - non è il solo, ma è il più incredibile - che non possiamo fare alcuna manovra finanziaria sui soldi che incassiamo, dobbiamo tenerli improduttivi. Se si vuole amministrare una città bisogna amministrarla così, non c’è altro da fare; la riforma che c’è stata, che ha responsabilizzato direttamente il sindaco, ha accelerato in questa direzione.
Vorrei che lo capissero - come l’abbiamo capito noi sindaci - anche i nostri consigli comunali, che si dilettano in straordinari giochi politici; la mia maggioranza viene di fatto ostacolata dalle minoranze, che sono quelle che a Milano hanno eletto Albertini. Ma ormai il problema non è più il tipo di appartenenza politica, il problema è chi governa e chi è in consiglio comunale, i consigli comunali devono interloquire in modo positivo, il loro mestiere non è quello di dire l’opposto di quello che dice il sindaco, qualunque cosa sia. Per questi motivi, nelle politiche di dismissione, di privatizzazioni ho sostenuto molte fatiche: io credo di aver fatto una importante politica di esternalizzazione, a volte creando società per azioni, a volte aziende, ma questa politica è stata ferocemente ostacolata dal consiglio comunale, la cui parola d’ordine è stata "dobbiamo controllare".
Siamo impegnati in una battaglia in un modo forse illusorio: qualche anno fa pensavamo di poterla risolvere abbastanza rapidamente, in realtà questa battaglia si colloca in un’onda storica di lunghissimo periodo. Bisogna esserne consapevoli. Federalismo, autonomia, principio di sussidiarietà, non sono delle "leggine" da conquistare con qualche maggioranze parlamentare, si tratta di una vera e propria rivoluzione all’interno della quale dobbiamo cercare di collocarci. Lo Stato moderno-contemporaneo infatti ha costruito le sue fortune relegando nel cosiddetto privato i corpi intermedi, per questo noi non ci troviamo a combattere contro qualche cosa di piccolo, ci troviamo a vedere se riusciamo a riformare radicalmente il principio essenziale e sostanziale dello Stato moderno-contemporaneo. Questo Stato ovunque, non solo in Italia, si è costruito nella sua filosofia e nel suo iure separando pubblico e privato e riducendo il privato a ciò che riguarda l’idiota, il comune.
Il federalismo non è decentramento al comune, alla provincia: federalismo vuol dire invece che la persona può svolgere ed assumere, organizzata adeguatamente e liberamente, in termini competitivi e professionali, responsabilità di valore pubblico e di valore politico. Questo è il principio di sussidiarietà: quando affermiamo questo affermiamo un principio rivoluzionario, quanto di meno moderato si possa immaginare, perché va contro il principio costitutivo che regola la politica del mondo moderno-contemporaneo e che regola tutte le istituzioni della politica. E infatti la Bicamerale è fallita perché tutte le forze politiche del nostro paese sono organizzate secondo il modello di quello Stato, sono organizzate in un modo assolutamente centralistico che contraddice nella sostanza ad ogni sussidiarietà. Partiti, sindacati, grandi organizzazioni di categoria, Confindustria compresa, tutti sono organizzati secondo quel modello di Stato, e questo conduce al fallimento, perché se ci fosse una cultura federalista, se la cultura federalista vivesse in tutte le forze in cui si articola la società civile, è evidente che anche a livello di rappresentanza parlamentare qualcosa di questa cultura diffusa filtrerebbe: una cultura autonomistica, una cultura federalistica, una cultura centrata sul valore del principio di sussidiarietà.
Un’ultima annotazione: non si creda, si commetterebbe un errore di principio, che questo discorso sul principio di sussidiarietà, questa declinazione forte e radicale del federalismo significhi disgregare lo Stato. Il nostro "personalismo" non è da confondere con il pensare in modo anarchico. Il problema difficilissimo che abbiamo di fronte è quello di combinare radicamento locale e riconoscimento della persona con riconoscimento del ruolo pubblico e politico delle associazioni, dei movimenti e delle correnti di ogni genere cui la persona dà vita. È il principio del coordinamento anziché del controllo burocratico. Il principio del coordinamento è fondamentale in quest’epoca globale: combinare il globale al locale , "mettere in rete" questo locale, è fondamentale, e non possono farlo i singoli, occorre un sistema che garantisca alla persona di raggiungere il massimo sviluppo delle sue capacità, stando in un contesto aggregato.
Questa è la sfida: o riusciamo in questo, o il mondo contemporaneo incorre in un pericolo mortale.